*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74597 *** NOVELLE DI GIOVANNI VISCONTI VENOSTA. FIRENZE. SUCCESSORI LE MONNIER 1871. Proprietà degli Editori AVVERTENZA. Ecco un libro, che, speriamo, si potrà dir popolare, nel senso più sano e più schietto della parola. Per lungo tempo i libri fra noi furono scritti da chi studiava perchè fossero letti solo da chi studiava. La letteratura era lusso, passatempo o mestiere. I tempi nuovi domandano una letteratura nuova, che ritragga le idee operative della società moderna, risponda alle aspirazioni più vivacemente sentite, e insegni il modo di adempierle, noti i vizi dei contemporanei e si studi di correggerli; sia scuola, educazione, apostolato. Quando nella nazione, non viva ancora, si svegliò potente il desiderio e la volontà determinata di essere, l’Italia cominciò ad avere una letteratura più pratica. Manzoni, Grossi, Azeglio dipinsero il passato per educare l’avvenire. Ora che abbiamo un presente, cominciano gli scrittori ad esercitarvi intorno l’opera loro. Giovanni Visconti Venosta è fra questi. Le vicende ch’egli racconta sono di ieri, e saranno pur troppo anche di domani: i personaggi che vi hanno parte, voi gl’incontrate tutti i giorni, e ciascuno di voi potrebbe dare a ciascuno di essi un nome proprio. Non angosce di grandi passioni, non pompa di declamazioni, non sfoggio di stile: non usciamo mai dalla vita quotidiana, dall’eloquio e dai costumi casalinghi; ma dalla bonomia ironica e tutta manzoniana del racconto scaturiscono spontanei gli alti insegnamenti, e al riso sano ed allegro provocato dalla barzelletta ingenua, talora si mesce una lagrima involontaria spremuta dai più nobili movimenti del cuore. Questi pregi, che ci hanno raccomandato il libro del Visconti Venosta, confidiamo che lo raccomanderanno del pari ai lettori. GLI EDITORI. UNA SCAPPATA FUORI DEL NIDO. MEMORIE DI ALBERTO. R.... nella valle di.... 1 gennaio 1864. Le due cose più brutte che ho vedute nella mia infanzia sono proprio quelle che non solo non mi uscirono mai dalla memoria, ma che ci rimasero anzi più scolpite e più vive. Le cose belle e ridenti trovano una via facile e armonica nella fantasia infantile, e l’attraversano rapidamente lasciandovi spesso poca traccia di sè. Queste due brutte cose erano una vecchia sorella del curato e un suo passero, e formavano nel mio pensiero una cosa sola; tanta era l’abitudine di vedere questi due esseri in compagnia. La sorella del curato infatti diceva d’avere, dal canto suo, circondato questo passero di tutti i suoi affetti, ch’erano quelli d’un celibato severo. Che cosa dicesse l’altro non so. Parmi che vivesse nel celibato esso pure; ma anche qui non so se fosse un celibato spontaneo, o un celibato imposto dalla sua amica per non introdurre alcuna disparità. Questo passero era zoppo e mezzo spennato; si faceva di solito tutto raggruppato e grosso; lasciava cadere un’ala a terra, e non teneva aperto che un occhio. Faceva le viste di non dar retta e di non accorgersi di nessuno; ma la sorella del curato diceva che capiva tutto, e che era un mostro di talento. Ella si era privata per lui del cocuzzolo di un celebre cappellino, che in sua gioventù aveva fatto fare apposta per andare alla città a vedere l’entrata di un vescovo. Se n’era privata, e l’aveva riempito di bambagia per farne un letticciolo, ordinaria dimora del passero. Fu questo uno di quegli atti di entusiasmo e di annegazione, di cui se ne riscontrano tanti nella vita della donna. La bruttezza di quel passero esercitava, non so perchè, un gran fascino sulla mia fantasia. Ogni momento, io correvo in casa del curato a contemplare il passero, e non me ne sapevo staccare, per quanto non ci trovassi proprio niente di nuovo. La sorella del curato, per mettere a profitto il mio tempo, mi enumerava frattanto tutte le virtù del passero, e me le proponeva ad esempio. Mi diceva però nello stesso tempo, come, prima d’essere diventato così tranquillo, obbediente e studioso, ne avesse fatta una grossa, la quale gli aveva procacciato il castigo d’andarne malconcio per tutta la vita. «Perchè bisogna sapere che quando egli era ancora nel nido sotto la gronda, ed era _grande_ poco più di te,» continuava la sorella del curato, «era ostinato, capriccioso, e non dava retta a nessuno. Aveva messe appena quattro pennuzze alle ali, e si era già fitto in capo di scappare fuori del nido, e di andarsene per il mondo. I suoi genitori, ch’erano pieni di esperienza, gli dicevano cose d’oro; ma lui si tirava in un cantuccio, alzava le spalle, non diceva una parola, e masticava con dispetto una pagliuzza del nido. Un giorno poi, mentre padre e madre avevano appena svoltato l’angolo della gronda, cosa fa il nostro bellumore?... Si tira sull’orlo del nido, e apre le ali. I suoi fratellini ebbero un bel pigolare, e tenerlo a tutta forza; egli lasciò loro una penna della coda, e spiccò il salto. Finì diritto sul fondo della corte; e fu un miracolo se non si ruppe il naso. Nella corte poi c’era un pilastro, e dietro il pilastro un gatto; il quale, pratico di queste cose, spiava da un pezzo il nido, e se ne stava accoccolato e tranquillo. Quando il passero ebbe spiccato il salto, lo spiccò anche il gatto....» «E allora?» esclamavo di solito io, quando la storia era arrivata a questo punto. «Allora» ripigliava la sorella del curato «in un attimo il passerino fu in bocca al gatto. Si dibatteva il poverello, e forse era pentito di cuore; ma il gatto intanto si studiava di mandarlo giù in un boccone. E ci sarebbe riuscito, se non fossi capitata io a salvarlo, perchè era proprio l’ora, per combinazione, in cui porto da beccare ai polli. Ma in che stato lo salvai! Mezzo biascicato, e sì malconcio che pareva proprio lì lì per spirare. Capisci, figliolo, cosa succede ai ragazzi disobbedienti! E dopo ce n’è voluta della pazienza, e poi.... e se non c’ero io....» E la filastrocca non finiva così presto. Più tardi, presso a poco sui quindici anni, quando presi a sdegnare queste inezie, e mi diedi tutto ai gravi pensieri, misi anche la storia del passero tra le cose di cui non mi era più lecito il ricordarmi. A furia di pensieri gravi, finii un giorno a fare anch’io qualche cosa che doveva rassomigliare di molto alla scappata fuori del nido. In allora, e voglio dire dopo che fui scappato anche dalla bocca del gatto, ripensai subito alla storia della sorella del curato, e mi parve che la mi andasse così a taglio da poterne riprendere il filo narrando per conto mio. Questa idea mi ronza per il capo da un pezzo, e a placarla piglieremo la penna. Incomincerò coi ricordi di quando ero sotto la gronda; poi verrò al salto, alla corte, al gatto, e al letticciolo di bambagia.... ma sarò breve, come dicono quegli oratori che vogliono additare essi medesimi qualcosa di buono nel loro discorso. * * * Il curato del mio paese, che, pover’uomo, morì l’anno passato, aveva il ticchio dei nomi eroici. Non gliene scappava uno; chi nasceva nella sua parrocchia, nasceva nell’antichità. Da trent’anni le comari sostenevano una lotta infelice a favore dei _Carl’Antonio_ e dei _Giovanni Battista_, e da trent’anni non si battezzavano più che dei _Timoleone_ e degli _Epaminonda_. I miei compaesani ne susurravano un poco, e si dolevano di non avere ciascuno il suo santo protettore; si dolevano che non ci fosse nell’anno un giorno anche per loro da berne legittimamente un boccale di più. Pareva loro che il non avere un avvocato in paradiso fosse una disgrazia per lo meno eguale all’averne uno su questa terra. Il mio buon curato cercava allora una via di mezzo, e di tanto in tanto accomodava le faccende con qualche _Ciriaco_ o con qualche _Aniceto_. Ciò però non bastava a tranquillarli tutti, e ce n’era di quelli che dubitavano alquanto di non essere abbastanza cristiani. Talchè, in seno alla famiglia, e intorno alle scodelle della minestra, questi _uomini grandi_ ricevevano, il più delle volte, il secondo battesimo d’un nome un po’ più da galantuomo, come dicevano i miei compaesani, d’un nome alla buona, che servisse negli usi domestici come la giacchetta da lavoro. Ma non si lasciavano intendere dal curato; e, appena fuori dell’uscio, se chiedevate a qualcuno: «Come si chiama questo vostro bamboccio?» vi sentivate rispondere, con voce rassegnata, per lo meno «_Pisistrato_.» E il buon curalo gongolava tutto nell’accarezzare per strada qualche piccolo Ercole che perdeva le brache, o qualche Demostene che lo fissava con la bocca aperta e con un dito nel naso. «E tu come ti chiami?» domandava talora il curato, e l’altro si faceva tutto rosso per non poter rispondere: «Giovannino;» e non ricordandosi il nome vero, o imbrogliandosi a metà, metteva fine alle domande con una lunga piagnucolata. Di questi bambocci che piangevano in grazia del loro nome, dovevo un giorno ricordarmi paragonandomi a loro, quando anch’io ebbi a trovarmi gli occhi gonfi di lacrime: e pensavo che il mio nome c’era pur entrato per qualche cosa. Il curato cercava i suoi nomi tra i greci e i latini; spennacchiava Plutarco e i classici maggiori e minori. Poi saltava nei tre secoli della persecuzione della Chiesa, e ci faceva anch’egli le sue stragi. Qualcosa gli offrivano anche i tempi di mezzo; un po’ meno i tempi nostri, a cui forse non giungeva che per un certo riguardo a Napoleone I. A quali tempi fosse il mio curato, quando io venni al mondo, precisamente non lo so. Egli mi diede il battesimo, e mi chiamò Adalberto. Mi poteva capitar di peggio. Eppure io avrei ben di cuore cangiato di nome col mio curato, il quale si chiamava semplicemente _don_ Carlo: nome di cui certo il buon uomo si affliggeva nel profondo dell’animo suo. Gli è ben vero che di questa sua afflizione egli non ne aveva fatto motto mai con alcuno; ma io che, abusando della dimestichezza che avevo con lui, tante volte spinsi gli occhi sugli scartafacci del suo tavolino, tra le minute dei conti e dei ricordi, tra le asticelle e i ghirigori, avevo pur letto il suo nome ripetuto in cento guise, a modo di sperimentare la penna, e avevo veduto ch’egli scriveva _don Karl_, come un re franco della prima razza. I miei di casa, per amore di brevità, mi chiamavano praticamente Alberto, ad eccezione di mio zio, lo speziale, che era il luminare della famiglia, e che, non solito a transigere, mi chiamò sempre Adalberto fin dai miei primi vagiti. Io dunque non ignoravo il mio nome, e frugando per tempo tra i libri dello zio (dacchè lo zio me li aveva tutti severamente proibiti), avevo trovate delle vecchie storie piene di tarli e di nomi simili al mio. Così, a dodici anni, nella mia cameretta, e di nascosto dallo zio, a cavallo d’un bastone, io ero Adalberto che partiva per la Palestina, e che salutava, col cappello di carta a tre punte, una _bella_, il ritratto della nonna appeso al muro. Altrettanto faceva un guerriero, dipinto sul paracammino del mio camminetto. Egli partiva; e le piume del suo cimiero toccavano il naso della sua bella, che in quel momento spuntava dalle vetrate socchiuse d’un alto verone del castello. Il cielo era buio: la luna, che conosce i suoi doveri, spuntava tutta rossa, per finger forse le sue maraviglie, tra nubi candide di bucato; e pareva il torlo d’un ovo sul tegame in mezzo alla chiara. Per farle velo, e conciliare la sua presenza con la sua modestia, le si avvicinavano alcuni neri nuvoloni e le piume del guerriero. Questa scena io l’avevo rimirata più volte, e la mia fantasia ne era stata vivamente colpita. _Adalberto!_ esclamavo quand’ero solo, panneggiandomi nel mio nome, alzando la fronte, e misurando la mia cameretta a passi lunghi e gravi. _Adalberto!_ e spingevo un’occhiata dietro la schiena, per vedere che effetto facesse il mio nome sopra di me. Ma c’era un guaio: il guaio che dietro il nome veniva un cognome, il quale aveva pochissimo a fare con le crociate. Il mio cognome, che è pur quello d’un centinaio forse de’ miei compaesani, è modestissimo, e non ricorda nulla, proprio nulla di strepitoso. A me ricorda le virtù modeste di mio padre e di mio zio: ai più vecchi di me quelle di mio nonno, e la illibata rettitudine della loro coscienza e del loro onore. Ma più in là non ne so nulla. È probabile che abbia anch’io degli antenati, e che i miei vecchi non sieno sbucati dalla terra come i funghi dopo una pioggia d’estate. È probabile che i miei antichi abbiano fatto anch’essi quel tanto di bene e quel tanto di male, di cui si compone la storia dell’umanità: ma le carte vecchie hanno taciuto di loro, il che vuol dire che in loro non hanno trovato mai nè virtù così alte, nè bricconerìe così basse, da mandarne illustri per sempre i figlioli e i nipoti. Ma il solito paracammino mi toglieva in allora a queste riflessioni tranquille. Decisamente io rifiutavo il mio cognome. Buon per me che anche i miei, come quasi tutti quelli del paese, avevano un soprannome; un soprannome, in cui potevo trovare quel rifugio e quei conforti che m’erano negati dal cognome. Cinquant’anni prima ch’io venissi al mondo, da un ciglione della montagna, alle cui falde giace il mio paese, staccossi una frana che mise a nudo un largo tratto di roccia. Se di quell’evento se ne parla ancora nel mio paese, figuratevi quanto chiasso ne avranno fatto i nostri buoni vecchi! E figuratevene poi la paura! Poichè mi si conta che fosse opinione generale di tutti quelli che in simili faccende _ci vedono_, che quella prima fetta di montagna venuta giù non fosse altro che un primo saggio: ma quanto prima, si diceva, sarebbe capitato il rimanente, sarebbe venuta la _vera_ frana, la quale avrebbe sepolto tutto il paese, e fattane scomparire perfino la ricordanza. Che cosa si fa? Sui due piedi dunque si decreta, si acclama di innalzar su quel monte una cappelletta dedicata al santo protettore del paese; i più agiati fanno voto di tirar di penna sui debitucci dei più poveri, e di chiudere un occhio sui fitti di quell’anno. Ma passa un mese, ne passano due, ne passano tre, e pare che la _vera_ frana voglia pigliare le cose con comodo. Allora quelli che _ci vedono_, proclamano e ripetono «quel che han sempre detto» che la montagna per circa due secoli non si moverà più. La cappelletta e i fitti sono mutati in una processione, e molti la rendono più solenne andandoci scalzi; così risparmiano anche le scarpe. Mio nonno, che faceva l’oste, intanto che i suoi compaesani con la bocca aperta, e le mani dietro le reni, speculavano sulle crepature del monte, sulla cappelletta, sui fitti e sui due secoli di agio, con le mani dietro le reni anche lui osservò che da una larga fessura della roccia, lasciata a nudo, tirava un’aria fresca e tutta nuova, quale non si era mai sentita in quel posto. Ci fece da solo le sue visite e i suoi scandagli; s’avvide che la natura, provvida sempre, gli aveva dischiuso una deliziosa grotticella capace di due botticini e d’una credenza per il salame. Una voce in cuor suo gli disse subito che delle frane non ne sarebbero cadute più, e divenne il conforto de’ suoi compatriotti! Chiuse in parte la fessura della roccia; ci mise un uscio; tirò su un bel muro e, per non far le cose a mezzo, l’affidò al pennello d’un artista, l’autore credo del mio paracammino. L’artista lo dipinse a mattoncelli antichi, a screpolature secolari, e a erbacce d’una vegetazione di tempi ignoti, in modo da farne un venerabile avanzo di un evo discretamente remoto. Ma non gli bastò. Compiuta l’opera, per renderla sempre più antica, ci aggiunse una medaglia a chiaroscuro, che fingeva in bassorilievo una testa di Diogene, con le screpolature anch’essa, e con le erbe. Ma anche il Diogene non bastò al nostro pittore, il quale dichiarò al nonno che ci voleva ancora qualcosa di più antico; che ci volevano i merli. Il nonno, sazio di spender quattrini, per quanto rispetto avesse per il pittore, fu sulle prime inflessibile contro i merli. Ci furono dei grossi guai. Alla fine si venne a un compromesso: il mio avo si arrese, ma non ne concedette che sei; e il pittore li foggiò diroccatissimi, e avvolti anch’essi nella solita antichissima erba. Il pittore s’incaricò anche dell’insegna, che rimase fino ai miei tempi, e che diceva così: _Alla ròcca merlata, vino fresco che pare impossibile_. La fama della _ròcca merlata_, dove il vino si faceva squisito per naturale virtù del luogo, divenne così gigante e così generale nei dintorni, da offuscarci in allora perfino i fasti e le geste di Giuseppe II contro i Turchi. La _ròcca merlata_ diede il nome a tutta la falda del monte; diede il nome a tutto il vino che vendeva mio nonno; e diede il nome a mio nonno stesso, che d’allora in poi fu chiamato in tutto il distretto _l’Andrea della ròcca merlata_. Mio nonno morì: la fama della _ròcca merlata_ andò scemando, a dir vero, e lasciò parte del suo posto alle nuove rinomanze dei tempi: ma i vecchi del paese, conservandosi devoti al culto delle passate memorie, non vogliono berne che di quello della _ròcca_, e alle nuove generazioni insegnarono con l’esempio a chiamare la gente di casa mia col nome dell’antica grotticella. Tale era dunque il soprannome nel quale io mi rifugiavo ogni qualvolta mi accingevo a partire per le crociate. L’avessi almeno lasciato in Palestina!; ma lo tirai fuori in altre spedizioni ancor meno felici; me ne vestii non solo quand’ero a cavallo della granata, ma lo ripresi anche dopo aver messo il dente della sapienza. Ho camminato con esso, superbo di tanto paludamento, finchè esso mi si attortigliò per le gambe, e io diedi del naso in terra, come un eroe da teatro diurno. Ora non lo riprendo più; e nel riandare queste mie prime memorie ne vorrei ridere di cuore, se, in fine della commedia, l’eroe burlato non fossi stato proprio io! * * * Quand’ebbi toccati i dieci anni, un congresso di famiglia decise de’ miei destini. Il maestro del mio paese dichiarò ch’io ero il Napoleone dell’_analisi_, e l’Alessandro il Grande dell’_aritmetica_; ch’egli mi aveva ormai insegnato _tutto_; ch’ero un mostro di talento, e che sarei morto quanto prima. Per quanto mi rincresca il distruggere la premessa del mio maestro, mi è forza confessare che sono ancor vivo. La qual cosa io devo senz’altro al maestro che ebbi subito dopo, il quale invece non seppelliva così presto la sua scolaresca, e ci dava a tutti, e a tutto pasto, dell’_asino_. Io ero dietro l’uscio il giorno in cui mio zio, dopo avermi detto con molta gravità che mi ritirassi, fece risolvere mio padre sul conto mio, e trionfò degli ultimi dubbi che lo facevano pensieroso. «S’io non avessi la fortuna o la disgrazia, direi meglio, d’essere troppo profondo conoscitore degli uomini,» diceva mio zio, «esiterei; direi fors’anche, fate voi.... Da qual cosa credete voi che provengano tutti i mali della società? Provengono da ciò, che gli uomini non trovano quel profondo conoscitore che dica loro: tu sei nato per questo, e tu per quest’altro; e così i poveretti sbagliano strada, ed è allora che tralignano, che si perdono.... Credete voi che se io non avessi fatto lo speziale, sarei ora quel che sono? Io oscillerei come un pendolo, cercando il mio vero centro di gravità, e sarei, come tant’altri, un uomo da nulla.... Era ancora in collo alla balia Adalberto, e non faceva che picchiare con le sue manine su tutti i miei vasi e su tutte le mie ampolle. È un segno, vedete, questo! è un segno!... Egli vi rompe tutti i bicchieri dell’osteria, ma guardate un po’ s’egli ruppe mai una sola delle mie storte! Sono segni, vedete! sono segni!... Sta bene che il figliolo, come dite voi, ha da seguire di regola il mestiere del padre; ma ci sono le eccezioni per quelli che devono battere le grandi vie loro segnate dalla Provvidenza. Vostro figlio deve fare lo speziale!... Poco monta a tant’altri che la loro bottega vada un giorno chiusa e venduta: lo capisco. Ma.... la polvere che distrugge la _Mantis religiosa_ di Linneo fu scoperta, chi non lo sa! nel mio laboratorio; e questo, capirete, impone dei doveri alla famiglia....» Non udii che questo. Ma poco dopo, mio zio uscito di camera mi fece un sorriso, e, piantatosi dinanzi a me, mi guardò con una insolita benevolenza e mi accarezzò. Non c’era più dubbio: in quel sorriso io mi sentii diventato un farmacista. Per qualche tempo non bollirono nella mia fantasia che storte ed ampolle, e dal campo dei crociati trapiantai i miei castelli in un avvenire di pillole e di decotti. Io ero uno _speziale_! e guardavo i miei compagni d’alto in basso, come quando dicevo loro: io sono un _guerriero_. Imitavo il fare grave di mio zio, e come lui mi ravvolgevo talora mezza la faccia in una cravatta bianca; tiravo il berretto giù fino al naso, e di nascosto mi inforcavo gli occhiali. Correvo nella cucinetta, che mio zio chiamava il suo laboratorio, e componevo con un po’ di tutto degli empiastri ch’io chiamavo le mie scoperte, e che dovevano rigenerare la società, e far diventare poi me principe, millionario, generale d’armata, e fors’anche secretario comunale. La mia ambizione non aveva confini, e la mia fantasia non si fermava che tratto tratto, per qualche giorno, quando m’accadeva di mandare in frantumi qualche vaso o qualche ampolla. Ruppi anche le famose storte, che mio zio aveva dichiarate al sicuro d’ogni guasto per fatto mio: ne accusai ingenerosamente un gatto, e fui creduto dallo zio, che vedeva nel nuovo colpevole una conferma della sua teoria. Lo zio però, che, come dissi, non era uso a transigere, compose subito un empiastro, e lo divise in ventiquattro parti. Arrotondatele, le sparse per il laboratorio, con la missione di propinare il veleno a quel gatto, che, per quanto fosse un individuo della casa, pure se ne mostrava degenere. Eravamo da capo con Filippo II e Don Carlo. Alla voce del rimorso, raccolsi di soppiatto quelle pillole insidiatrici, e ne posi al loro posto altrettante di midolla di pane. Il gatto se le mangiò più volte tranquillamente, e mio zio ne farneticava. Quando un giorno.... io forse ne dimenticai una, e il povero gatto lo si trovò, dietro l’uscio, lungo disteso. Ne fui afflitto; e ne fu ben afflitto anche lo zio, il quale aveva già annunziata una scoperta, e incominciato uno scritto, _sul nesso tra i gatti e i principali veleni_. * * * Spuntò presto l’alba d’una vigilia del san Carlo, e con gli abiti nuovi e tutto intirizzito, fui messo in una vettura con sei seminaristi, e spedito al capoluogo della provincia in un collegio, per esservi allevato, diceva mio zio, dalle Muse; primo passo verso il cammino della spezieria. Da un mese io ero tutto sossopra dietro questa grande novità del collegio, e la mia fantasia trovava nuovi sogni dorati tra cui aggirarsi finchè voleva, trattandosi di cosa che non sapevo che mai si fosse. Il giorno poi che feci la prova generale del vestito da collegio, e che mi trovai sotto a un cappello quale lo portava l’imperial regio Delegato in giro per la provincia, avvolto in in una cravatta bianca e in un abitone, dalle cui falde non mi spuntavano che i piedi, pensatelo voi, come mi sentissi in rivoluzione! Non mi tenevo più nella pelle; non m’accorgevo che le mani fossero imprigionate nelle maniche e le orecchie nel bavero: precorrevo gli anni con l’immaginazione, e già mi sentivo all’altezza e all’ampiezza del mio vestito. Mi pareva che il giorno in cui l’avessi indossato, e per sempre, io avrei toccata a un tratto la realtà di tutti i miei sogni, e mi sarei trovato un uomo fatto, un cavaliere antico, un re, uno speziale, o che so io. Venne il giorno: eppure, per quanto lo avessi indosso quest’abito di tutte le felicità, come misi il piede sul montatoio della vettura provai un novissimo sentimento di mestizia, che mi serrò il cuore e mi fece venire voglia di piangere. Lasciata la casa, e dentro in quella vettura, mi parve quasi di non esser più figliolo di nessuno. Io avevo veduti partire altri fanciulli per il collegio, tra i baci e le paroline delle loro mamme, e mi pareva che non dovesse essere poi tanto brutto un distacco in mezzo a tante carezze. Ma io partivo senza un bacio, senza una parola; e in quel momento, forse per la prima volta, ebbi coscienza d’un fatto, su cui la mia mente così giovanile era trascorsa fino allora, senza quasi comprenderlo: io avevo perduta, e quasi nemmen conosciuta mia madre. In quella prima tristezza che mi scendeva per istinto nel cuore c’era tutta la storia, fino allora inavvertita, delle mie sventure infantili. Non eran solo i baci di quella mattina che mi fossero mancati: erano le mille cure amorose e previdenti, era una guida sicura, carezzevole e buona, che, a differenza degli altri fanciulli, io non avevo trovata a compagna della mia prima giovinezza. Quale fortuna sarebbe stata per me, se tutte le fantasie della mia mente avessero sempre trovata vicina quella bontà che piega e non spezza, che persuade e non costringe, e si fa amare quando ammaestra! Lo zio, a cui dovevo succedere nell’arte, reclamò per tempo da mio padre la mia educazione; e per lo zio l’educazione era un empiastro fatto di certi principii e di certe dosi da comporre e spedire, come una ricetta. Così la prima, e la più dura esperienza della vita, la feci tutta a mie spese. Io fui dunque consegnato al vetturale e ai sei chiericotti, i quali per tutto il viaggio non fecero altro che mangiar noci, senza che uno, neppure in fallo, ne offrisse una sola a me. Non gli ho dimenticati quei chierici per un pezzo. Tempo fa ne ritrovai uno, e facendo con lui una gran baruffa per il potere temporale, di cui non voleva cedere una briciola, mi risovvenni ancora di quelle noci. Mio padre mi aveva congedato con un bacio la sera innanzi e mi aveva detto: _sii sempre buono_: poi, quasi gli fosse passato un brutto pensiero, s’era a un tratto tutto rannuvolato. So che a mio padre doleva assai il vedermi partire, e che solo ci si era rassegnato per i grandi ragionamenti dello zio. E mio zio, che quella mattina era tutto in faccende intorno a un decotto che bolliva, non mi accompagnò nemmeno alla vettura, ed ebbe appena testa da potermi dire: «Svelto, svelto, che son sonate le sette.» Il vetturale, come fummo giunti ed ebbe stropicciati con la paglia i suoi cavalli, mi consegnò al portinaio del collegio, e il portinaio mi condusse poi dinanzi al rettore, che era un abate e che mi fece subito un centinaio di domande. Io non risposi alla prima; e, non so perchè, rimasi duro coi denti chiusi fino all’ultima. Allora il rettore mi fece condurre nel dormitorio dicendomi: «Voi siete un asino.» La mia educazione era incominciata. Un po’ per quella malinconìa del mattino, un po’ per il piglio brusco del rettore, il cuore mi traboccò, e diedi in un pianto dirotto. Qui incomincia la storia del collegio, la storia degli anni chiamati i più belli della vita, e su cui passo di galoppo e facendomi il segno della croce, come si passa per una strada dove si è incappati ne’ malandrini. Tale è la bella pagina che i miei educatori hanno impressa nella mia tenera mente, che aspettava da loro l’impronta maestra di tutta la vita! Dopo tre mesi di educazione, io ero già qualificato dal rettore come _epicureo_, per l’appetito che avevo portato dai miei monti; come _falsario_, per avere scritto il còmpito d’un compagno che non aveva saputo farlo; e come _propalatore di principii pericolosi_, per aver detto che il brodo della minestra era tutto acqua. Immaginatevi che cosa fossi in fin d’anno! Fors’anco divenni un po’ cattivo in verità. Mi ricordo che, quantunque novizio e piccioletto, fui presto amico dei più grandi, i quali di tanto in tanto mi facevan persino l’onore di incaricarmi di qualche mariolerìa per loro conto. Intanto il rettore andava sempre più persuadendosi ch’io avevo bisogno d’esser tenuto con una mano di ferro. Scoperse che in me c’erano i germi di tutti i delitti; e per un pugno che diedi a nome d’un amico, mi appese al collo per un mese un cartellone su cui stava scritto: _sicario_. Scoperse parimenti ch’io ero uno zotico, un montanaro, uno spaccalegne, e che non conoscevo neanche i primi rudimenti della creanza. Così intraprese a insegnarmela da capo: ma, se ho a dirla, il mio buon rettore, a furia di insegnar creanza, decisamente l’aveva insegnata tutta, e non gliene era rimasta più nè per lui, nè per me. Il peggio fu che andava frattanto scrivendo allo zio cose di fuoco sul mio conto, e lo persuadeva a non richiamarmi per le vacanze d’autunno, perchè non avessi a perdere il frutto di quelle prime sementi di cui, con tanta fatica, mi aveva messo a coltura. S’io ne fui furente! Da quel giorno mi dichiarai in istato di guerra: guerra delle più accanite, che io cominciai col fingere un appetito insaziabile per far dispetto al rettore, e farlo perdere a lui; gettando per giunta dalla finestra quanti pani mi capitavano in mano, e che non riuscivo a mangiare. Io non sapevo rassegnarmi. Avevo poi in cuore un’ansia, un’inquietudine, quale non avevo provata mai; mi pareva che una voce secreta mi dicesse: «corri a casa tua.» In quell’autunno morì mio padre. Io non lo seppi che molti mesi dopo. Mio zio non aveva avuto coraggio di scrivermelo, e aveva incaricato il rettore di darmene a poco a poco la triste novella, e i tristi conforti. Il rettore ne incaricò il _prefetto_, il quale me lo annunziò un giorno come un castigo del cielo per le mie sbadataggini, e per non so quali sgorbi sul quadernuccio del latino. * * * _Spartaco!_... e nient’altro che _Spartaco_! Ecco la gran conclusione a cui ero arrivato dopo quattro anni di latino. Altro che i decotti! I classici, che dovevano guidarmi in grembo alle ricette, tradirono mio zio: quattro anni soli di latino m’avevano già condotto a Spartaco! Sì; io sognavo di spezzare le catene del collegio, di dichiarare liberi tutti, e, sulla base delle vacanze universali, stabilire un ordine di cose più giusto. Il mio disegno, che nella pratica avrebbe forse incontrato delle difficoltà, dopo avermi reso per qualche tempo felice, incominciò anch’esso a lasciarmi di nuovo solo, stanco, stizzoso. La mia giovane fantasia, irrequieta, ardente, aveva trovato chiuso il campo gentile degli affetti domestici, e sbarrato l’alveo diritto d’una educazione autorevole e soda. Condannata a schiudersi da sola una via, prese a correre, a ingrossarsi, a straripare. Così se dallo stagno modesto ove ora mi ridussi, guardo il cammino percorso, di me non trovo che un po’ di schiuma e un po’ di chiasso. Spartaco se n’era andato! Le catene del _banco dell’asino_, e del galateo del mio rettore, si erano fatte pesanti più che mai. Il campo delle cattiverie, dei dispettini, delle scappate, ormai era mietuto. M’ero fatto grandicello, e cominciavo a disprezzare il rettore, e a sentirmi molto al di sopra del prefetto. Ma il mio animo, invaso sempre da un vago sentimento di inquietudine e di stizza, si crucciava in cerca d’un modo di azione, d’una formola sotto cui protestare e agitarsi, d’un altro Spartaco, insomma, che non mi piantasse così presto. E il nuovo Spartaco venne! Tra gli alunni più grandicelli e anziani del collegio, che mi favorivano, come dissi, la loro protezione, c’era un certo Marcello B..., uno dei primi della scola, tanto negli studi che nelle risse; capo di tutte le combriccole, ma di un gran cuore, e che ci teneva tutti in una certa soggezione. A Marcello io avevo chiesto molte volte qualche savio consiglio, che m’aveva poi fruttato il pane e acqua; e nelle principali questioni lo avevo sempre avuto dalla mia. Marcello, da un anno, trascurava un po’ le baruffe; aveva preso un fare misterioso; e ogni mese, quando andava a pranzo dai suoi, per alcuni giorni era tutto intento a leggicchiare di nascosto, con tre o quattro tra i suoi più fidi, dei libruzzi e dei foglietti stampati. Io non ne capivo gran che, nè m’ero arrischiato di parlargliene. Quando un giorno Marcello mi tirò da parte, sul finire della ricreazione, e, fissandomi tutto serio, mi dice all’orecchio, mentre mangiavo pane e ciliege: «Quali sono le tue opinioni politiche?» Io rimasi di stucco, come a una domanda di lingua greca. Le _opinioni_ e la _politica_ non m’erano parole affatto nuove; le avevo udite, ma senza curarmene: nè sapevo precisamente che cosa volessero significare. Marcello, vedendo ch’io tacevo, mi replicò all’orecchio, e questa volta ancor più misteriosamente: «Sei tu repubblicano?» — «No;» risposi allora franco, parendomi di leggere negli occhi di Marcello che dovessi rispondere così. «No?» riprese Marcello, «me ne duole; ciò vuol dire ch’io non potrò mai accettare un portafoglio con te.» E bruscamente mi volse le spalle. Anche il portafoglio! Decisamente non m’era capitato mai, fuorchè nello studio del greco, di non capir niente, niente da capo a fondo, come questa volta. Un portafoglio da dividere con Marcello!... e quelle altre parole!... Marcello che mi leva la sua protezione!... e io non capirne niente! Mi sentivo umiliato, confuso; e più ci pensavo, e meno ci trovavo modo di imbroccarne una. Delle cose del quarantotto, avvenute due anni prima, a dire il vero, io ne avevo capito poco. Mi ricordavo che il rettore in sulle prime aveva date delle ammonizioni severe ai più grandi, per certe ariette che questi zufolavano pei corridoi; poi si era parlato di guerra; poi ci si fece cantare tutti delle canzoncine sull’Italia e Pio IX. Si studiava poco; il rettore s’era fatto mansueto come un agnello; e alla fin di luglio ci lasciarono andare tutti a casa. Al san Carlo, il rettore era tornato brusco come prima; e un giorno ci disse nella scuola, «che dei guazzabugli dell’estate non se ne parlasse più; che Cesare aveva vinto Pompeo; e che tutto era finito bene.» Così, se prima ne avevo capito poco, molto meno dopo. Mio zio non era uomo da grandi confidenze coi ragazzi, e, se mi faceva qualche parola, era per parlarmi dei doveri dello _speziale_. Una volta però io avevo scoperto che lo zio era andato di notte, e con gran mistero, al casino della _ròcca merlata_; e il famiglio di casa diceva in secreto d’averci portato, nascosto in un barile, un antico berretto di velite del regno d’Italia, che lo zio aveva cavato fuori _durante i mesi del Provvisorio_. E qui a un dipresso finivano le mie nozioni in politica. A queste cose andai ripensando, dopo le parole di Marcello, e le richiamavo alla memoria come le larve d’un sogno. Eran pure le sole a cui potessi connettere la parola _politica_, forse la meno nuova tra quelle dettemi da Marcello. E se fosse tutt’altro? Insomma non me ne potevo dar pace. Alla fine, dovetti pur venire a una risoluzione. «Confesserò ingenuamente a Marcello che io non ne so nulla di tutte le cose che mi ha domandate; me le spieghi, e io sarò del suo parere.» Attesi con impazienza la mattina del giorno seguente, la colazione, e la mezz’ora di riposo che le teneva dietro. Il mio animo si era tutto rasserenato. «Sì,» dicevo tra me, «domattina dopo la colazione sarò _repubblicano_ anch’io; Marcello sarà ancora mio amico, e mi avrà insegnata anche quella diavolerìa del _portafoglio_!» * * * Due mesi dopo le spiegazioni di Marcello, quell’affaruccio degli Austriaci in Italia non era più per me che una questioncina di poco momento, un atomo impercettibile destinalo a scomparire colla vicina caduta del _capitale_ e dell’_io_. Marcello me le aveva spiegate queste cose semplicissime, in un modo chiaro e lampante. Io però le ripetevo a buon conto tutto il giorno tra me, perchè avevano una singolare tendenza a sfumare come le nubi. «Peccato» dicevo io, nel fare la mia valigia in fin d’agosto; «peccato che mi deva dividere così presto da Marcello! I libri però dove ha imparato tutto quello che sa, gli ha promessi anche a me. Intanto non vorrei dimenticarmi le cose cardinali.... questi foglietti li nasconderò tra le calze.... L’importante dunque è che scompaiano gli _individui_ e che non rimangano che le _masse_.... poi, che traverso all’emancipazione della donna e del pensiero, si costituiscano gli Stati Uniti d’Europa.... il cui governo sarà un triangolo formato dall’eguaglianza, dalla fratellanza e dalla libertà....» E così riandando i punti principali della scienza di Marcello, mi avviavo al mio paese per le vacanze d’autunno, in quella solita vettura ove era già messa in pratica la teoria di sopprimere l’individuo in favore della massa. Per chiarirmi un po’ le idee, mi misi a leggere l’_Organisation du travail_, uno dei libri datimi da Marcello. Non ne potei capire una parola. «E dev’essere tanto bello!» pensavo tra me. «Ecco come si insegna il francese in collegio! È la cospirazione dell’oscurantismo; è il rettore che si frappone tra una gioventù _alitante_ di fede e i trovati dell’avvenire!» Così detto stupivo di me stesso, trovandomi salito in così poco tempo a tanta altezza di parole e di pensieri. Per quell’autunno dovetti quindi accontentarmi dei foglietti sottili a caratteri fitti, e di certi opuscoli in lingua italiana, i quali pure mi fecero nascere il sospetto che anche della lingua nostra me ne avessero in collegio celata una parte. Lo zio intanto, persuaso ch’io fossi speziale fin nel midollo delle ossa, non capiva talora come avessi mutato d’abitudini; come non soffiassi più nel fornello con tanta lena; come girassi il pestello nel mortaio con così poco entusiasmo. «Ma siccome nei casi dubbi io vado diritto al metodo analitico,» diceva egli un giorno al curato sull’uscio della bottega, «così scoprii che mio nipote legge di giorno, e legge di notte. Esce poco di casa, e ha di già sul tavolino il decimo volume del mio dizionario botanico. Lo misi per tempo al fornello, ed è là che ha capito d’essere nell’empirismo. Ora la sua impazienza lo porta a un assaggio precoce della teoria; la teoria lo trasporterà di galoppo nella pratica, e la pratica nella teoria. Son cose che io ho predette fin da quando l’ho destinato a questa professione.» E io che l’avevo udito dalla finestra, ritornavo alle meditazioni profonde, ai solitari giri della mia cameretta; e crollando il capo dicevo tra me: «No! io non sarò mai un venduto nè della spezieria, nè dell’_io_! Io non appartengo che all’umanità!» Così passavo, leggendo e fantasticando, i giorni interi nella mia cameretta. Era l’antica cameretta, che mi aveva veduto salutare la _bella_ imitando, a cavallo d’un bastone, il guerriero del paracammino. Al paracammino ritornava qualche volta il mio sguardo, ma non vi leggeva più nulla; non ci ritrovava più i sogni, le emozioni d’una volta. «Come c’invecchiano» dicevo tra me «gli studi pratici, i _trovati_ dell’avvenire!» E a ogni nuovo pensiero era una passeggiata per la camera e una fermata alla finestra. Che se poi vedevo spuntare da lontano un elmo che mi annunziava il gendarme del paese, subito mi ritiravo, gustando la voluttà del sentirmi compromesso. E tornavo ai miei studi, alla mia scienza, agli opuscoli e ai foglietti di Marcello. Leggerli e rileggerli; fantasticarci sopra, e capirne poco, era tutto il mio grand’affare. Ma i forti pensieri mi avevano così alienato dai decotti e dalle malve, che il mio maggiore studio era di lasciarmi trovare men che potessi dallo zio, cambiando il supplizio dei fornelli con un esilio nella mia cameretta. La noia però veniva piano piano a sedersi vicina alle mie nuove meditazioni, e cercava sedurmi fin col tintinnìo degli aborriti pestelli: poi, mi conduceva e riconduceva alla finestra, a farmi fare le cento volte capolino in strada, o a tenermi intento a spiare dalle stecche della persiana. Di là cominciai a guardare e riguardare la bionda testolina d’una fanciulla del fornaio, che aveva la bottega presso la nostra farmacia. La fanciulla usciva il dopo pranzo col panchetto sull’uscio a lavorar di maglia o a cucire, non saprei dire con qual punto, ma con punti che mi parevano piuttosto lunghi. Che strani capelli aveva quella fanciulla! Erano biondi; ma così lucidi, così chiari, così fitti che ti parevano un piccolo pagliaio, o una matassa di seta scompigliata. Non valevano a tenerli a dovere nè il pettine, nè le trecce, nè la dirizzatura: la rivolta era generale e permanente. «È un indizio!» pensavo tra me: «sotto quei capelli deve battere un cuore libero, indipendente!» Il fascino di quei capelli andava crescendo a ogni occhiatina ch’io mandavo loro dalla finestra. Le cose un poco strane mi seducevano sempre. La fanciulla che non s’era mai accorta di me, di tanto in tanto alzava gli occhi in su, e guardava le rondini che, passando, pareva la salutassero col loro acuto pigolio. Io mi facevo indietro, e mi sentivo montare il rosso al viso, quasichè ella mi avesse veduto e avesse udito i miei pensieri. Rimanevo un poco in agguato, zitto e senza battere palpebra; poi, piano piano, ritornavo a far capolino. Cos’era questa nuova agitazione, che non mi lasciava lontano un pezzo dalla finestra, e mi faceva spiare le rondini, sperando che tutte passassero per di là?... «Spiare le rondini, che ragazzata!» dicevo io, e pieno di vergogna ritornavo al tavolino degli opuscoli e delle forti cartoline. Ma anche nelle cartoline c’era un’insidia, e quei foglietti pieni di sorelle e di amanti, al cui grembo dovevamo correre a riposarci subito dopo la vittoria, conciliavano a maraviglia i capelli biondi con la nazione armata. Io sentii il dovere urgente d’avere una sorella o un’amante. La mia fantasia fece in breve una lunga strada, come era suo costume. Ci furono dei soliloquii sull’amore nello stile di quelli sulla politica. Mi pareva già che l’esperienza delle due cose fosse in me profonda del pari; e a ragione. Non aspettai più le rondini per guardare in giù. Quali visacci facessi a quella fanciulla per rapirla in estasi, non lo so; certo non dovevano essere i più belli, perchè la poverina finì, io credo, col prenderne paura, e non si lasciò più vedere. E allora? Allora il san Carlo s’era fatto vicino, e addio capelli biondi.... bisognava ritornare alle Muse. Il tempo volava: che cosa dovevo far io?... Scrissi; scrissi una lettera alla figliola del fornaio, sfoggiando tutto quel poco che avevo letto sulla emancipazione della donna, sul suffragio universale, sull’imposta unica e progressiva.... una lettera amorosa insomma, destinata a far colpo, dacchè non ci ero riuscito con la mimica. La vettura, i bauli, gli addii della mia partenza avrebbero fatto chiasso; la figliola del fornaio sarebbe ricomparsa sull’uscio, e il fatal foglio avrebbe toccato il suo destino. La mattina venne, e questa volta mio zio, più tenero del solito, non mi abbandonò un minuto. «Studia, figliolo,» andava dicendomi, «e l’anno venturo ti farò fare un passo da gigante.... ti metterò alle pillole!» Tutto era pronto; il vetturale non tollerava altri indugi; io mandai tutto all’ingiro un’ultima occhiata, ma i capelli biondi non erano comparsi. E io giunsi in collegio con la mia lettera in tasca. * * * Napoleone intanto, senza dirlo nè a me, nè a Marcello, aveva fatto il colpo di Stato. Marcello però lo seppe; ma dopo. Una sera, Marcello che aveva passata la giornata a casa sua, rientrato in collegio, radunò i suoi amici politici, ch’eran cresciuti di numero; e, caldo delle cose udite, ci narrò gli ultimi avvenimenti e la _rivoluzione_ del Bonaparte contro il popolo francese. Il caso era grave: le parole di Marcello erano piene d’ira, e noi «che cosa si fa?» pensavamo: e siccome la risposta non veniva, mandavam fuoco dagli occhi, in mancanza di meglio. Finalmente io ruppi il silenzio, ed esclamai: «Bisogna agire!» Tutti mi guardarono, lieti d’avere questo peso giù dalle spalle, e che l’idea fosse venuta a me. «Sì, bisogna agire....» replicai, ma il difficile stava nel continuare. Feci una pausa: nessuno fiatava. «Agitiamoci!» ripresi.... e, per fortuna, suonò in quel momento la campanella che ci mandava tutti a dormire, e che a me apriva una scappatoia. «A domani» dissi allora, senza perder tempo, accorgendomi di tutta la responsabilità che m’ero tirata addosso, per avere aperto bocca per il primo. Come fui a letto, incominciai a fantasticare su questa maledetta idea che i miei compagni si aspettavano da me; e me la pigliavo con loro, perchè fossero stati così sciocchi da non averla saputa trovare essi medesimi. Finalmente l’idea buona capitò: quell’idea, voglio dire, che in tali frangenti pare sempre la migliore; l’idea di chiudere gli occhi per il momento, e di pensarci all’indomani. Venne l’indomani, ma io non ci avevo pensato. All’ora della ricreazione ci fu il ritrovo promesso. Io tacevo; e, con mia sorpresa, m’accorsi che nessuno si curava ch’io parlassi. I miei compagni avevano trovata una insolita parlantina: a ciascuno premeva di metter innanzi le proprie idee, nella previsione che sarebbero state meno avventate e pericolose delle mie. I discorsi e i progetti politici cadevano sul modo di finirla con l’Europa e col collegio; cadevano sul colpo di Stato e sul rettore, che era il nostro Napoleone visibile. I più fregavan le mani, e dicevano: «Addio collegio, chi sa che cosa va a nascere!» A qualche altro pareva già di udire il rumore d’una rivoluzione per le strade. Quelli che vedevano gli affari un po’ meno color di rosa, e avevano la pazienza un po’ più lunga, speravano in un movimento slavo. Qualche altro, ancor più moderato, pur ammettendo che dovevano succedere dei grandi avvenimenti, limitava per il momento le sue aspirazioni a tramare di soppiatto qualche cosa contro la credenza o la cucina. Marcello taceva; gli altri evidentemente non erano maturi. Toccava a me: non si era concluso nulla di energico, e già gli occhi di tutti mi erano addosso, aspettando che dessi io il motto, per venirne a una. Se la riflessione non aveva saputo dirmi nulla, l’ispirazione a un tratto venne a levarmi d’impiccio. Mi passò per la fantasia, come un lampo, l’ultimo bigliettino dell’_amico X_, e la musa fu trovata. Tornando indietro un passo, come spesso occorre quando si contano le novelle, dirò di volo chi fosse l’_amico X_. Chi fosse? Veramente io non lo sapevo: non l’avevo nè udito, nè veduto mai; ignoravo perfino come si chiamasse. Però avevo per lui un’adorazione cieca, profonda. Io mi sarei fatto appiccare, se ne avessi ricevuto l’ordine firmato _X_. Il fratello maggiore di Marcello era in comunicazione diretta e continua con costui; ma neppure lui sapeva bene chi si fosse. Gli opuscoli, i foglietti, che Marcello portava in collegio, venivano da costui: a costui si mandava l’obolo mensile per gli _Stati Uniti d’Europa_; e c’era, in ricambio, la parola d’ordine per la quindicina, le notizie, le istruzioni in parole brevi, ma che trascinavano nelle più alte sfere della perfezione umana. In un momento d’entusiasmo per l’amico _X_, Marcello gli aveva direttamente inviata, per mezzo del solito contrabbandiere, una lettera in cui gli parlava della sua ammirazione per lui, della sua fede, de’ suoi propositi, e dei compagni di collegio che, discepoli ieri, erano in oggi apostoli fatti. Gli domandava la sua amicizia, e gli metteva a disposizione la propria testa, come tenue contraccambio di tanto onore. L’amico _X_ rispose: rispose poche righe, ma nientemeno che tutte di suo pugno. «Un autografo!» diceva Marcello. Quelle righe le imparammo subito a memoria, ed eccole qua: «Giovine amico! »Sì, giovine amico, gli eletti ascrivono voi e gli amici vostri tra i loro correligionari; la Fede vi ascrive tra i suoi apostoli armati. Voi siete la nuova gioventù; gioventù piena di candore e di fuoco; poema vivente, che ricongiunge la coscienza dell’oggi alla tradizione di secolare pensiero. Benedette le madri, che si incinsero in voi! Benedette le fanciulle del vostro amore, che comprimono sotto un pensiero di patria i palpiti del cuore, per salutare d’un sorriso il sacrificio del vostro apostolato! «L’ora è sonata! L’udite voi, o giovani, questa novissima voce di turbine, innanzi a cui si schiantano e le querce e le dighe secolari? L’udite? È l’alba della rivoluzione sociale! Sì, giovani amici! All’annunzio d’un fatto, fate arma d’ogni cosa che ha ferro! È capo chi guida: guidate! Guai a chi si arresta; guai a chi vi parla di localizzazione di moti! Sdegnate i consigli prudenti; sdegnate quei moderatori vostri, che, diseredati della tradizione del vero, vi porgeranno il veleno di una esperienza fallace. »X.» «E voi ci pensate ancora?» esclamai io dunque ai miei compagni, i quali appunto perchè mi avevan veduto pensarci più di loro, si aspettavano la risposta da me. «Ancora ci pensate? Per pensarci più a lungo, bisogna essere diseredati della tradizione del vero! Che cosa diranno le fanciulle del nostro cuore? _L’ora è sonata!_ ci fu detto: le istruzioni le abbiamo avute: _all’annunzio di un fatto sorgete!_ Il fatto è avvenuto: a quest’ora la rivoluzione europea è scoppiata. Udii questa notte un lontano rumore verso i monti, un rumore cupo, indistinto, come di voci, di comandi, di gente che si affolla. È la rivoluzione che occupa a quest’ora le gole e i grandi passi dei monti. Luigi Bonaparte, e il suo preteso colpo di Stato, i despoti e le diplomazie che cosa sono mai! A quest’ora. Polacchi, Rumeni e Montenegrini sono in armi, e scendono dai monti! Sa il cielo come è vasto a quest’ora il movimento sociale! Agire entro le mura del collegio, cospirare contro il rettore, sarebbero tutte localizzazioni di moto. Osiamo! La rivoluzione è incominciata: noi siamo attesi: noi siamo in ritardo....» «Ma.... e come si fa?» interruppe uno di quelli della localizzazione del moto. «Discendenti di Spartaco! Vi arrestereste voi dinanzi all’antiporta del collegio? Che cosa dirà l’Europa di noi!...» Io avevo vinto. Da un subito mutarsi delle facce de’ miei compagni, m’accorsi d’aver finalmente toccata la corda giusta. Raggiante del mio trionfo, e compreso della mia superiorità, incominciai a dare ordini e a formare disegni. _È capo chi guida_, aveva detto l’amico X, e io avevo in quel momento la coscienza, se non il brevetto, d’essere per lo meno colonnello. Cresciuto alla scuola militare de’ miei foglietti di contrabbando, potei in quattro parole riassumere ai compagni i cardini d’una strategia molto più comoda dell’antica, per la quale ci volevano eserciti e battaglie campali, e rimaneva tuttavia il rischio di perdere. Le istruzioni a stampa ch’io tenevo, mi avevano insegnato a distruggere i più grandi imperi e le più inveterate tirannie, con mezzi sicuri e semplicissimi. «Voi troverete forse» dicevo misteriosamente ai miei compagni «chi vi parlerà ancora delle migliaia di battaglioni e degli eserciti regolari. Utopìe del passato! Voi vi dovete ricordare che un uomo di buona volontà può moltiplicarsi all’infinito, e ingrossare come una valanga. Questa valanga è l’uomo-milione; l’eroe collettivo! Troverete chi vi parlerà di denaro, o di finanze, come dicesi nel vecchio linguaggio. Rispondete che se a loro le angherìe e i cento balzelli non bastano, voi con due soldi al giorno, pagati da ogni italiano spontaneamente, avrete quasi mille milioni all’anno!» Dinanzi a queste prove matematiche di strategia e di finanza, nessun ragionamento in contrario avrebbe potuto reggere: ogni dubbio, se pur ce n’era alcuno, svanì ne’ miei compagni. L’entusiasmo fu generale, le deliberazioni furono prese all’unanimità. Si deliberò nientemeno che di svignarsela tutti, sull’imbrunire, dal collegio, per non far attendere più a lungo i nostri fratelli della rivoluzione europea. Marcello taceva. Le mie parole avventate non l’avevano punto persuaso; ma c’era un progetto ardito da compiere, un pericolo da affrontare, e ciò bastava perchè Marcello accettasse la sua parte senza discussione. Ci demmo ritrovo all’antiporta del collegio; e là, se avessimo trovato il portinaio in uno di quei brevi intervalli in cui, per sbraciare colla palettina il caldano, dava sosta al sonno, là si sarebbe deciso, se conveniva farselo amico con un po’ di quattrini, o metterlo in disparte con un po’ di pugni. Dataci la mano, fatto un giuramento solenne, ci lasciammo, impazienti che venisse l’ora del tramonto per compiere l’impresa. Per giunta, ciascuno promise di condurre qualche altro compagno di quelli che non erano della congiura. L’ora del tramonto venne. Il cuore mi batteva forte, e mi diceva che questa era la più grossa di quante mai ne avessi fatte. Data un’occhiata di intelligenza ai compagni che mi dovevano seguire, quatto quatto uscii dal camerotto della ricreazione. A salti fatte le scale e i corridoi, fui in un attimo all’antiporta, e ci trovai Marcello. Spiammo il portinaio.... Dormiva. Ma non eravamo che noi due. «Siamo i primi,» dissi a Marcello: e fummo anche gli ultimi. Il silenzio profondo, la tranquillità della strada, mi lasciavano qualche dubbio sulla insurrezione universale. Si poteva udire il ronzìo d’una mosca, ma non si udiva voce alcuna di insorti. Un’altra voce piuttosto udivo dentro di me, una voce che in tutta confidenza mi diceva di tornare indietro e di andare a cena. Ma l’agitazione, il dispetto, il puntiglio mi cacciavano innanzi; così, tra queste due forze contrarie, io rimanevo immobile, e per primo, contro le mie stesse ingiunzioni, _localizzavo il moto_. Quando a un tratto, la voce del rettore che ci chiamava tutti e due rintronò per i corridoi del collegio, e in un accento che già ci annunziava essere perduto, se non l’onore, il pane e il formaggio per quella sera. Marcello allora mi scosse e mi gridò: «Avanti!» In due salti attraversammo lo stanzone del portinaio; io giunsi fuori dell’uscio per il primo e misi piede nella strada. Ma intanto il portinaio, che dormiva e non dormiva, aveva già pigliato per le falde del vestito Marcello, e iniziata una lotta che doveva finire col trionfo del potere. Al primo accorgermi di quel tafferuglio, io m’ero fermato, e stavo per slanciarmi in soccorso di Marcello. Quando, due mani colossali e vigorose d’un anonimo, che mi colsero alla schiena, mi fermarono di botto, e mi costituirono prigioniero. Non mancai di dibattermi alla meglio, facendo arma di tutto, come dicevano le mie istruzioni militari, fin dei denti e dei tacchi. Udendo il passo di qualcuno che capitava, cominciai a gridare, sperando, a dispetto questa volta delle istruzioni, un alleato. Era un soldato austriaco, che tutto d’un pezzo, colla pipa in bocca, e il passo flemmatico, tirava diritto, senza neppure voltare la faccia dalla parte ove io gridavo a tutta gola. Gli Slavi non erano insorti! Quest’ultimo disinganno venne a compiere la mia sconfitta; e poco dopo tra un viavai di prefetti e di camerieri, io e Marcello eravamo dinanzi al rettore. Chi era quell’anonimo che mi ricondusse in collegio, lasciandomi il segno delle sue dieci dita nelle braccia? Era il cuoco del collegio, quel cuoco col quale avrebbero voluto intendersela i moderati! Così, io e Marcello fummo chiusi in camera per una settimana: Napoleone potè incominciare tranquillamente il suo regno; e in collegio il brodo della minestra rimase lungo come prima. * * * Da sessant’anni, la politica aveva solo due volte leggermente increspate le acque tranquille del mio paesello. La prima volta fu quando un giacobino del capoluogo venne a piantare sul sagrato l’albero della libertà. I curiosi erano corsi in frotta, credendolo l’albero della cuccagna; ma, quando si accorsero che non c’erano i polli, se ne andarono per i fatti loro: così contano alcuni di quel tempo. La seconda volta fu nel quarantotto, quando mio zio tirò fuori il berretto da velite, e lo tenne in capo per quattro mesi, giorno e notte. Questi due avvenimenti erano per il mio paese le colonne d’Ercole della politica: non si andava più in là. Finiti gli anni del collegio, e da un anno staccatomi dal mio Marcello, dopo avergli giurata però fedeltà fino alla morte, mio zio mi richiamò a casa per fare pratica di farmacia, e quindi avviarmi all’Università. Io mi aspettavo, in buona fede, di ritrovare anche il mio paesello commosso dai grandi problemi sociali, persuaso com’ero che ogni nuova pagina delle mie letture, ogni teoria, ogni idea nuova per me, fossero tutte luminose scoperte che corressero ed agitassero il mondo intero in quel momento, come agitavano ed esaltavano me stesso. Ma sia che i grandi problemi sociali avessero presa altra strada, o fossero tuttora in cammino, per quanto mi facessi a interrogare e a cercare, nessuno si _agitava_, nessuno _dubitava_ con me. Dubitavano alcuni che, per il lungo asciutto, i fieni sarebbero stati scarsi; ed altri, che l’oste avesse tagliato il vin vecchio con quel nuovo. «_Queste sono aberrazioni d’uomini, ma non di popoli_,» dicevo sulle prime, col mio autore, e continuavo nelle mie ricerche. Parlai dell’imposta progressiva, e mi fu risposto che si preferivano le imposte stazionarie. Nessuno pensava a distruggere il capitale; nessuno ne aveva ribrezzo! Nessuno insorgeva contro il salario; anzi, chi ne era senza, faceva di tutto per averlo. Nella mente di quei villici non si agitava nessun vasto problema; e, se correva qualche scappellotto, non era mai in nome dei grandi principii dell’avvenire.... nemmeno in nome di quelli dell’ottantanove! Mi persuasi che questi villani non erano _popolo_, e che il _vero popolo_ doveva essere tutt’altra cosa. «Ma la vita è missione!» dicevo tra me. «Costituitevi sacerdoti, agitate!» Solo non sapevo da qual parte incominciare; non sapevo chi dovessi agitare per il primo. Agitare mio zio?... il curato?... il fornaio?... Dopo maturo esame, incominciai il mio apostolato giocando a briscola, nella bottega del tabaccaio, con due spiantati che ci passavano la giornata a bicchierini d’acquavite. Trovai in questi due, che la sorte fece poveri e dimenticati, una così pronta intuizione delle più ardue questioni sociali, da sperar bene dell’umanità. Inflessibili nei principii, ed uomini pratici soprattutto, mi svelarono fin dal primo giorno che il fornaio era un aristocratico, e che bisognava dare un esempio. Orgoglioso di questo mio primo successo, ripresi più alacremente il mio apostolato di agitazione, anche al di fuori della bottega del tabaccaio. Sminuzzai il pane della scienza; cominciai dalla costituzione dei valori e dall’organizzazione del _buon mercato_. Ma quegli zotici, anzichè demolire l’idolo dell’_io_, presero a ridere di me. In breve furono tutti convinti che avevo, come si dice nel mio paese, dell’_estro_, cioè una vena di matto. Io mi confortavo, ripetendomi che queste erano «aberrazioni d’uomini, non di popoli,» e continuavo più che mai ad agitare, non fosse altro, me stesso. A poco a poco tutti mi si facevano più lontani, fuorchè il caporale dei gendarmi, il quale mi si faceva un po’ più accosto. Deluso e sconfortato, feci ritorno alla bottega del tabaccaio, ove almeno, dicevo tra me, c’è potenza di fede, c’è coscienza di popolo e di azione. Il mio curato, di tanto in tanto, pigliandomi a braccio, cercava d’acquietarmi un po’, confutando la mia scienza col buon senso, o con esempii dell’antico Testamento. Ma tutto era inutile, e il buon uomo di soppiatto mi indirizzava persino dei segni di croce, nel dubbio che qualche demonio ci avesse la sua parte. Mio zio, per essere uomo troppo severo, non mi ammoniva mai. Una prima mancanza non era un fatto abbastanza grave per lui, da farne oggetto d’una sua ammonizione: e l’ammonire per una seconda, era quanto il confessare d’averne lasciata una impunita. Mio zio, in questi casi, per levarsi d’imbarazzo, ricorreva alla sua teoria, che cioè «nelle contingenze difficili della vita, bisognava innanzi tutto procedere all’analisi dei fatti.» E con ciò aveva ogni volta l’opportunità di qualche grande discussione di filosofia col curato, nella quale, coll’appoggio di molti autori e di molti testi di chimica, riusciva di una incontrastabile superiorità. Mio zio teneva dietro in silenzio a queste mie smanie di plasmare e fondere tutti gli uomini della terra, di fare scomparire ogni ineguaglianza, di rendere tutto di un medesimo colore; e presto s’era accorto di tutta l’analogia che c’era tra le mie teorie e quella del far le pillole. Nei grandi assiomi, ch’io tracciavo a brevi linee su qualche fogliuzzo di carta, o che proclamavo come trovati indispensabili per la salute della società, egli ravvisava una precoce tendenza per le ricette, una fede indomita nella farmacia. Convinto dunque mio zio, che tutto il male proveniva dallo squilibrio, in cui si trovavano le mie forze intellettuali con la mia posizione sociale, pensò di sciogliere la questione con un colpo decisivo, e mi mise alle pillole. Povere pillole! Bisognerà però che torni indietro un passo, per spiegare ancor più chiaro in quale disposizione d’animo me le pigliassi. Era ritornata da qualche tempo in paese la bionda figliola del fornaio, che non avevo più riveduta, dopo la lettera che le avevo scritta e che m’era rimasta in tasca. Era tornata da un paese vicino, dove aveva passato qualche anno in casa d’una vecchia zia; ma non era più la fanciulla in gonnellino corto, che dalla finestra, ove io sospiravo per lei, vedevo correre saltelloni, lasciando sprigionati per ogni verso i suoi biondi e fitti capelli, e che ricambiava i miei palpiti con altrettanto affetto per le ciliege: era una giovanetta tutta seria, timida, ravviata, e che per un nulla si faceva rossa in viso, come spesso avviene alle anime buone e gentili. I suoi capelli, fatti più docili e più oscuri, avevano preso il colore lucido dell’oro; e i suoi due grand’occhi celesti, pieni di una serena bontà, si abbassavano vergognosi a terra appena s’accorgevano d’essere guardati. Il mio curato l’aveva battezzata per Cleopatra; ma i suoi di casa avevano tirato il nome in diminutivo, e la chiamavano Luigina. L’arrivo della Luigina aveva messo sossopra il garzone del ferraio, il galoppino del comune, un chierico, un figliolo del maestro, tutta insomma la gioventù brillante del paese. Io che avevo fatti gli studi, e che ero il nipote dello speziale, dimenticai la democrazia e sentii tutta la mia superiorità. Non so se in nome dell’amore antico o di un amor nuovo, se per passatempo, per puntiglio, per vanagloria, o per quell’istinto di tirannìa di cui sono calunniati i demagoghi, decretai la conquista di _Cleopatra_, senza pensare ch’essa era la Luigina. Ecco perchè a un tratto mi mostrai preso da un desiderio irresistibile d’imparare i secreti dell’impastare, e la meccanica del burattello e del frullone. Il fornaio non la finiva più nell’insegnarmi l’arte, e andava in visibilio per il mio interessamento e anche per la mia degnazione. A ogni minuto ero da lui, quantunque i miei amici politici, quelli della bottega del tabaccaio, l’avessero segnato come un aristocratico, e non gli pagassero nemmeno il conto per non transigere con lui. Ci andavo però un pochino di soppiatto, e con alcune precauzioni, perchè non mi tradissero le imbiancature della farina, e un certo odor di pan fresco. La madre della Luigina s’era subito accorta ch’io m’andavo infarinando in qualch’altra cosa; e credendosi d’una furberìa senza pari, tutto il giorno era sul far mosse strategiche per lasciarci soli, o per metter paglia sul fuoco: io era un buon _partito_, e bisognava farmi _abbruciacchiare le ali_. In pochi giorni io avevo dichiarato alla Luigina il mio amore, la mia passione, il mio delirio, sfoggiando tutti i sentimenti classici della mia antologia latina e tutto il linguaggio romantico della mia scuola politica. La Luigina rimaneva come trasecolata; si faceva tutta rossa, e, alzando il gomito, cercava nasconder la faccia: poi fuggiva. E io allora, vedendomi incompreso, un po’ facevo l’infelice, non affatto malcontento di fare una cosa nuova, un po’ mi stizzivo davvero, e davvero sentivo certe prime punture che dovevano essere quelle.... chi lo sa? dell’amore. E fu allora appunto che mio zio, dopo i più maturi riflessi, era venuto nella conclusione di mettermi alle pillole. * * * Passavano i giorni e i mesi, ed io mi facevo sempre d’umor più nero, più stizzoso, più annoiato. Gli andamenti di questo mondo non li vedevo che attraverso la _Gazzetta ufficiale_, che me li faceva parere, come la belladonna, sempre più gialli e nauseabondi. La Luigina si faceva sempre più rossa, e scappava sempre. Il mio povero zio principiava a parermi un tiranno; e le sue pillole, lavoro senza _coscienza di azione_, mi parevano un agguato della cospirazione moderata e dottrinaria. Fino allora non avevo mai parlato di Università, dove avrei dovuto studiare una scienza che disprezzavo. Ma ormai, poco contento del mio apostolato, della Luigina e dei cittadini delle campagne, cominciai a tempestare lo zio, il quale mi rispondeva che un po’ più di pratica m’avrebbe giovato per la teoria, tanto più che non eran gli anni per una spesa così grossa; che la campagna andava male e i paesani facevano senza medicine, o al più, comperavano un cerotto che bastava per tutto l’anno, per tutta la famiglia e per tutti i mali. Fu in mezzo a queste mie traversìe, che un bel giorno mi venne il pensiero di cercar rifugio e conforto in un’antica e misteriosa conoscenza, nell’amico dell’amico Marcello, in quella X che risplendeva tuttora nella mia fantasia, con l’egual fascino e con l’eguale potenza. Io non avevo mai scritto all’_amico X_, e questa prima lettera mi tenne in faccende per un mese. Feci e rifeci; rubai qua e là qualcosina dai miei autori, e misi assieme degli squarci che mi lasciarono per un pezzo molto contento di me. Cercai salvare la minuta del mio scritto dal pericolo dei tre gendarmi del paese, sotto una tegola del tetto; ma le intemperie profane non la perdonarono che a queste poche righe. «...._perocchè l’Austria non può essere vinta che fissando l’angelo della vittoria con intrepida adorazione del Vero. Gli eserciti non valgono se chi li affronta è popolo fatto Principio e pugna armato di quella Fede collettiva, che è armonia di anime viventi nel Fine. La sètta faziosa che chiamasi maggioranza, ribelle all’Idea in cui solo risiede il diritto, cospira per un patto sociale che non è edificio, ma rintonaco di sepolcro. Noi saremo militi e sacerdoti: militi e sacerdoti di quel Vero che, spiccando il volo sull’ali della coscienza progressiva, dai ruderi dell’io, concreterà la vita collettiva nella patria delle patrie, l’Umanità_....» E qui, se ben mi ricordo, venivano i miei convenevoli, poi il mio nome. Ma appena scritto il mio nome, mi vennero in mente i tre gendarmi; e ripigliata la penna, tirai pian piano sulle lettere altrettanti ghirigori. E di più, pensandoci, vidi che quel mio nome, ad eccezione dell’_Adalberto_, era troppo volgare. Più che per un programma del futuro, mi parve fatto per una spezieria del presente; ne arrossii, e, dopo averci meditato, scrissi in fin di pagina, con un coraggio da leone, _vostro Adalberto dalla ròcca merlata_, e consegnai la lettera al contrabbandiere che mi vendeva i libriccioli politici. Per un mese fui sulle spine. Finalmente una sera il contrabbandiere mi fece un cenno con l’occhio, per farmi capire di andargli dietro, e mi condusse a casa sua. Fosse la lettera dell’amico? pensai tra me, e il cuore mi batteva forte, come quando aspettavo una di quelle risposte della Luigina, che non giungevano mai. In un cantuccio della cucina, da una gerla piena di stramaglie, tra i pacchi di sigari falsificati, di caffè di cicoria e di carte da giuoco senza bollo, mi cavò fuori finalmente, il mio contrabbandiere, un foglietto sottilissimo piegato a guisa di lettera, e su cui stava scritto _Adalberto_. Non c’era più dubbio; pagai senza economia il porto, e corsi a rinchiudermi in camera per assaporare, e meditare in pace il mio prezioso manoscritto. Apersi il foglietto, ed eccolo qua: «Caro conte! «Il nome di Adalberto me lo apprese Marcello, tra i nomi di quegli ardenti e candidi giovanetti, che per angelica ispirazione del Vero protestavano per tempo contro le false esercitazioni del pensiero. Voi dunque volete essere tuttora coi buoni, a cui la tradizione dell’Umanità collettiva diede l’intuizione dell’avvenire! Io già vi amo come fratello! Voi sarete, caro conte, leva irresistibile di azione intorno a voi, mentre col largo obolo del vostro censo, potrete sorreggere anche altrove il lavoro di altri buoni. — Riceverete mano mano le istruzioni dell’azione collettiva. »Nel popolo, fanciullo dell’Umanità, vive e respira la spontaneità dell’Innocenza, che la è Virtù inconscia; noi professiamo la Virtù, che è lotta e fatica. Ma congiunti in forte armonia, avremo la melodia dei popoli, che è murmure d’angeli e fragore di folgori. »Abbiatemi sempre più che amico, fratello. »X.» Rimasi per tutta quella sera, e per il giorno dopo, e per molti giorni ancora, abbagliato e intronato, tante erano le emozioni e le nuove fantasie che si facevano ressa nel mio capo, dopo la lettura di quella lettera. Il signor X, mi chiamava nientemeno che _fratello_: io ero un iniziato nell’azione collettiva; io ero un _buono_; i buoni avrebbero saputo il mio nome; ero un eletto dell’intuizione dell’avvenire! C’era da perdere la testa per la consolazione. Però, bisogna che lo confessi, la cosa che mi fece maggiore impressione fu quel caro conte. Io non avevo mai veduto un conte, ma gli avrei ammazzati tutti, tanto gli odiavo. Ora il mio X, l’uomo perfetto, mi chiamava _conte_, per un equivoco senz’altro, ma pure senza inorridirne, e dicendomi con tanta compiacenza _fratello_. Dunque, pensavo tra me, in certi casi si può essere anche un conte. Nel mio caso, per esempio, io sarei a un tempo un conte e un galantuomo. E bisogna convenire, continuavo tra me, che il chiamarsi Adalberto conte della ròcca merlata, non sonerebbe male; e me ne verrebbe della dignità e del rispetto, di cui, ben s’intende, userei per il trionfo della democrazia universale. Queste idee mi andavano così a sangue, che in poco tempo mi feci mitissimo con le contee, e mi sorpresi un giorno allo specchio, col volto composto alla maggior dignità, contemplandovi il conte della ròcca merlata, che per essere il primo conte che vedevo, mi pareva tale da riconciliarmi anche con gli altri. Risposi all’amico X, e tacqui sull’affare del _conte_. Ed egli da capo a darmi del _conte_, e io duro a pigliarmelo in santa pace. Passavo i mesi in queste mie nuove beatitudini, che mi facevano quasi dimenticare l’orrore della spezieria, e anche un po’ l’amore per la Luigina: quando una notizia dolorosa e misteriosa venne a scotermi profondamente, e a richiamarmi a quel po’ di serietà che pure c’era in me. Leggendo un giorno dal curato la _Gazzetta ufficiale di Milano_, trovai queste due righe tra le notizie delle province: «_Marcello N., dottore in legge, noto per fatti e sentimenti antipolitici, venne arrestato in.... la notte del 27 corrente._» Era la prima nuova che avevo del mio buon Marcello, dopo che mi aveva salutato baciandomi all’uscir di collegio. * * * Il primo ordine che ricevetti dall’amico X fu di costituire un comitato rivoluzionario per il mio paese e per i paesi vicini. «Dove vado io a fare il comitato?» Volevo parlarne a quei due del tabaccaio, ma da qualche tempo m’era nato il sospetto che bazzicassero dal commissario, e che l’oro fatale me li potesse corrompere. Cercavo bene di mantenerli nel campo della rivoluzione europea, a bicchierini d’acquavite, ma la mia fiducia in loro non era più così serena come per il passato. Alla fine mi decisi. Scrissi che il comitato era fatto, e il comitato ero io. Il comitato fu richiesto del suo obolo mensile per la cassa centrale, e di tanto in tanto di qualche prestito straordinario; prestito di cui si avevano in ricambio i titoli di credito inscritti sul gran Libro dell’avvenire. Per non dire che al comitato non era riuscito di affigliarsi anima viva, e per non smentire la mia contea, presto mi trovai al verde, e finii un bel giorno col fare il mio primo debito con un cittadino delle campagne che pizzicava un po’ dell’usuraio. Ogni quindicina ricevevo poi in ricambio delle grandi novità: prossimi moti in Polonia, più prossimi ancora in Calabria, vicine le barricate a Parigi, e vicinissimi i soliti moti degli Slavi. Il comitato doveva tenersi pronto con la sua vasta associazione a occupare i grandi passi dei monti, dove avrebbe trovato altre vastissime associazioni. Occupati questi passi, a un dato cenno, dovevamo rotolar sassi sul territorio nemico; chi avesse avuta una picca poteva discendere a molestare ancora di più lo straniero. Resa così vana ogni nuova calata di eserciti, quei del piano e delle città, avrebbero in breve trionfato dei pochi satelliti nemici, mentre un proclama scritto in due o tre lingue avrebbe trascinati nel nostro campo interi battaglioni. Il mio comitato poi ne rispondeva alla sua volta delle belle. Un muratore, che non aveva avuto lavoro in certe opere di fortificazione, si sfogava in piazza dicendo che quelle muraglie si potevano buttar giù con un soffio....; e il comitato scriveva all’amico X che sorgevano dei fortilizii, ma che l’associazione poteva fin d’ora far calcolo sui mezzi con cui la rivoluzione se ne sarebbe resa padrona al primo segnale. Un gendarme un po’ brillo aveva mormorato contro il sergente all’osteria.... e il comitato scriveva: «Il malcontento nell’armata è al colmo, generale ormai il pensiero di far ritorno alle proprie case; si organizzano vaste diserzioni: il comitato ha su di ciò informazioni positive, per rapporti coll’armata stessa: il comitato veglia e lavora.» Come mai potevo credere con tanta buona fede tutto ciò che mi si scriveva, e come mai alla mia volta potevo scrivere tante storie, quasi con altrettanta buona fede? Non lo so, ma pure era così. Certe parolone abbruciano il palato, e domandano ogni giorno delle parolone ancora più grosse. La vanità infantile poi, del trovarsi partecipe e quasi arbitro di grandi destini, è tale seduzione, che conduce a sostituire al vero il fantasma. Oh i begli anni!... e come ero giovane allora! E l’amico X era anch’egli giovane altrettanto? Lo incontreremo più tardi. * * * Le alte imprese a cui credevo di attendere, il fumo delle grosse parole, l’ingenua credenza che le idee ruvide e brusche fossero forti pensamenti, avevano finito col farmi pigliare così sul serio la mia parte, ch’io m’andavo mutando di carattere; tanto che, senza avvedermene, l’umore mi si faceva triste e l’animo non buono. Io mi credevo un repubblicano di Sparta, e non ero che un repubblicano del villaggio. Venne anche un giorno in cui mi dissi stizzito: «la Luigina non fa per me!» Ciò voleva dire ch’io non comprendevo più la semplicità modesta, la bontà tranquilla, serena. «Cleopatra,» dicevo io alla Luigina, «tu non mi ami: se tu intendessi l’amore, come io lo intendo, tu insorgeresti contro i pregiudizi di questa vecchia società; voleresti nelle mie braccia, e fuggiremmo insieme. Così io l’ho inteso, così l’ho sognato l’amore! Rialza, o Cleopatra, la grande bandiera dell’Eva!» Povera fanciulla! Prima ancora che il comitato fosse venuto a scompigliarmi maggiormente il cervello, una volta, fattomi ardito, l’avevo trattenuta susurrandole qualche parolina. Da quel giorno, con gli occhi a terra, e turbata, ella mi ascoltò più volte. Non rispondeva parola; pure, quasi impietrita, non sapeva allontanarsi da me. Ma quando più tardi cominciai a tormentarla con le mie follìe, e a parlarle d’amore con le parole che imparavo sui libriccini di contrabbando, la vidi di nuovo fuggire per non rivederla che a più lunghi intervalli. Questa benedetta rivoluzione universale, sulla quale andavo facendo tanti calcoli, o s’era fermata per strada, o non aveva ancor prese le mosse: fatto sta che non capitava mai. Impaziente, stanco di tutto, mi sentivo sempre più agitato da quella irrequietudine che invade chi fonda tutti i sogni dell’avvenire in un mondo vago, lontano, e fuori d’ogni realtà. Bisognava oramai che mutassi, non foss’altro, d’aria, di paese, di gente. Il pretesto poteva essere l’Università, di cui da un pezzo non si parlava più, «_perchè le annate erano scarse_», diceva mio zio, forse per non confessare che disperava di far di me quello speziale che aveva sognato. Il mio nuovo intento fu dunque l’Università. A indurre lo zio, non c’era altro modo che attendere con maggior compunzione alle sue ampolle, mostrarsi compreso di questa missione sociale, e dargli prove migliori della mia irresistibile vocazione, del mio delirio per la sua arte. Mi decisi; rimboccai le maniche, ripresi il grembiale e il soffietto, e mio zio m’ebbe vittima e complice dei suoi fornelli, delle sue storte e delle sue scoperte. Ma se la materia era incatenata al pestello, lo spirito spaziava sempre nelle regioni della protesta e della rivolta. Lo zio m’affidava talora qualche ricetta, e se non avvelenai nessuno e non mandai lo zio all’ergastolo fu un miracolo. Le malve ripugnavano ai miei sentimenti risoluti, radicali; le sanguisughe mi evocavano il fantasma dei potenti che succhiano il sangue dei popoli: gli _eroici_ soli mi parevano all’altezza de’ miei pensieri; ma mio zio non voleva che ci mettessi mano. Io agitavo le bibite nelle ampolle; ma frattanto pensavo al giorno in cui sarebbe spuntata la _vera_ libertà, quella libertà in nome di cui il popolo _vero_ avrebbe messo in prigione il popolo falso. Pensavo al giorno dell’_eguaglianza_, in cui avremmo cacciate al di sotto le classi che non erano con noi. E in nome poi della _fratellanza_ universale, io passavo le mie ore ad odiare, sulla fede de’ miei testi, uomini e cose, di cui non conoscevo che il nome. Frattanto era venuto l’autunno del 1858, e, non so come, fin nel mio paesello era giunta la voce che potesse nascere qualche grande novità, che potesse scoppiare una guerra. Ne chiesi subito conto all’amico X, il quale mi rispose che la rivoluzione era a buon porto, ma non ancora affatto matura; che stéssi molto in guardia; e che «qualsiasi moto che non veniva da noi, non poteva essere che un moto fazioso.» Potei quindi sorridere con una profonda pietà di quelle notizie campagnole. * * * Il mio disegno con lo zio non era riuscito male: l’inverno faceva capolino dalle bianche cime de’ miei monti, e la mia partenza era già all’ordine del giorno nei discorsi sotto la cappa del cammino. Quand’ecco una lettera dell’amico X; una lunga lettera che viene a mettermi sempre più in guardia su quelle tali voci di guerra, e sui pericoli che si celavano in certe ingannatrici speranze. Perciò il comitato doveva dichiararsi in permanenza, ed aspettare. Ed io che ero già sulle mosse! Non è a dire quanta fosse la mia perplessità: avrei voluto andarmene e rimanere a un tempo. Rimasi; e mio zio non ne fece alcuna maraviglia, avvezzo com’era alla poca durata delle mie risoluzioni. Egli piuttosto continuava a osservarmi in silenzio, non essendo riuscito a capirmi bene, e volendo pure, anche sopra di me, trovare la _teoria_. Ma cominciò a stupirsi davvero, e a capirne sempre meno, quando, sul finir dell’inverno, il turbine della guerra facendosi così vicino da increspare anche la tranquilla superficie del mio paese, e non parlandosi da tutti che di strategia, di francesi, e di cannoni rigati, mi vide diventar sempre più chiuso e taciturno, proprio come lo volevano le mie istruzioni recenti. Io, che altre volte avevo tanto declamato, che avevo chiamato vile e imbelle chi non mutava in un’arme la prima sedia che gli capitava tra mano, e non insorgeva tutti i giorni dell’anno; ora che pareva vicina davvero quest’alba sacra della riscossa nazionale, e un nuovo entusiasmo moveva l’intero paese; io tacevo, io ero in disparte, come un nemico che vede una rovina nella fortuna della patria. Che il mio silenzio, alla vigilia del combattere, fosse paura? Qualcuno avrebbe potuto sospettarlo! Il giorno che fui preso da questo orribile pensiero, per la prima volta, nella piena del dolore, ebbi un istante d’odio contro il tiranno misterioso che mi vietava la mèta a cui correvano, pieni d’entusiasmo, i giovani miei pari. Ogni giorno passavano per le vie dei miei monti brigate di giovani delle valli vicine che correvano a farsi soldati, chiamati da nessuno, fuorchè da un istinto sublime che loro diceva essere vicine le nostre sante battaglie. Spioni e gendarmi erano dì e notte sulle loro tracce; ma li metteva in salvo quella cospirazione tramata da nessuno, universale, onnipossente, delle cause mature. Nel mio paesello, perfino il garzone del fornaio, un povero ragazzotto, mezzo idiota, un bel mattino prese con sè gli abiti da festa, e se ne andò. Lo incontrai per via, e gli chiesi: «Che fai?» — «Vado ad arrolarmi;» mi rispose nella sua semplicità, e tirò innanzi. Non gli chiesi altro, e, pieno di rossore, chinai gli occhi, sentendomi indegno di fissarlo in viso. Il mio contrabbandiere venne una sera con una lettera, e mi chiese quando doveva venire per condurmi _di là_. «Domani,» gli risposi. Ma all’indomani io avevo letta la lettera, avevo arrossito di quell’istante di debolezza, per cui poco era mancato che fossi rimasto vittima anch’io dell’illusione generale. Avevo imparato che presto si sarebbero bensì combattute delle battaglie, ma delle false battaglie: che da quelle battaglie ne sarebbe venuta forse una falsa libertà, una falsa indipendenza, e che i veri generosi, i veri combattenti sarebbero stati quelli che non avrebbero combattuto. L’ora non era ancor giunta, perchè ci facessimo apostoli armati. Dovevamo ancora rimanere apostoli seduti, spiando il momento, che i casi potevano render vicino, per impadronirci del moto. Intanto aspettassi gli avvenimenti e gli avvisi. Mio zio era andato più volte alla ròcca merlata a dar forse un’occhiata al suo berretto; era in chiacchiere dalla mattina alla sera col curato, e da un mese non aveva fatta più nessuna scoperta. Era tutto lieto e ringiovanito; lieto soprattutto d’averla vinta sul curato, col quale tanti anni prima aveva fatto una scommessa che Napoleone avrebbe prima o poi passato il San Bernardo e rifatto il regno d’Italia. Egli non parlava più col curato che di volteggiatori, di veliti, di granatieri della guardia, e di dragoni della regina. Se gli avessi detto, un bel mattino, ch’io andavo ad arrolarmi nei veliti, gli avrei forse prolungata la vita di dieci anni. Egli mi guardava di tanto in tanto, quasi aspettasse che gliene domandassi la permissione; e tacevamo tutti e due. Mi guardava il curato, mi guardava il fornaio che era rimasto senza garzone, mi guardavano tutti. Nessuno mi diceva una parola; che cosa pensavano di me?... Pensavano che avevo paura! A sviare il pensiero da questa vergogna, a farmi forte dinanzi a questi sguardi che mi scendevano al cuore come punte avvelenate, mi chiudevo sempre più nel mio proposito, con la sciagurata ostinazione di chi, avendo forse la coscienza del meglio, si è appigliato al peggio. Prestavo il manto dello stoicismo alla fiacchezza del mio animo; chiamavo chiaroveggenza la mia cecità; facevo l’incompreso perchè non volevo capire. Mi fossi almeno spiegato! Avessi almeno enunciata la mia teorica sublime! M’avrebbero forse creduto pazzo, ma non vile. Rimasi muto e chiuso nella mia camera anche il giorno in cui, alla notizia di grandi avvenimenti, si trovarono in rivoluzione tutti gli abitanti del mio paesello. «Gran battaglia al Ticino; fuggiti i tre gendarmi; Vittorio Emanuele à Milano; Napoleone Dio sa dove....» Tutto ciò fu contato un bel mattino da un carrettiere che veniva d’in giù, e che aveva veduto coi propri occhi un zuavo. In un attimo mio zio ebbe il berretto da velite in testa; costituì il comitato; proclamò il regno d’Italia; strappò dalle vetrine della spezieria una tendina verde, dal collo della serva il fazzoletto rosso, e, cucitili insieme con una salvietta, ebbe fatta e piantata sulla bottega la bandiera; fece gettare nel torrente l’insegna del tabaccaio, e mandò cinque uomini con pali e forche a cercare una spia, che si diceva girasse in mezzo alla segale. Fedele alla consegna, non mi lasciai trascinare nè illudere da questi falsi provvedimenti rivoluzionari, e il giorno dopo firmai una protesta all’Europa, mandatami dall’amico _X_, contro la battaglia di Magenta. Così ebbi anch’io l’emozione di compiere in quei momenti un atto grande! E pur troppo non tardò il giorno in cui l’arrestarsi improvviso della guerra parve dar ragione ad alcuna delle previsioni dell’amico, ed io ci vidi la riprova ch’egli era l’oracolo infallibile del vero. «La fazione ha finito, la nazione incomincia,» mi scrisse pochi giorni dopo l’amico _X_; «noi siamo a Milano, e vi attendiamo.» Ogni esitazione era dunque finita. Al desiderio che in me si agitava da tanto tempo, si aggiungeva ora il fascino di una irresistibile chiamata. Con lo zio fu presto intesa ogni cosa, e rimase deciso che, all’aprirsi dell’Università, io sarei finalmente andato a Pavia per essere iniziato ai misteri della farmaceutica. Pavia, nel mio linguaggio, voleva dire Milano; come poi avrei aggiustala questa faccenda non lo sapevo, e per allora non ci pensavo nemmeno. Milano! Milano! Fu per tre mesi la mia sola parola, il mio sogno, il mio tormento. Io non avevo mai veduto Milano. Noi altri della provincia abbiamo l’occhio fisso, più di quanto ce lo vogliamo confessare, verso quel grosso e lontano formicaio di gente che ha le pretese di sentirsi non solo capoluogo, come i capoluoghi di tant’altre provincie, ma un tantino di più. Que’ signori del formicaio, che valgono più di quello che vogliamo ammettere noi, e meno di quanto credono loro, ci fanno provare a un tempo un senso di repulsione e di attrazione, che è quello, io credo, che finisce col farci girare come lune intorno a loro, seguendoli a distanza nelle idee e nei costumi. Ma allora non ne sentivo che l’attrazione, e bisognava che ci piombassi nel mezzo. Milano era tutto per me. Là, io avrei trovato un popolo poeta e umanitario, intento solo ai grandi problemi della questione sociale; là, gli ingegni peregrini e gli apostoli venerandi, intenti tutti al trionfo della mia fede; là, infine, la donna d’alti concetti e di forti passioni, ravvolta in un mistero di vesti e di profumi, la donna che rispondeva al mio ideale di quel momento! «No,» dicevo tra me, «io non sono nato alle semplicità rusticane. La passione che mi trabocca dal cuore dovrebbe chiudersi tutta in un’umile simpatia campagnola? No; io sono nato per le grandi emozioni, e in queste solo io posso trovare la mia felicità! Domani finalmente sarò partito. Questa è l’ultima volta che....» È l’ultima volta, volevo dire, che do mano al cencio da spolverare, perchè questi pensieri mi assalivano nel ripulire il banco della spezieria; cosa che avrei giurato non sarebbe accaduta mai più. Intanto non m’ero accorto che dalla porta della spezieria era entrato qualcuno. Era entrata la Luisa che, avendo una sorellina ammalata, veniva per la prima volta in persona con una ricetta. Si fece rossa in viso lei, e mi feci rosso io; ed io poi rimasi imbarazzato e goffo come non ero mai stato in vita mia. Pigliai la ricetta e per eseguirla mi misi in gran faccende passeggiando per tutta la bottega. Pure bisognava dir qualche cosa, e sempre andando innanzi e indietro incominciai: «Sempre ammalata la sorellina?... E che bel tempo!... cioè freddo sì, ma asciutto....» «Dicono che in giù sia venuta tanta neve....» «Neve?... Oh, ma vedrà che con questa pozione la sorellina.... Abbiamo molti ammalati. Cose della stagione.» «Se ne guardi anche lei dall’ammalarsi; sento che si mette in viaggio....» «Oh, ma oggi il vento tira al bello. Quando lei vede la banderola del campanile guardare in giù, dica pure: ecco il bel tempo.» «Così, sono arrivata in tempo anch’io per darle il buon viaggio....» «Cioè, viaggio veramente no! È così una corsa....» «Conta dunque di tornar presto?» «Oh presto, prestissimo!... Ecco fatto. E prima di darne un cucchiaio alla sorellina, la agiti ben bene nell’ampolla, la pozione.» «Mi dicono che in giù ci sieno tante belle cose, che s’è veduto molti andarvi e dimenticare le loro montagne, il loro paese, e non ritornare mai più....» Non si fecero altre parole. Io diedi l’ampolla alla Luisa senza levare gli occhi su di lei; essa la prese, e dopo un momento di esitazione partì. Nelle sue parole c’era un accento di commozione che mi lasciò profondamente turbato. Quell’accento aveva quasi ritrovata nel mio cuore l’antica risposta: ma il turbine delle mie fantasie mi riprese subito nelle sue spire; io fui da capo in pieno tumulto, e in esso andò soffocata la voce modesta del sentimento. Mi scossi ed esclamai: «No, il destino mi chiama altrove! Io partirò! L’_avvenire_ è incominciato per me!» * * * Un lungo e acuto fischio della locomotiva mi annunziò che ero a pochi passi da Milano. Misi il capo fuori dello sportello per veder subito la famosa guglia del Duomo; ma tutto era ravvolto in un vapore denso e grigio. Il cuore mi batteva forte; credetti che l’emozione mi facesse velo agli occhi. Io avevo lasciato il giorno innanzi il bellissimo cielo delle mie valli, senza un saluto, con la sdegnosa impazienza di chi muove verso il regno delle sette maraviglie. Tra una nebbiaccia umida e fitta, che non lasciava vedere a un palmo dal naso, urtato dalla folla, assordato da un chiasso inurbano di facchini e di conduttori di carrozze, ma pieno della mia vergine venerazione, mi accostai con tutto il rispetto a un cittadino vetturale, che mi cacciò in un suo legno, mi condusse alla locanda, mi strapazzò un pochino, e mi prese anche un po’ più di ciò che gli era dovuto. Gli feci le mie scuse umilissime, persuaso d’aver io mancato in qualcosa; e s’anco mi avesse dato dei pugni, non sarebbe riuscito per il momento a rompere il mio incantesimo. Il mio primo pensiero fu quello di mettermi in vestito da festa, e di correre nelle braccia dell’amico _X_. Il nome dell’incognito amico mi era però noto da qualche tempo; egli stesso me lo aveva scritto nella prima lettera che mi aveva mandato da Milano. Il suo nome era Bartolommeo....; gli amici lo chiamavano comunemente Bortolo, e i compatriotti poi Bortolino. Egli aveva avute molte vicende nella sua vita. Dopo il quarantotto aveva peregrinato per le città della Svizzera ora facendovi l’editore, il traduttore, o il corrispondente di giornali, ed ora facendo in mancanza d’altro il negoziante. Aveva qualche brevetto per invenzioni e privilegi; aveva promosse società industriali ed agricole per allevamento di polli, per terre nell’Oceania, per concimi economici, e per altre cose di pubblica utilità; ma i tempi e gli uomini lo avevano male assecondato. Da ultimo era stato corrispondente d’un droghiere di Milano e d’un giornale di Genova. Questi varii talenti dell’amico non li conobbi che più tardi. Il giorno in cui lo vidi per la prima volta, egli era per me il filosofo che precorre i tempi con gli ardimenti dell’ingegno; era il politico umanitario, il patriota inflessibile e puro, il giusto, il martire; era il mio ispiratore e maestro; era quell’incognita _X_ che aveva misteriosamente dominata per tanti anni la mia esistenza, che m’aveva forzato a fare miei i suoi odii e i suoi amori, e che aveva posseduto tutto l’entusiasmo de’ miei giorni più belli. Io dunque mi presentai al maestro commosso e quasi tremante. La confusione sulle prime, facendomi velo agli occhi, me lo presentò circondato da quell’aureola, che la mia fantasia ammiratrice gli aveva tante volte prestata. Il signor Bartolommeo non era bello. Aveva il viso butterato dal vaiolo, e gli occhi appiattati dietro un paio d’occhiali verdi. Era basso e tarchiato; il suo vestito non tradiva con indizii palesi la sua anima linda e pura. La ribellione de’ suoi capelli, contro gli ordini moderatori del pettine, era generale e permanente. Si sarebbe detto che l’abitudine del malcontento avesse sviluppato in lui una specie d’idrofobìa, che gli faceva fuggire istintivamente, tra le altre cose, anche l’acqua e gli specchi. Appena ebbi balbettato il mio nome, _Adalberto_.... l’amico Bortolo mi abbracciò con premura, e facendomi capire ch’egli era molto affabile, mi chiamò il suo _amico conte_, e mi diede le ultime nuove di _noi_, dell’_oggi_ e del _dimani_. Nella sua voce c’era una mellifluità che allora mi parve una cosa sublime. Non parlava d’altro che di se stesso, ma sempre con una grande modestia. Nei discorsi comuni era, come tutti gli altri, un uomo di questo mondo; e di più avveduto, pratico, positivo. Ma quando entravamo nella politica o nelle _scienze sociali_, pigliava un tono lento, ispirato, vaporoso, come se avesse digiunato per un mese in un deserto. Parlava con le note frasi e con lo stile di quando scriveva; ripeteva le vecchie formole con quell’accento di persuasione che pigliano le cose quando le si dicono sempre. Io ero più che mai in estasi e con la bocca aperta. La brezza umida e fredda che spirava per via mi richiamò alquanto, com’ebbi lasciato l’amico, dalle fervide regioni del mio entusiasmo. Mano mano che ritornavo in me stesso, mi vedevo schierare dinanzi tutto ciò che avevo pensato di poetico sull’incognito amico, e tutto ciò che avevo veduto in lui di reale. Eran due cose che volevano a forza venire al paragone. Ma io tiravo diritto, camminando senza sapere dove mi andassi, e affermando risolutamente a me stesso che la realtà dell’amico Bortolo aveva superato l’ideale dell’amico _X._ Anzi fui lieto di poter scoprire una prova della mia inferiorità e una ragione di malcontento contro me stesso, perchè avevo lasciato in inganno l’amico, senza dirgli subito che mi chiamavo _così_ e _così_, e che non ero che un povero speziale di campagna. Non avevo avuto il coraggio di confessargli la fanciullesca vanità con cui, fino allora, io avevo accettato un nome, che sulle prime mi fece parere più romanzesca la mia avventura di cospiratore. E poi m’ero sentito così piccolo, in faccia a lui, che non avevo saputo svestirmi di quella poca _contea_ alla quale pareva ch’egli desse pure una qualche importanza. Frattanto il giorno imbruniva, ed io cominciavo a sentirmi solo, smarrito, melanconico in mezzo a tanta gente che andava, veniva, mi urtava senza che ci trovassi una faccia nota od amica. Mi riposai alquanto alla locanda, dando la colpa del cattivo umore che mi scendeva addosso, alla stanchezza, al viaggio, al sonno. Alla lieta inquietudine del giorno innanzi, teneva or dietro l’inquietudine di chi si sente poco contento di sè. Uscii da capo, e, a chiuder bene quella prima che doveva essere la più bella giornata, mi feci condurre al teatro della Scala, che era pure una delle cento maraviglie che mi avevano fatto balzar tanto il cuore in mezzo alle mie montagne. Oh questa volta sì che la realtà mi parve, senza discussione, superiore all’ideale! I miei occhi correvano affascinati dal palcoscenico ai palchetti, dai palchetti al palcoscenico. Le ballerine mi sembravano angeli, e le signore mi sembravano dee. Mi sovvenne ch’ero venuto a Milano anche per le grandi emozioni del cuore, e mi sentii di subito innamorato di tutte quelle cento e cento divinità. Addio, povera Luisa! Il mio incanto era tale che non mi sentivo più padrone di me; applaudivo le ballerine, applaudivo le signore, e gridavo forte, o confidavo ai vicini tutta la piena della mia ammirazione. Ma a togliermi da tanta beatitudine venne un bisbiglio improvviso di gente che zittiva intorno a me: mi guardai in giro, e vidi che da tutte le parti si rideva alle mie spalle, e mi si gridava _silenzio!_ Confuso e tutto rosso in faccia, avrei voluto le cento volte trovarmi su d’una cima delle mie montagne. Intanto si era calata la tela: queto queto uscii di teatro, e me ne andai diviato alla locanda. Quel primo giorno sognato, invocato da tanto tempo, poteva avere la cortesia di mandarmi a casa un po’ più di buon umore. Andai a letto senza far parola, e spensi subito il lume. * * * L’amico Bortolo sedeva come un _sole_ in mezzo a cinque o sei satelliti minori che giravano intorno a lui; e tutti insieme poi giravano intorno a un altro _sole_ che era parte, alla sua volta, di un secondo sistema planetario, retto anch’esso dalle leggi d’una più forte e più vasta attrazione. In pochi giorni ebbi imparata tutta questa astronomia; conobbi i principali satelliti _bortoloniani_, e fui ascritto all’associazione degli _Stati Uniti_ d’Europa «_Sezione Olona_.» Le principali colonne della Sezione Olona, oltre all’amico Bortolo presidente, erano un regio impiegato, il ragioniere d’una casa signorile della città, e un giovinotto che si diceva negoziante e mediatore di carte pubbliche; «Sì ch’io fui _quinto_ tra cotanto senno.» Non potei dire precisamente d’aver piantate le mie tende presso lo stato maggiore; ma ero talmente in vena d’ammirazione e di umiltà, che mi credetti fin troppo in alto sedendo vicino a loro. C’era bene un generalone di più alto bordo, ma lo si vedeva di rado. L’amico Bortolo era della sua costellazione, e i responsi noi non li avevamo che di terza mano. In breve conobbi tutti gli amici di Bortolo, e gli amici degli amici, ai quali tutti venni presentato come un _forte_ cittadino delle campagne, «cosa che mi procacciava un inchino;» e come il conte Adalberto della ròcca merlata, «cosa che me ne procacciava tre.» Perduta una prima volta l’occasione di sconfessare quella contea, l’occasione non si presentò più. Cercai schermirmene qualche volta; ma appunto allora i miei nuovi amici si dicevano con più calore all’orecchio che «io ero un gran signore della provincia; che avevo Dio sa quanti milioni, quanti antenati e quante contee; ma che ero così _puro_, che non volevo nemmeno sentirne parlare.» Per quanto fosse grande la mia ammirazione per loro, più grande ancora era quella ch’essi avevano per me. E a furia di sentirlo dire con tanta serietà, e di vederlo così bene accetto, finii col persuadermi anch’io, d’essere proprio quel conte di cui si discorreva. Uno, tra quelli che mi inchinavano di più, era l’impiegato regio. Dopo vent’anni di fedeli servigi e di schiena curvata dinanzi a una dozzina di _Grafen_ della bassa Austria e della Stiria, suoi capi di ufficio, poteva ben dirsi maestro in fatto d’inchini, e d’inchini d’alta scuola. Per avere un sorriso dal suo _Graf_, all’incominciare della guerra gli aveva profetizzata la strage vicina dei _piemontesi_: ma, pochi giorni dopo, andato all’ufficio, il _Graf_ non c’era più. Egli allora gittò in alto le soprammaniche di tela, e gridò: viva la repubblica! Da quel momento egli era diventato un uomo politico. Sfoggiando la scienza del giro che fan le carte dal protocollo all’archivio; dicendo _plagas_ del governo nazionale, e denunciando come reazionarii gli uomini che uscivano dalle prigioni politiche dell’Austria, era presto salito in fama di grande amministratore, d’uomo _indipendente_ e di _vero_ liberale. Egli ci intratteneva tutti per lunghe ore con la sua scienza delle soprammaniche di tela; ed io meno ne capivo, e più rimanevo compreso per tanta dottrina e tanta avvedutezza. La mia fantasia, che non sapeva essere un minuto contenta e tranquilla, giungeva talora a gettar perfino qualche domanda, qualche dubbio, in mezzo alla fede cieca, al culto ch’io professavo per i miei nuovi amici. Una volta chiesi a me stesso se non fosse più leale ed onesto il non ricevere paga da un governo che si vuol ingiuriare; se non fosse più secondo l’onore il rifiutargli il proprio giuramento e i propri servigi. Ma l’amico mio, mi risposi subito, non può fallare; e misi l’apparente contraddizione insieme a tant’altre che spesse volte mi davano nell’occhio. Anche l’amico ragioniere, il quale, professando i principii più inesorabili dell’eguaglianza, voleva eguali tutti di fatto come i numeri finali della scrittura doppia, non mi parlava che delle degnazioni della sua contessa, dell’amicizia e degli inviti del tal barone o del tal marchese. Conti e marchesi formavano le delizie del mio ragioniere e di qualche suo confratello che, al pari di lui, professava le teorie più pure della rivoluzione. Qual nèsso ci possa essere tra le aspirazioni democratiche e il culto dei blasoni non lo so....: ma certo un gran nèsso ci deve essere, se nella mia breve esperienza, nelle mie poche osservazioni sociali trovai così frequente la ripetizione di questo fenomeno. Un altro fenomeno mi parve sulle prime l’amico commerciante, o sensale che fosse. Di suo non aveva che le chiacchiere che ci spacciava; eppure faceva negozi per centinaia di mila lire. Negoziava un giorno di carte pubbliche, un altro, se occorreva, di frutte secche; oggi era mercante, domani mediatore; non aveva professione di sorta, e le faceva tutte. Allegro, bontempone, discolo, era da mattina a sera in baldorie e in affari. Dedito anch’esso di fresco alla politica, si proclamava _socialista_, e chiamava _code_ i suoi colleghi del circolo repubblicano; cosa che dava al circolo un po’ d’inquietudine, e a lui un po’ più d’importanza. Nemico del capitale, lo era un po’ meno degli interessi; ed io ne seppi più tardi qualcosa. Innamorato, estatico anche di costui, io mi abbandonai a occhi chiusi nelle sue braccia, ed egli si incaricò di fare la mia educazione cittadina. * * * Prima di trascinarmi nella sua voragine, l’amico sensale mi aveva trascinato dal suo sarto, il quale mi aveva subito messo alla moda come il sensale, ed anche un tantino di più. Infatti, se la moda voleva il soprabito un po’ corto, al signor _conte_ il sarto glielo faceva di due dita più corto ancora; e se la moda voleva la giubba lunga, il signor _conte_ aveva una giubba lunga una spanna più di tutti gli altri. L’amico m’aveva vendute certe sue spille e certi anelli che facevano lo specchietto, come quelli d’un cavadenti. Io poi mi versavo addosso tutte le mattine una boccetta d’acqua odorosa, e per lo più di muschio, che mi annunziava da lontano come l’avvicinarsi d’una _moscardina._ Con tutto ciò io non ero ancora contento di me, nè ancora avevo raggiunta quella tranquillità di spirito, e quel sentimento di superiorità, di chi ha la coscienza d’essere un uomo elegante. Io seguivo come una vittima il sensale in tutte le sue compagnie, e in tutte le sue baldorie; lo seguivo al teatro e al suo caffè, alle sale da ballo e ai suoi festini. Il mio buon amico non aveva risparmiato fatiche per ridurmi in breve alla moda cittadina, e dopo due mesi poteva già compiacersi di qualche buon risultato. La mia corteccia campagnola, combinata con le levigature del sensale, aveva fatto ridere qualche scioccone alle mie spalle; ma s’era poi detto che alla fine dei conti io ero un gran signore, e che morto un certo mio zio milionario e tiranno, io avrei ecclissati tutti quelli che la sfoggiavano per Milano. Io che sentivo queste cose, pigliai presto il partito di darmi certi modi un po’ eccentrici, un certo fare da originale, che è spesso l’espediente più a buon mercato per cavarsi d’imbarazzo, e passare per un uomo non comune. Il difficile a questo mondo è di farsi largo col buon senso. Soprattutto poi, io avevo bisogno di far del chiasso intorno a me; di fare come il ciarlatano, che dice di cavare i denti senza dolore, perchè lo strepito dei pifferi e della gran cassa copre le strida del villano. I miei sogni migliori cominciavano a fuggire dinanzi alla realtà. La mia anima forse mandava già il suo primo grido di disinganno; ma io non lo volevo ancora nè udire, nè confessare. Un giorno l’amico ragioniere pensò di volermi presentare alla _sua_ contessa. La _sua_ contessa era la contessa _Neni_ (diminutivo, per chi non se lo immaginasse, di Antonietta), la quale, unitamente al conte marito e ad una contessina di diciotto mesi, costituiva il casato a cui l’amico mio aveva l’onore di tenere i conti. Tra le molte e bellissime signore ch’io rimiravo mollemente sdraiate nelle loro carrozze, o a passeggio per le strade con l’incerto andare dei loro piedini, la contessa Neni aveva segnato il punto massimo della mia ammirazione. Al teatro, ove però avevo imparato a inebbriarmi in silenzio, mi pareva di essere in un Olimpo, e le signore mi parevano tante dee: ma se in mezzo alla mia estasi per queste belle compariva la contessa Neni, allora io le tradivo tutte, allora io non vedevo più che _lei_. Lei però veniva di rado: suo marito, nominato da poco sindaco in un villaggio di trecento anime, trovando comodo il _self-government_ a ogni tratto era al villaggio, e non aveva preso nemmeno il palchetto alla signora. Come sono invadenti nei governi queste aristocrazie! L’aristocrazia aveva invaso un po’ anche me stesso; alla mia contea m’ero già abituato, e mi sentivo già capace di difenderla palmo a palmo dietro i suoi merli: le belle donnine del teatro e delle carrozze mi piacevano quasi più che l’amico Bortolo, e per loro piantavo, di tanto in tanto, le conferenze della _Sezione Olona_. Anche alle conferenze della _Sezione Olona_ capitavano, a dir vero, delle signore, ma per una singolarità che mi diede più volte a pensare, erano quasi sempre un po’ brutte, o un po’ vecchie. Mi ricordo d’una in particolare che voleva essere chiamata _cittadina_ e non _signora_, anche a rischio di venire confusa colle vetture che stanno in piazza; e che proclamavasi una donna dell’89, cosa che nessuno avrebbe messo in questione di certo. Se Prudhon m’aveva messo dei dubbi sulla mia divisa della _fratellanza_, questa _cittadina_ me ne mise un vero spavento. Al ragioniere dunque, a cui tante volte avevo parlato della mia ammirazione per la contessa Neni, era venuto in mente di farmi conoscere a lei, chiedendole il permesso d’una presentazione. Una signora difficilmente rifiuta di conoscere un suo adoratore; che se poi l’adoratore ha, come avrebbe detto la contessa Neni, _un nome_; se ha la riputazione di uomo eccentrico; la curiosità della signora cresce in ragion diretta di tutte queste qualità. Il ragioniere, che Dio sa quante storie aveva magnificate sul mio conto, mi annunziò il giorno e l’ora in cui avrebbe detto dinanzi alla contessa: «ho il piacere di presentarle il signor _tale_;» parole misteriose e sacramentali, che bastano a procacciarvi una stretta di mano e un sorriso gentile dalla più fiera beltà, che fino allora aveva avuto l’aria di non accorgersi nemmeno che voi eravate a questo mondo. A quell’annunzio del ragioniere, il mio cuore battè forte come nel giorno in cui mossi per la prima volta alla casa dell’amico Bortolo. La fortuna mi conduceva per mano verso il mio secondo ideale; forse mi schiudeva le scene d’una passione drammatica, quale io l’avevo sognata! Avrei voluto preparare qualche squarcio di eloquenza e di poesia, per fare buona figura nei discorsi, certo sublimi, della contessa: ma la mia commozione era tale, che non fui capace di accozzare quattro parole in cui ci fosse il senso comune. Mi rassegnai, e mi raccomandai alla Provvidenza. * * * Nell’ultimo gabinetto d’un quartierino piccolo, ma in un bel palazzo grande, adagiata o quasi rannicchiata sul fondo d’una poltrona, si vedeva come in iscorcio una elegante personcina, ravvolta in non so quanti metri d’una bellissima stoffa, e che si chiamava la contessa Neni. La contessa Neni sedeva nel suo quartierino come la regina dei mille ninnoli che la circondavano, e delle mille figurine di porcellana, da cui pareva eletta a suffragio universale. Essa aveva lo sguardo languido delle donnine in porcellana chinese, il bianco delle figurine di Sassonia, le pose molli delle piccole _pompadours_ di Sèvres. Essa poi conosceva a fondo la storia e la natura di questi suoi sudditi, e ne parlava continuamente da sovrana premurosa e illuminata. E quante volte non ebbi io la bontà d’esser geloso d’un mandarino chinese, d’un villanello di Sassonia, o di qualch’altro individuo di quel regno innocuo e silenzioso? Al qual regno innocuo e silenzioso appartenevano anche, per non tacere di nessuno, tre giovanetti galanti, che, innamorati della contessa, le facevan la corte contemporaneamente e senza guerre civili, contenti di sedere intorno a lei tre ore al giorno, senza dire una parola, mandando solo qualche sospiro, e cambiando di tanto in tanto la positura sentimentale. Se il silenzio può essere eloquente, questi tre giovanetti erano tre Demosteni; ma si incaricava di parlare per tutti e tre un uffiziale francese, ch’era anch’esso molto assiduo presso la contessa. Di questi quattro signori appunto si componeva il crocchio della contessa nel momento in cui il ragioniere, con molta sommessione, e con molta compiacenza, mi presentò, sfoggiando i titoli annessi alla mia _ròcca_. La contessa mi accolse con un sorriso gentile, e mi porse una piccolissima manina, ch’io, a buon conto, non presi, per la soggezione e per il timore di farle male. Io ero tutto in nuovo. Avevo le scarpe nuove, un vestito nuovo, un solino nuovo, che mi segnava un giro rosso intorno al collo, e mi ero profumato con una boccetta nuova. I tre signorini non diedero segno di vita, e finchè non fui presentato anche a loro, finsero di non avvedersi nemmeno della mia presenza, come se fossi un infusorio. Io però mi accorsi d’una certa occhiata con cui mi misurarono da capo a piedi, e alla quale tenne dietro un certo sorriso che mi fece, non so perchè, diventar tutto rosso. Quei tre se ne stavano seduti o, per dir meglio, sdraiati, chi su una seggiola, chi dentro una poltrona. Mutavano di posa a ogni tanto con una disinvoltura affettata; e sebbene mi avessero subito inspirata una profonda antipatia, pure, con la coda dell’occhio, gli osservavo per imitarli in qualche cosa. Ma non m’arrischiai di seguirli in quelle evoluzioni, che mi parvero del resto un po’ troppo confidenziali ed anche abbastanza volgari: mi attenni alle regole della mia prima educazione, e rimasi seduto col busto diritto, e con le mani distese sulle ginocchia, come mi aveva insegnato il mio rettore. I tre signorini tacevano sempre; taceva il ragioniere, taceva la contessa, e non parlava che l’uffiziale francese. Io credetti quella prima volta che il tacere fosse una cosa grandemente signorile, e non è a immaginarsi come mi tenessi scrupolosamente chiusa la bocca. Ma il Francese m’ebbe presto piantati gli occhi in faccia, e in un minuto mi diresse non so dire quante domande. Io avevo imparata la lingua francese da quel rettore del collegio, che nelle mie valli aveva tanta rinomanza per le lingue morte. Capii difatti ch’egli mi aveva appunto insegnata una lingua che non si parla. Figuratevi quale spavento fu il mio! Ma fortunatamente l’uffiziale dopo il _dites-moi, monsieur_, senza tirare il fiato continuava, _vous dites donc_.... ed io gli facevo un risolino compiacente, compiacendomi moltissimo che rispondesse lui per me. Io tacevo sempre, e le cose continuavano benino. Ma la contessa Neni, vedendo che da un quarto d’ora non s’era parlato di lei, interruppe a un tratto la conversazione con un _ah!_ accompagnato da un lungo respiro e da una posa un po’ più languida di prima; il che sommato voleva dire che c’era una improvvisa sofferenza da dividerci tra noi sei. Si scossero infatti i tre giovanetti, e si fecero flebili più che mai: «_Che fu? che c’è?_» La conversazione si fece subito pietosa, e la contessa Neni con un certo imbarazzo studiato, elegante, ci parlò d’un maluccio che le era capitato, un enfiatello, se ben mi ricordo; ma non un enfiatello comune; un enfiatello che doveva moverci a grande pietà, ma parerci nello stesso tempo una cosa straordinariamente poetica. Mi parve a un tratto che i miei compagni di pietà invocassero un rimedio dal cielo, ed io in un eccesso di commozione e di zelo, facendomi di nuovo tutto rosso, saltai su a dire: «_Ci vorrebbe un ce_....» Lo sapevo ben io che cerotto ci sarebbe voluto, ma mi parve in quel momento che a pronunziare la parola cerotto tutti si sarebbero accorti ch’ero uno speziale. Mi fermai in tempo; ma mi si appannò la vista, e mi credetti perduto. Per fortuna però c’era stato il Francese, che al mio primo aprir bocca, non volendomi lasciare la priorità dello specifico, aveva ripreso lui il filo delle mie parole, insegnando alla contessa tutto quello che ci voleva. E non le disse questa volta, delle chiacchiere; le insegnò un buon empiastro, e proprio quello che ci voleva; talchè mi balenò alla mente, che anche costui, siccome si faceva dare del _conte_, fosse conte di una qualche ròcca merlata come la mia. Di lì a poco l’amico, dicendo di avere cento belle che l’attendevano, si alzò, e se ne andò. Mi sentii un gran peso giù dalle spalle; e così se ne fossero andati anche gli altri, perchè io ero talmente in fiamme, che in quel momento mi sentivo il coraggio di proporre alla contessa per lo meno una fuga. Io non avevo ancor provato a trovarmi solo dinanzi a lei, e a non sapere aprir bocca. «È una persona amabilissima....» incominciò a dire la contessa, pigliando le redini della conversazione, e conducendola tutta da sola con un’arte finissima di parlar sempre, e in verità dicendo pochino. «È una persona veramente di garbo, una persona proprio della società....» Ma poi tra questi francesi ce ne sono di curiosissimi! Si figurino che un giorno ne ho veduto uno, un maggiore, credo, ma che non è della società, e che si chiama _monsieur Pigeon_. E vogliono ridere? È legittimista! Che sieno legittimisti il colonnello _de la_.... e il _marquis de_.... che vedo frequentemente, lo capisco benissimo; ma lo strano è che uno si permetta d’essere legittimista quando si chiama _monsieur Pigeon!_ E mi si dice che ce ne sieno degli altri come costui. Oh siamo molto più liberali noi!... «Com’è liberale la contessa!» dicevo frattanto tra me stesso, in mezzo al mio entusiasmo. «.... Io sono d’avviso che in società si devano rispettare tutte le opinioni, anzi io sono molto liberale; ma mi pare poi assai ridicolo che tutti quelli che passano per strada si credano in diritto di avere delle opinioni che non sono punto fatte per loro.» «Oh certamente! contessa,» dicevano frattanto qua e là i tre signorini; e il ragioniere accompagnava il tutto con un risolino di piena approvazione. «E lei dunque si chiama Adalberto....» riprese la contessa a proposito del discorso di prima. «Adalberto! che bel nome, è un nome che mi piace tanto!» E socchiudendo alquanto gli occhi, come soleva in fine d’ogni sua frase, lasciò giungere mollemente fino a me una guardatina, che mi accese ancora più, e mi fece tremare da capo a piedi. In buona fede me la pigliai tutta per me, e come di buona valuta. Non fu che più tardi che vidi quelle mezze guardature scendere allo stesso modo, freddamente su tutti; e più tardi ancora che mi spiegai, colla chiave di quelle occhiate, l’immobilità dei tre giovanetti e di quanti si dibattevano intorno alla contessa Neni come cingallegre sui panioni. «E nelle sue terre lei avrà anche dei castelli?» riprese la contessa. Ebbi un minuto di esitazione. La guardai in viso.... ma era così bella, che le risposi di sì! Che sciocco! Eppure in quel momento non ebbi altro rimorso che d’aver detto una cosa non vera a un angelo come lei, che doveva essere tutta ingenuità. La contessa riprese la conversazione sui castelli, ma io non tenni dietro più al filo del suo discorso. Io non avevo in pensiero che quell’occhiata, e ne stavo spiando una seconda. Ma per quel giorno la seconda non venne; e ne incolpai tra me il povero ragioniere, che mise fine troppo presto alla visita, mentre io non me ne sarei andato più. * * * Aspettando sempre la seconda occhiata, m’ero fatto ogni giorno più assiduo presso la contessa. Facevo le mie ore di contemplazione in società coi tre giovanetti e con tanti altri, perchè ogni giorno ce n’era uno di nuovo; correvo per le strade come un matto, o vi facevo delle lunghe fermate come un ladro, e la contessa non dava segno di avvedersene mai. Le occhiatine talora partivano, ma non venivano a me. Fui geloso or dell’uno or dell’altro, senza sapere però mai di chi lo dovessi essere davvero. Mi struggevo di sospetti e di rabbie, avrei voluto spassionarmene con lei, dirle il mio amore e le mie gelosie, ma ogni volta ero costretto a calar le vele dinanzi a un circolo di assediatori che ci stavano all’àncora, e innanzi alle manierine gentili, calme, e gelidamente seducenti della contessa. Le delizie insomma del mio ideale, le delizie di un amore romanzesco per una gran dama, le andavo assaporando tutte. E quando, stanco, incominciavo a sentire i primi gridi della rivolta dentro di me, allora.... allora capitava l’occhiatina a farmi rinnovare l’investitura di vassallaggio. Nè questi erano i soli intoppi che avevo trovati nella mia nuova vita. Eppure non sapevo staccarmi dagli antichi sogni fantasticati nel mio paesello! Un intoppo però che avevo temuto e che non trovai fu quello del cerimoniale dell’alta società. Io avevo spese delle ore a casa mia a pensare come sarei entrato in una sala dorata; che cosa avrei fatto, che cosa avrei detto in un crocchio di dame e di cavalieri. Avevo lette sui libri le severe etichette d’una volta, e tremavo al solo pensarci. Tempo perduto! Se di tanto in tanto diedi un poco nell’occhio, fu perchè mi sentivo piuttosto timido nel pigliarmi i miei comodi in società con la franchezza degli altri. Con gli splendidi vestiti d’una volta, i cavalieri hanno lasciato giù anche le splendide maniere. Talchè oso dire che anche il _galateo_ del mio rettore mi poteva quasi bastare. Io poi m’accorsi che la mia ròcca merlata, e i milioni della mia contea m’erano una gran bolla di indulgenza plenaria. Potei perfino lanciare qualcuna delle mie idee demagogiche che, come speziale, m’avrebbero fatto dare del briccone, ma che dette in guanti gialli mi acquistavano una certa riputazione di originalità; la quale è pure una delle vie che menano al _buon genere_. Trovai piuttosto, e in breve tempo, un intoppo nei quattrini. Le baldorie con l’amico sensale, le spesucce per la repubblica universale, e la vita galante per la corte alla contessa, mi asciugarono presto quei pochi denari che avevo portati con me per studiare la farmaceutica. Il sensale mi intratteneva sempre dei suoi giuochi di borsa, dei suoi guadagni, e di milioni, di cui parlava come di cose di sua intrinsichezza. Una volta mi propose di associarmi a lui in una speculazione di carte pubbliche che, secondo un ragionamento chiaro e lampante, doveva in pochi giorni farci intascare una buona sommetta. Io, che gli avevo taciuto le mie strettezze, cercai di fare l’indifferente, ma accettai con la gioia secreta di chi vede venire in proprio soccorso una fortuna inaspettata. Un mese dopo il sensale mi annunziò che per una stupida interpretazione, per parte del pubblico, delle cose politiche, noi avevamo perduto, sulle nostre carte, cinque mila lire. Mi pregò anzi che le pagassi io, ed egli si pigliava l’impegno di farmene guadagnare più del doppio nel mese seguente. Bisogna dire che io cambiassi molto di faccia a quell’annunzio, perchè il sensale s’accorse subito che in quel momento io mi dovevo trovare all’asciutto. «Eh capisco,» prese egli infatti a dire sull’attimo; «capisco come non vogliate così presto far venire denari da casa vostra dove c’è l’abitudine, nevvero? di lasciar la muffa sui milioni! Ma non conta; lasciate fare a me. Dei denari ve ne procurerò io, e quanti ne vorrete.» Detto fatto, mi portò le cinque mila lire. Io mi sentii venir meno dinanzi a quel primo debito così grosso; ma un po’ per l’imbarazzo in cui mi trovavo, e un po’ perchè nelle grandi occasioni io sono sempre uno sciocco, accettai. Allora l’amico mi provò come due e due fan quattro, che per queste cinque mila lire, secondo l’uso, io ne dovevo confessare ottomila; e mi fece firmare una cambiale. Poi le cinque mila lire se le tenne per pagare la perdita, assicurandomi che presto me ne avrebbe guadagnate altrettante, per quanto, diceva, le fossero inezie per me. Così rimasi bruciato come prima, e con questo bel guadagno per di più. Nè passò molto che, impacciato com’ero, mi dovetti far coraggio, e calunniando l’_avarizia_ del mio povero zio _milionario_, confessai al solito amico di trovarmi senza un quattrino. L’amico, dopo avermi canzonato un pezzo sulla mia timidezza da provinciale nel far debiti, e pigliandosi l’impegno di darla lui una lezione agli zii avari, s’impegnò di trovarmi una nuova sommetta, che cercai di moderare più che potei. Firmai dunque una seconda cambiale; e, ben inteso, per il doppio quasi di quello che dovevo ricevere. Ma il bello si fu che anche questa volta mi vidi sborsata solo una parte della somma, e in conto del rimanente mi capitò a casa una corba di roba e un quadro, che il mio creditore dichiarava di _ignoto sì, ma rinomato autore_. Io avrei forse perduti i sensi, se il mio buon amico non mi avesse subito provato che io avevo conchiuso un bellissimo affare, e che _in città_ si faceva così. La politica del navigare in mezzo a tanti scogli mi si faceva ogni giorno più difficile. Oh se avessi potuto rifare il primo passo! Ma intanto mi bisognava passare per un milionario col sensale, per un aristocratico con la contessa, e per un demagogo con Bortolo. Al fiero Bortolo tenevo scrupolosamente celato ch’io menavo vita elegante, e che passavo le mie giornate in casa d’una contessa, e, peggio ancora, in mezzo a tanti _galli del Brenno_, che così egli chiamava gli uffiziali francesi. Cercavo intanto di servirlo con tutto lo zelo nelle piccole combriccole che tenevan luogo di grandi cose; ed avevo cura di mostrarmi a lui un poco arruffato, e meno pulito, per sembrargli tanto più puro. Oh come mi paiono ancor più belle le mie montagne quando mi guardo indietro, e penso a tutta questa roba! * * * Eravamo alla fine del carnevale. Oh se avessi voluto confessare a me stesso, quanto mi era già riuscita amara la realtà delle cose che avevo sognate! L’amico _X_ e il circolo dell’Olona erano proprio quel fior di poesia che m’aspettavo? «Chi sa!» dicevo allora. «E la gran dama?» La gran dama era più bella dell’amico _X_, oh questo poi sì! Ma in quanto alla poesia..., io non ne sono un giudice imparziale. Frattanto in grazia sua ne avevo inghiottite di molto amare. Quante volte non feci il proposito di rompere l’incantesimo, e di fuggire; e allora le scrivevo delle lunghe lettere di eterno addio, che mi affrettavo a buttar subito sul fuoco. Quando le susurravo qualche parola di amore, ella mi rispondeva con un viso severo; quando le lanciavo qualche parola di disperazione, ella l’accoglieva con la più schietta ilarità. Ma se tornavo rassegnato e tranquillo, allora ricomparivano le piccole preferenze, le seducenti amabilità che mi facevano perdere l’equilibrio da capo. Con tutto questo, dagli adoratori della contessa io ero piuttosto invidiato; talchè molte volte, dopo aver conchiuso ch’ero l’uomo più infelice di questo mondo, a poco a poco, pensandoci, mi persuadevo ch’ero fors’anche il più felice de’ mortali. Il carnevale, sentivo dire, era in quell’anno uno dei più belli che mai si ricordassero. Ognuno sentendosi giù dalle spalle quella gran cappa di piombo che erano i _Tedeschi_, si abbandonava di cuore ad un po’ d’allegria. I milanesi poi amano di essere ospitali, e per quanto fossero positivi gli ordini in contrario della _Sezione Olona_, essi davano ai francesi una splendida ospitalità. C’erano state molte feste di ballo, contro le quali io avevo protestato nel circolo dell’Olona, accettando però l’invito nel circolo della contessa. La contessa compariva di rado alle feste; la sua comparsa doveva essere un avvenimento. Era l’ultima ad arrivare, e la prima a partire; ballava una sol volta, e quel ballo, tra i suoi adoratori, era una grazia contesa e concessa un gran pezzo prima. Ella non doveva essere seconda a nessuna; e il còmpito non era facile in mezzo ad altre belle e ad altre potenze riconosciute di primo ordine. Bisognava dunque fare categoria da sè; e così la contessa seguiva un sistema compiuto di abitudini proprie, improntate tutte di una certa originalità. Ai balli veniva tutta sola, quasi con l’aria d’essere un pochino trascurata dal marito; cosa che le raddoppiava l’interessamento degli ammiratori, e le serviva al tempo stesso di scusa per tutte le volte che le tornava comodo di rimanersene a casa. Ella aveva sempre l’aspetto un po’ languido e sofferente; la sua eleganza non era che buon gusto e semplicità; il suo posto era là dove c’erano meno amiche, lontana dalla folla e dai confronti. Al giungere della contessa Neni si vedevano qua e là parecchie diserzioni; ma l’astro scompariva presto, e così la corona de’ suoi satelliti era sempre la più numerosa e la più fedele. Un giorno, mentre io, dopo una delle solite burrasche, facevo le mie ore di contemplazione rassegnato e malinconico, la contessa, discorrendo d’una vicina festa di ballo, annunziò che vi sarebbe intervenuta; e mentre tutti si rallegravano del prossimo felice avvenimento, essa volgendosi a me d’un tratto, soggiunse: «e il mio giro di valzer questa volta lo voglio fare con lei.» Non c’è vento di nord che possa vantarsi d’aver fatto in un subito tanto sereno, come ne fecero quelle parole su di me. Nè solo mi feci sereno, ma anche tutto rosso, come se fosse disceso un sole tropicale. Io non avevo mai osato di chieder tanto, sebbene gli altri l’osassero moltissimo. Decisamente i miei rivali avevano ragione di vedermi di mal occhio. «Per bacco!... cosa tutta spontanea, e a cui io non avevo pensato nemmeno, mentre ce ne sarebbero stati in lista tanti prima di me che da un pezzo pregavano e insistevano.... ma niente affatto!: cosa tutta spontanea!» ripetevo a ogni minuto tra me. E per gli otto giorni che ci furono d’intervallo tra la promessa e il grande avvenimento, nè l’Idea, nè il Bortolo, nè l’Umanità collettiva, valsero a farmi pensare ad altro. E siccome anche i giorni più aspettati arrivano, e pur troppo arrivano presto, così arrivò anche quello del mio _valzer_. Per quanto sapessi che _lei_ non sarebbe giunta alla festa che ad ora tardissima, pure, per esser meglio sicuro del fatto mio, quella volta fui dei primi ad arrivare; cosa che avevo imparato a non permettermi mai. A ogni specchio mi davo un’occhiatina da capo ai piedi, mi aggiustavo i capelli e la cravatta; e non ero niente malcontento di me. «Eh sì, lo puoi amare questo povero Adalbertino,» dicevo frattanto, «il quale non è poi un brutto giovane, perchè in fatto d’occhi e di capelli così neri, non faccio per dire...: e poi non è il più sciocco, credo, di tutti quelli che ti fan la corte.» Anche al sarto del sensale da qualche tempo avevo dato un addio; avevo imparate molte perfezioncelle di buon gusto; insomma, mi pareva proprio di andar benino. Le sale intanto si erano affollate da non potervisi più movere; ma, finchè non ci furono quelle dieci o dodici signore che costituiscono la _vera_ gente, io susurravo con quanti mi imbattevo di mia conoscenza, che non c’era ancora nessuno. Facevo largo, e mi inchinavo leggermente quando ne compariva _taluna_, in modo che mi si poteva credere tutto di casa, ancorchè non la conoscessi che di nome. Che se poi ne passavano di quelle che non erano dell’Olimpo, io rimanevo inesorabile al mio posto, per non compromettermi, proprio come se non passasse nessuno. Mi lamentavo un pochino della musica; trovavo che c’erano pochi fiori, e che la luce non era ben distribuita. Insomma, come dissi, si poteva essere contenti di me. Avevo fatto un passo.... e che passo! da quando al mio paese, con un piffero, una tromba e un candeliere sulla stufa, si ballava in una stanza del fornaio con le ragazze del vicinato e con la Luisa.... Intanto giravo e rigiravo per le sale, procurando di darmi l’aria di non aspettar nessuno, per non _comprometterla_. Però m’ero portato cinque o sei volte fino alla scala; e incominciavo ad essere sulle spine. La contessa Neni fu proprio l’ultima a comparire. Entrò sola, e io la vidi subito; ma la calca di quella gente _che non c’era_, era tale, che non potei andarle incontro. Che peccato! Quest’era la volta che le avrei dato anche il braccio. Ci fu invece un altro più fortunato di me; e mentre io cercavo di farmi largo non la vidi più, e non seppi nemmeno da qual parte fosse andata. Chi non ha vedute che le festicciole del proprio paese, non può immaginare come in queste gran feste di ballo della città si possa mettere un’ora buona prima d’imbattersi in qualcuno che si cerchi. Ebbene, questo fu proprio il mio caso: e tutto affannato incominciavo già a dire «che la è inutile; ch’io sono un uomo disgraziato; che a me non le devono andar bene mai; che il mio destino è così....» quando mi trovai faccia a faccia.... indovinate con chi? col marito della contessa. Non avendo altro, avrei dato in quel momento tutta la mia contea, per evitare quell’incontro. Ma quel buon signore non mi lasciò il tempo di svignarmela, e venne a stringermi la mano con una certa cortesia piena di distinzione ch’era tutta sua. Poi, dopo qualche parola gentile, mi domandò se avevo veduto sua moglie, perchè sua moglie aveva chiesto di me per un certo ballo che essa mi aveva riservato. Allora gli contai il caso mio, ben inteso con tutta quella politica che ci mette un amante in una simile occasione; ed egli non solo m’indicò dov’era sua moglie, ma mi volle condurre presso di lei egli stesso. «Poveri mariti!» pensavo frattanto tra di me; «tutti eguali!» Ma anche questa volta non l’imbroccavo giusta. Nella pratica della vita io non ero che all’alfabeto, ed egli doveva essere già professore. I quarant’anni gli aveva salutati da un pezzo, e s’era dato alla botanica e alla politica; ma egli era stato uno dei giovani più brillanti del suo tempo, e nella scienza del _saper vivere_ non celava la sua superiorità. Sapeva egli ch’io ero innamorato della contessa? Non lo so. Ma, conoscendo sua moglie, egli non poteva avere che una grande compassione per i di lei amanti! La contessa mi fece il più seducente rimprovero per essermi fatto aspettare; poi con un abbandono, con una grazia che mi parvero cose angeliche più del solito, levossi di subito dicendo che non voleva ritardarsi il piacere di adempiere alla sua promessa. C’era lì accanto qualcuno che m’aveva l’aria d’esserne particolarmente indispettito; a me poi pareva che cento occhi mi seguissero pieni d’invidia e di gelosia. Io mi sentivo un palmo alto da terra. L’orchestra sonava qualche cosa di strepitoso che poteva essere benissimo un valzer; ed io pieno di un insolito ardire susurrai all’orecchio della contessa alcune parole ardenti come non avevo fatto mai. Essa le ascoltò; e vidi un sorriso sfiorare le sue labbra con tanta dolcezza che non m’ebbi più dubbio. «Oh sì! ella mi ama. Ch’io ti stringa dunque al mio cuore,» dicevo tra me col mio solito stile, «e nei vortici della danza noi scompariremo da questa terra.» Eravamo giunti nella gran sala da ballo. Toccava a noi; io ero all’apogeo. Col piede alzato già attendevo la battuta... La battuta venne, ma più decisa delle altre per indicare che quella danza era appunto finita. Così non avendo potuto volare tra gli astri quella volta, era scritto che non ci dovessi volare mai più. * * * Quel tratto di sereno che mi parve un momento d’intravedere sul mio orizzonte, era minacciato da grossi nuvoloni che venivano tutto all’ingiro e si facevano sempre più cupi. Le faccende politiche del circolo andavano alla peggio. Si predicava alle arene del deserto. Un giornale, che l’associazione aveva fondato, e che si chiamava l’_Azione_, non aveva trovato azionisti, ed era caduto dopo un mese di vita, e con una dozzina d’abbonati. Bortolo s’era fatto più brusco e violento che mai. Il vento volgeva in tutt’altra direzione, e decisamente pareva che l’Italia volesse rifarsi a modo suo, e al di fuori di molte regole prestabilite. Si aveva un bel predicare alla gente che la via era fallata, che si principiasse da capo: la gente faceva le viste di non capire, e tirava innanzi. La corrente aveva mutato alveo, e noi, rimasti nel vecchio, ci potevamo contare. Anche nelle sfere più alte dei nostri correligionari avvenivano, io credo ogni giorno, rivolte, diserzioni; e Bortolo, che mi voleva fedele, mi teneva in basso, e non mi aveva mai lasciato far capolino al di fuori del circolo. La barca era arenata; ma noi seguitavamo a dare ferocemente del remo nel sabbione e nella mota. Mano mano però che, in grazia della contessa, io andavo spogliandomi della pelle dell’orso, il veleno dell’eresia mi si cacciava sempre più nelle ossa, e qua e là mi spuntava nel pensiero qualche dubbio. In mezzo a tanta vita cittadina, io avrei potuto rileggere i miei articoli di fede a una luce più chiara; ma la fatalità aveva voluto che, ora dietro le tende di velluto della contessa, ora dietro le ragnatele del circolo, io fossi rimasto sempre all’oscuro. E soprattutto le tende di velluto, diciamolo pure, avevano lasciato tutto il resto in una tal’ombra, che la mia povera mente non sapeva più ritrovare il filo di nulla. Così per il moto contratto io seguitavo a trottar dietro ciecamente a Bortolo. Bortolo ogni giorno più declamava e si inferociva; e declamavo e mi inferocivo anch’io, perchè era il meno che potessi fare. Ma come Bortolo fu persuaso che l’apostolato non dava frutto, egli che non era uomo da scotere la polvere dalle scarpe, e tirar diritto evangelicamente, pensò che oramai si doveva agire. Divenuto cupo e misterioso più del solito, decisamente egli meditava qualche piano di battaglia. Lo aizzavano particolarmente l’ex impiegato che sbuffava di vedere un tale, che nei tempi andati ci aveva messa la pelle, a quel posto dove per tant’anni egli aveva messe le maniche di tela; e l’amico sensale, il quale aveva bisogno d’un tafferuglio per raddrizzare col _ribasso_ certe sue speculazioni che andavano alla peggio. Il buon uomo anzi non esitò a parlarmene chiaramente, associando alle osservazioni sull’apostolato militante, quelle sulla vicina scadenza del mese. Finchè s’era trattato di lasciarmi succhiare dei quattrini ora con le speculazioni, ora coi prestiti alla repubblica universale, non avevo osato fiatare; ma questa volta egli aveva dato un assalto alla mia coscienza, e la cosa, per fortuna, era un poco diversa. Ma il sensale mi canzonò prima sulla mia semplicità; poi, siccome io mi facevo serio, voltò tutto in burla, e ne fece delle risate. Ritornò qualche volta ancora sul discorso, ma con un fare che potesse parere anche una facezia, e burlandomi al tempo stesso perchè, a suo dire, mi spuntava un po’ di _coda_. Allora la _coda_ non s’era fatta ancora così elastica; e non m’era capitato, come mi capitò poi di udire un ubbriaco chiamar _codino_ un tale perchè camminava diritto. Questo scherzo dunque sulla _coda_ non mi garbava nè punto nè poco, tanto più che l’amico me lo andava ripetendo in faccia ai colleghi e dinanzi allo stesso Bortolo. Ma Bortolo, ch’era più accorto degli altri, e che voleva conservarmi nella sua devozione, sapeva saltar di pie’ pari, e nascondermi fors’anche tutto ciò che non mi poteva garbare. Con me continuava a tenere quei lunghi discorsi, dalle frasi ispirate e sibilline, ch’erano tutto il mio pasto. Eppure qualche cosa si tramava. Bortolo doveva avere per il capo qualche disegno, di cui nel circolo non si parlava, o che per lo meno mi si teneva nascosto. Mi rammento che avendo io detto un giorno che bisognava pur far progredire la rivoluzione italiana, mi fu risposto misteriosamente che bisognava innanzi tutto principiarla. Intanto il circolo era in aspettazione d’un personaggio che il solo Bortolo conosceva, e che doveva essere reduce da un giro diplomatico con missione secreta nelle province. Bortolo diceva «ch’era un _onesto_ recatosi a rinfrancare la tradizione nelle affigliazioni della Associazione;» ma io, che avevo la fantasia in allarme, fui convinto più che mai che l’universo era minato, e che quest’ignoto veniva a dare il fuoco alla mina. «Oh potessi tu trovare un intoppo per via!» pensavo tra me. «Lasciami fare il mio _valzer_, e poi schiudi pure l’èra nuova.» L’Io, tutt’altro che _collettivo_, aveva fatto tali progressi in me, che per la mia felicità individuale osavo invocare una settimana ancora di oscurantismo. Intanto io cominciavo ad essere sul serio agitato, e pieno di brutti presentimenti. Capivo che questo mio camminare continuo sulla corda, senza contrappeso, non poteva che finir presto con un capitombolo. Ma che cosa dovevo fare? Come sbrogliarmi dalla matassa in cui ero avviluppato? Oh avessi avuto un buon amico, avessi potuto imbattermi nel mio Marcello! Ma come trovarlo? Io ne avevo ben chiesto conto una volta a Bortolo, ma egli crollando il capo mi aveva risposto: «che non ne sapeva nulla, ma che credeva però che la prigionìa avesse in lui fatto disertare dal pensiero l’azione, conducendo questa nel campo della sètta delle maggioranze.» In verità avrei desiderato di saperne qualcosa di più, ma non avevo osato chieder altro. M’era venuta in fine la buona ispirazione d’una corsa al suo paese; ma ero nella gran settimana del mio _valzer_, e pensai: «ci andrò dopo.» Il giorno che seguì il mio apogeo fui chiamato in fretta al circolo, perchè era giunto il diplomatico, tanto atteso, dalle province. Ci andai di corsa: vidi il nuovo arrivato.... e fu per me come un colpo di fulmine. Non c’era dubbio. Sulle prime, tutto vestito di nuovo, e col fare d’un personaggio, c’era da pigliarlo per un altro. Ma era lui; uno di quei due compatriotti della mia vallata, che avevo voluto evangelizzare dal tabaccaio a bicchierini d’acquavite; quello che aveva maggiori vedute nelle teoriche sociali, e che aveva anche il naso più rosso dell’altro. Era proprio lui, ed io mi sentii perduto. * * * Quando nella bottega del tabaccaio si parlava delle ingiustizie e delle sventure sociali, avevo sempre trovato in lui, voglio dire in quell’amico dal naso rosso, per ogni colpa umana, una grande parola di perdono. Sperai che, confessandogli le pene del mio cuore, egli avrebbe compatito all’inganno innocente nel quale avevo lasciato gli amici; sperai ch’egli avrebbe perdonato alla mia inesperienza, e che mi avrebbe coperto con l’usbergo della sua amicizia. Fu su questo tono che gli parlai. Sperai anche che non avrebbe sdegnato un tenue regalo (che non era tenue), il quale doveva ricordargli questo bel giorno della nostra amicizia. Infatti non lo sdegnò. Ma egli era una vittima dell’organizzazione sociale; la sua natura richiedeva qualche bicchierino di acquavite di più di quello che la società gli volesse dare nella sua attuale organizzazione economica. Questo _deficit_ di bicchierini lo manteneva in istato di rivolta contro le altre leggi sociali che egli non poteva riconoscere; e così, ora che eravamo alla pratica, soffocò la pietà per una umana debolezza, e si tenne rigidamente nel campo della protesta. Il giorno dopo, mi vidi capitare l’amico sensale col cappello fin sugli occhi, e col piglio poco confortante di un creditore che va da un debitore fallito, interrogandomi senza lasciarmi il tempo di rispondere, e montando su tutte le furie perchè non rispondevo. Mi accòrsi subito ch’io non ero più il conte della ròcca merlata, e che il diplomatico dal naso rosso mi aveva mariolato il regalo. Il mio castigo più grave l’ebbi proprio sulle prime; e fu il rossore di sentirmi colpevole e di dovermi giustificare dinanzi a quel fior di giudice. Tentai spiegargli, appena potei afferrare la parola, la fatalità che mi aveva tratto a quell’inganno puerile; ma mi accorsi che quello non era il capitolo importante dell’accusa. Allora potei anch’io mutare un po’ di tono, e gli dissi alto che se alla _ròcca merlata_ non c’era annessa la contea, c’era annesso però un fonderello di quante pertiche occorrevano per pagarlo dei suoi bei negozii; e che dei due, a conti fatti, lo straccione poi non ero io. Parendomi che a questa ultima riflessione si rasserenasse un poco, tentai un nuovo appello caloroso a quei _nobili sensi_ ch’io gli dovevo prestare per arte oratoria, perchè mi giustificasse presso gli amici. Gli parlai della fede che mi legava a loro, dell’opera devota ch’essi potevano attendere da me, della serietà mia in ogni più difficile prova.... Ma l’altro mi interruppe da capo; mi tirò sul terreno dei conti e delle garanzie; e poco tranquillo per il suo _avere_, mi piantò dicendo che andava a fare i _suoi passi_ per mettersi al sicuro; e che quanto al resto, gli amici ne erano furiosi, che nessuno più avrebbe voluto saperne di me, che io gli avevo ingannati, e che degli speziali ne avrebbero trovati fin che ne volevano! I democratici! In quel momento giurai di volermi fare speziale. Con la febbre che mi aveva lasciata addosso la visita di quel caro sensale, mi misi al tavolino, e scrissi una lunghissima lettera a Bortolo. Quella lettera rimase senza risposta. Nel circolo di Bortolo, ove si trovavano i sentimenti classici, come si trovano i brandelli di broccato nella bottega del rigattiere, questa severità di Bortolo sarà forse riposta a quest’ora negli scaffali come una merce di provenienza spartana. Ero alla soprascritta, quando il mio uscio si spalancò di nuovo, e un secondo cappello, calato anch’esso fin sugli occhi, mi fece subito capire esserci un altro che veniva per fulminarmi ad occhiate. Era un altro spartano, il ragioniere; il quale in certe supreme occasioni, quando, per esempio, licenziava un guattero della contessa, sapeva trovare l’altitudine e l’accento d’una tale fierezza, d’una tale dignità, da averne di che intrattenere gli amici per un pezzo. «Ma la si figuri!» incominciò a dire il mio demagogo, «uno speziale di campagna! E averlo condotto io dalla contessa! Ah, dunque gli è proprio vero.... e farsi condurre da me dalla contessa! Si figuri la mia responsabilità! Oh, ma io andrò dalla signora contessa e dal signor conte, ed esporrò loro il caso personalmente, e domanderò gli ordini per fare i _miei passi_ sia per conto della nobil casa, sia, subordinatamente, per conto mio. Oh, la vedremo! Introdursi nelle case con falsi recapiti sotto il manto di un ragioniere onorato non solo, ma che fu chiamato come revisore anche in pubblici dicasteri!... Quali erano le sue intenzioni? Che cosa voleva lei perpetrare in casa della contessa? Io già gliela conto chiara.... e non so se mi spiego.... insomma io dovrò dire alla contessa che non posso più rispondere di niente, e farò rinnovare gl’inventarii....» Il guaio di questo povero ragioniere fu quello di essere arrivato in un momento in cui, avendo dovuto giustificarmi due volte, non mi sentivo punto voglia di farlo una terza. Così, quando fummo a questo punto del suo discorso, lo pigliai per un braccio, e con tutta tranquillità, ma senza aprir bocca, lo misi fuori dell’uscio. Senza aprir bocca mi seguì il ragioniere, ma col passo un po’ più svelto del mio. Non so, nel racconto de’ suoi fasti, come s’acconcerà il buon uomo con quest’ultima circostanza; ma probabilmente concluderà col dire che, avendo io cercato d’alzare la voce, egli mi pigliò per un braccio, e mi cacciò di casa. Mandai la lettera a Bortolo; mi chiusi in camera, e caddi nella mia poltrona stracco, sfinito per l’emozione e la vergogna. Mi copersi il viso con le mani; ma allora mi trovai in un turbinìo di pensieri e di fantasmi, ciascuno dei quali mi picchiava sui nervi del capo, e me li faceva dolere stranamente. C’era un po’ di tutto: c’era Bortolo, il circolo, il _naso rosso_, le cambiali, lo zio, Marcello, gli amanti della contessa.... la contessa! A questa apparizione dolcissima l’antico entusiasmo mandò il suo ultimo raggio, e, scotendomi, dicevo tra me: «Oh, tu fai violenza al tuo cuore, ma tu mi ami, io lo so! _Adalberto è un nome che mi piace tanto_, osò appena ripetere il tuo timido labbro, e _il mio giro di valzer lo farò con lei_.... parole semplici, ma profonde, dietro cui sta forse un intero paradiso d’amore! Oh con te io non avrò bisogno di giustificarmi, perchè le mie scuse te le suggerirà il tuo cuore.... Ma io mi giustificherò, perchè io dovevo essere franco e sincero con lei, che è tutta schiettezza e ingenuità!... Aspetterò le ore della sera in cui mi sarà più facile trovarla sola, e avere con lei un lungo colloquio. E allora quale entusiasmo non vedrò io brillare sulla sua fronte quando le dirò: signora, il blasone antico era mentito, ma io saprò deporre dinanzi a voi un blasone che incomincia da me!» I soliloquii di solito sono poco modesti; così non guardai molto per il sottile, tanto la chiusa mi pareva irresistibile, e, quel che è peggio, nuova. Venuta la sera, corsi alla casa della contessa, con la mia parlata _irresistibile_ bell’e fatta, e col passo sicuro di chi va alla vittoria. Ma il passo me lo fermò il portinaio, il quale mi gridò dietro in tutta fretta: «Ehi, signore, la contessa non c’è.» «Come?» ripigliai io, «ho veduto dalla strada le sue stanze illuminate....» «È probabile; ma la contessa quando non c’è, non è poi obbligata a non esserci.... Del resto credo che la contessa per un pezzo non sarà in casa.... per cui, se vuole un mio parere....» «Fatele annunziare subito il mio nome!» «Ma.... se lei poi non capisce.... le dirò che ho già l’ordine di non farlo!» * * * Quella notte la passai tutta in progetti di duelli e in dubbii su chi dovessi ammazzare di preferenza, se il marito, il ragioniere, o gli amanti; me eccettuato. L’alba mi fece vedere un poco più chiaro, e pensai che a queste scene di sangue era bene far precedere qualche schiarimento. Conchiusi ancora che lei era innamorata di me, ch’era la vittima certamente di qualche dramma tenebroso, e che ad ogni costo bisognava ch’io la vedessi e le parlassi. Quest’era il punto difficile; ma, facendosi sempre più chiaro il mattino, mi balenò in mente, come spesso mi accade, un’idea vecchia; l’idea di ravvolgermi in una nera cappa, di mettermi una maschera, di calarmi il cappuccio sul viso, e di aspettare così la signora in un veglione al teatro. A render meno peregrino questo pensiero, ci era la circostanza che la sera ci doveva essere un veglione, e che io sapevo da un pezzo che la contessa ci sarebbe andata. Dopo un’intera giornata, e non ci voleva meno, che impiegai nel provare a me stesso, come quell’ordine dato al portinaio doveva essere la prova irrefragabile che io ero appassionatamente amato, eccomi ravvolto in un _domino_ tutto nero, triste, solo, tra l’onda gaia di maschere a mille colori, come un corvo in mezzo a un bel prato smaltato di fiori. Capii subito che esse non mi riconoscevano nessun diritto di concittadinanza: chi mi sospingeva a urtoni, e chi mi respingeva con un motto poco fraterno: mi domandavano se ero una spia, un ladro, o un marito geloso. Questa figura triste e solitaria era loro uggiosa come l’immagine del silenzio e della malinconìa, che forse li attendeva al mattino all’uscio di casa. Dopo una traversata lenta e burrascosa, giunsi al palchetto della contessa: mi guardai un’ultima volta in uno degli specchi del corridoio per accertarmi d’essere irriconoscibile; poi, fattomi un gran coraggio, aprii piano piano l’uscio, ed entrai. Il palchetto era affollato di visitatori e di maschere; vi si faceva un gran chiasso, e nessuno si accorse che fosse entrata una maschera di più. Mi alzai in punta di piedi per spiare al di là di una siepe di spalle che avevo dinanzi, per veder la contessa, e, pensavo tra me, per leggere nel suo volto mesto, turbato, una segreta afflizione del cuore; mi aspettavo proprio questa volta di leggere scritto sulla sua fronte: _Adalberto_. Ma per quanto il mio occhio fosse propenso a questa scoperta, pure non gli fu difficile di vederci subito tutt’altro: sulla fronte della contessa non si leggeva proprio nulla. Bella, serena, contentissima di sè, non le si leggeva pensiero che si allontanasse dalle chiacchierine e dalle risate del suo palchetto: ma era forse un’illusione anche questa; e mentre i più loquaci della brigata la credevano tutta intenta alle belle cose che le andavano dicendo, la contessa forse pensava all’effetto ottico che ella faceva in quel momento traverso alle molte lenti che la fissavano da cento parti. Di queste analisi e di questi ragionamenti però, non ebbi tempo di farne in quel momento. Pur troppo mi accorsi subito a colpo d’occhio di qualcosa che non mi lasciava illusioni; e dalle punte dei piedi ridiscesi presto sui tacchi. Rimasi qualche momento come impietrito, e senza sapere quale indirizzo dare ai miei pensieri; quando una loquace mascherina in _domino_ rosa che sedeva, al parapetto, di contro alla contessa, saltò su a dire: «Cara Neni, me ne vado. Sono un poco infreddata, e a dirti il vero ero venuta qua nella speranza di trovare, tra i tuoi adoratori, lo speziale, per farmi dare qualche pozione o qualche pillola di _lauroceraso_.» «Ah! lo conosci anche tu lo speziale! Aveva forse acceso _un fornello_ anche per te?» riprese la contessa. «Tutt’altro! Avevo imparato a conoscerlo, vedendolo sempre dietro di te come la tua ombra. Fu intraprendente lo speziale!: si fabbricò la sua ròcca... poi venne quaggiù a pigliare i _merli_! Dell’avventura ne parla stasera tutto il teatro....» Qui la conversazione si rifece confusa e clamorosa come prima. Chi domandava di che avventura si trattasse; chi voleva sapere come la era andata a finire; chi non ne sapeva nulla, e voleva saper tutto in una volta; altri ne contavano de’ brani, con versione libera e fantastica; ed io frattanto, più ingrossava il mio romanzo e più cercavo di farmi piccino. Non potei afferrare tutto ciò che la contessa andava dicendo, e in cui c’era sempre di mezzo il ragioniere, diventato per il momento un _procuratore_; ma sentii che «.... il procuratore aveva tutta la colpa dell’accaduto, perchè doveva pigliar meglio le sue informazioni; ma che, essendo uomo di molta energia e di molta avvedutezza, aveva messo rimedio in tempo, ed aveva data allo speziale tal lezione di cui si sarebbe rammentato per un pezzo....» «Oh! oh! l’_apothicaire_, l’_apothicaire_...,» gridava l’uffiziale francese, ch’era pure della compagnia, ridendo per tutti di qualche suo bel motto che non giunse fino a me, ma che sarà stato uno sfogo di rivalità tra _apothicaire_ e _épicier_. «Mi spiego adesso le sue opinioni politiche,» diceva un altro, «le quali erano esagerate appunto come le polizze del suo mestiere.» «L’hai scappata bella, cara Neni,» gridava la mascherina dal domino rosa, «con un così terribile conquistatore! Egli si era prefisso di far girare il capo alle signore, e sfido io, quando s’accostava con quell’essenza di gelsomino, a non averne il capogiro!» «Confesso» conchiuse la contessa «che io ero lontanissima dal crederlo un _senza nascita_. Vedevo bene ch’egli veniva da luoghi dove non c’è _mondo_, dove non ci sono modi. Eppure sulle prime quella sua aria di _coq du village_ mi aveva divertito moltissimo. Adesso però era diventato oltremodo noioso; e l’essere ritornato a far lo speziale sarà un bene per lui, e la è di certo una gran fortuna per noi.» In quel mentre nuove maschere, spalancando con grande strepito l’usciolo, vennero a cacciarsi nel palchetto. Nella ressa di chi voleva entrare, e di chi voleva uscire, io che ero, come ognuno già se lo pensa, tra questi ultimi, mi trovai per un momento nelle braccia dell’uffiziale francese, il quale mi pigliò per una delle maschere venute, e mi gridò scotendomi: «_Oh, par exemple! êtes-vous l’apothicaire!_» Pieno d’ira e di veleno io lo fissai col piglio di chi vuol provocare qualche cosa di luttuoso; ma l’altro non vide che l’espressione scipita deila mia maschera, e diede in risa più sgangherate di prima. Un nuovo urtone frattanto per parte di quelli che uscivano mi cacciò sul corridoio, ove mi ripigliò tra le sue spire la corrente della folla. Mezz’ora dopo ero sotto la coltre; e convinto che il mio romanzo era finito, spensi il lume. Ma la notte, benefica sempre, matura i pensieri e i riflessi, quando non può essere apportatrice di riposo. La notte dunque mi disse che al mio romanzo mancava un capitolo ancora; un capitolo che fosse la conclusione del primo volume, e la prefazione del secondo: il quale però, a tranquillità dei miei lettori, non verrà scritto mai. Un capitolo insomma nel quale ci fossero quegli avvenimenti che, dopo la sua scappata fuori del nido, ridussero anche il passero della sorella del curato dalla bocca del gatto alla tranquilla esistenza sul letticciolo di bambagia. * * * Quella buona inspirazione di correre alla città natale di Marcello, e di buttarmi nelle braccia del mio vecchio amico, inspirazione a cui prima non avevo dato retta abbastanza, ritornò trionfatrice allo spuntare dell’alba, come una speranza, un asilo, dopo aver veduto per tutta la notte le fauci del gatto. Questa volta non indugiai. Allo scocco del mezzogiorno io ero già per le vie di un’altra città più modesta a chieder conto di Marcello; e poco dopo picchiavo alla porta dell’amico. Ci guardammo fissi un istante con quella tacita sorpresa di due vecchie conoscenze che, rivedendosi dopo molti anni, sentono il bisogno di raccapezzare in fretta il passato, e di fare un po’ d’inventario del presente. Nell’inventario del presente mi colpì la quantità straordinaria di capelli grigi ch’era venuta a frammischiarsi ai capelli nerissimi di Marcello: a voler dire da qual parte fosse la maggioranza bisognava chiedere la controprova. Marcello aveva tuttora l’aspetto risoluto e vigoroso; ma il suo volto portava le tracce delle sofferenze patite; le tracce dei digiuni, delle celle umide, e di cinque anni di ferri nelle fortezze dell’Austria. Ma la rassegna fu brevissima, perocchè Marcello ci pose subito fine stringendomi nelle sue braccia con l’antica vivacità e con l’antico affetto. Marcello volle presentarmi ai suoi fratelli e alle sue cognate; tutta gente schietta, vivace, buona, che viveva in una sola casa, come in una sola famiglia, e in mezzo a cui si respirava una cert’aria di onestà, di semplicità, di cortesia che mi riusciva nuova e seducente: fino allora non avevo respirata che la brezza troppo cruda del mio paese, o la mal’aria del piano. A Marcello narrai tutte le mie vicende, e più diffusamente di quello che non abbia fatto scrivendole oggi; gliele narrai con tanta schiettezza, e con così poca misericordia per me, che ne lo vidi scosso ed afflitto più di quello che volesse parere. Egli mi strinse nuovamente nelle sue braccia, e mi disse che a metter riparo, e prontamente, a tutto ci avrebbe pensato lui. Mi disse mille cose che mi parvero ben più vere e più sante di quelle quattro che avevo imparate a memoria sul mio vecchio formulario. Mi additò per quali vie spaziose cammini il mondo da sè, senza bisogno che nessuno lo regga per le falde; e come, nel camminare, pigli mano mano le nuove provvigioni che meglio gli si confanno, rifiutando sempre le rancide, qualunque sieno. Infine mi insegnò il culto di una sua grande divinità, a cui egli teneva sempre fisso lo sguardo; divinità, il cui regno sembra talora non essere _de hoc mundo_, tanto si fa umile e piccina; ma che poi piglia la rivincita, e ricompare gigante nelle lotte e padrona del campo; e quasi sempre senza vestirsi da eroe: il _Buonsenso_. Il giorno dopo Marcello partiva per la capitale dei miei debiti e dei miei disinganni, volendo ch’io rimanessi nella sua famiglia finchè non gli fosse riuscito di aggiustare le mie partite, e di levarmi con onore dagli impicci in cui ero caduto. Ciò che più di tutto mi affliggeva, era il pensare al mio povero zio, che con qualche artificio avevo in quei mesi tenuto in inganno, e che mi credeva in tutta buona fede all’Università, tra le braccia della farmacia, prima scienza del mondo. Povero zio! Sapere in una volta ch’io l’avevo ingannato, ch’ero pieno di debiti, e che mi ero fatto beffare e ingiuriare da tanti! Ce n’era per lui da morire di dolore. Marcello che mi aveva letto nell’anima, com’ebbe rattoppate alla meglio le mie faccende, e in modo che almeno non avesse a immischiarsene un tantino l’autorità, andò fino al mio paese, e fece egli stesso presso mio zio quello che io non avevo il coraggio di fare. Così il buon vecchio seppe la disgrazia, ma non come l’avrebbe portata il vetturale che andava una volta per settimana al capoluogo del circondario; la seppe da una voce amica, che accanto alla mia scappata potè mettere una seria parola sui miei buoni propositi. Marcello suggerì allo zio tutte le buone ragioni, che lo zio forse non avrebbe voluto così subito confessare d’aver trovate, per perdonarmi. La sola lezioncina, che tacitamente lo zio mi inflisse, fu quella di pagare i miei debiti col vendere la vigna della _ròcca merlata_. L’annata per i miei studii era oramai perduta; nullameno volli recarmi all’Università per farvi i primi passi nella mia riconciliazione definitiva con le storte, con gli empiastri e coi pestelli; e nel tempo stesso per non tornarmene così subito a casa. Temevo il banchetto del figliol prodigo. Il mio curato, tenero com’era delle storie antiche, sarebbe stato capacissimo di imbandirmi un vitello intero. Insomma, ritornando al mio paesello, avrei voluto farmi additare per qualcosa di buono, o almeno giungere fra i miei compaesani quando la loro fantasia, dopo aver fatta sui miei casi una lunga leggenda, l’avesse del pari dimenticata. L’occasione d’aprire libro nuovo e pagina nuova, proprio come desideravo, non tardò. Per questa mia Italia, che amo come un innamorato, avevo detto delle ciarle molte, ma non avevo fatto mai nulla. Nel giorno sacro della guerra, io, sciocco, avevo protestato contro la guerra imbelle dei cannoni, in nome delle falci, dei chiodi, e delle formole terribili che stavano nell’arsenale dell’amico X. Nessuno nel mio paese aveva sospettato che quell’astensione fosse un grande eroismo, ma piuttosto l’avevano tutti creduta una gran paura. Anche lo zio mi avrebbe veduto partire di buon occhio, perchè il fare la guerra era per lui l’unica cosa che potesse gareggiare a questo mondo col fare le pillole. La fortuna volle che io potessi rimediare a tutto: io feci ritorno alle pillole, e l’occasione della guerra fece ritorno a me. Le guerre però bisogna pigliarle come vengono, e non le si possono scegliere secondo i propri gusti. La nuova guerra non fu quella che mi avrebbe soddisfatto per tutta la vita; non fu la guerra ai forestieri. Anzi non l’ho voluta mai chiamar guerra; e solo dirò che sono andato anch’io a dare una mano fino in fondo allo stivale, perchè lo si potesse mettere a nuovo, e d’un solo colore. Non scriverò dunque le mie milizie; ma chi le vuol sentire venga al mio paese, dove le conto, per passare le sere d’inverno, in una edizione che ha il pregio d’essere corredata da un buon fuoco, e da una buona bottiglia; la bottiglia però non è più di quelle della _ròcca merlata_. * * * In una giornata d’inverno dell’anno seguente, io facevo ritorno al mio paese. Lo avevo lasciato con l’intento secreto di diventare uno dei generali degli Stati Uniti d’Europa, e ci ritornavo con la bisaccia e il cappotto sdrucito di soldato semplice: lo avevo lasciato con la febbre delle allucinazioni, superbo e iroso, e ci ritornavo con quella serenità d’animo che sola sa dare la coscienza dell’aver fatto il proprio dovere. Non ci volle che quel briccone di campanile del mio paese per mettermi il cuore tutto sossopra, proprio come se ci fosse ritornato l’_io collettivo_ d’una volta. Appena lo vidi spuntare da lontano avrei voluto saltargli al collo e dargli un bacio, se mi è permesso dire così. Ma tra le cose che gli avvenimenti avevano messo di galoppo, non c’era la vettura del mio paese; ed era appunto questa che mi conduceva a casa di quel suo passo anteriore al risveglio nazionale. Presto m’accorsi ch’ero aspettato, e che gli amici mi avevano preparato un po’ d’ingresso trionfale. Primo a salutarmi fu uno sciame di ragazzi che gridavano a tutta gola, buttando in aria i berretti; poi gli amici, i parenti, i curiosi; e da ultimo la banda. La banda, per il paese e per me, era una grande novità. Lo zio parlava spesso dei tempi in cui in paese c’era la banda, ed egli era uno dei clarinetti; ma, sciolta dopo i trattati del _quindici_, la banda aveva fatto scriver molto ai Commissarii del distretto, e non doveva ricomparire che dopo quarantaquattr’anni. Al momento del mio ritorno la banda componevasi già di cinque _parti_; c’era un trombone, due trombe e due clarinetti. In principio del paese c’era un albero, piantato in mezzo della strada, con due bandiere e un cartello su cui si leggeva: SALVE O PRODE CAMPIONE DI QUESTO BORGO E DI QUELLE SCHIERE CHE BELLONA CONDUSSE E GLI DEI PROTESSERO. L’iscrizione era del maestro: parecchi che non conoscevano Bellona, ne capivano poco, e volevano scommettere ch’ero stato invece con Garibaldi. Sotto l’albero c’era il curato e lo zio, il quale portava una gran sciarpa tricolore a tracolla e, soffocando gli affetti privati dinanzi ai doveri della cosa pubblica, mi riceveva come sindaco. Il curato mi lesse un discorso che incominciava colle Termopili e finiva, tra gli evviva degli astanti, con Maratona e con Austerlitz, per un riguardo allo zio. Al discorso non potei tener dietro, perchè subito dopo le Termopili, girando gli occhi, vidi poco distante un gruppo di ragazze che avevan l’aria di non voler essere vedute, e ch’io non riconoscevo più, tanto in meno di due anni avevano lasciato il guscio, e pigliato il fare riservato e vergognoso. Tra quelle ragazze ce n’era una che si teneva nascosta più delle altre, ma che io vidi per la prima, e che era la più bella di tutte. Appena mi parve di averla riconosciuta, mi sentii il viso farsi di brace. Ritrassi gli occhi; poi avrei voluto guardar di nuovo, ma non ci trovai più il verso. Guardavo in basso; e mi accorsi allora per la prima volta quanto fosse sdrucito e malconcio il mio cappotto: pensavo che, per aver avuta la febbre, in quel momento _tutti_ mi dovevano trovare smunto e brutto; e poi vidi che avevo anche le scarpe rotte. Di bello e nuovo non avevo che una cosa sola, una medaglia d’argento appesa a un nastro azzurro, ancor lucida l’una e lucido l’altro. Avrei voluto che tutti fissassero quel punto solo, ch’era l’unica cosa pulita e in assetto che mi avessi. Oh, che storia lontana mi sarebbe parsa quella della contessa Neni se qualcuno me l’avesse richiamata in quel momento! Il paesello, la casa, tutto, fino i pestelli mi parvero, da quel giorno, proprio quel letticciolo di bambagia su cui era andato a finire quel mio precursore d’avventure, il passero della sorella del curato. Non è a dire però che, proprio come lui, mi sia messo a vivere col capo sotto l’ala, passando da un sonnellino all’altro. Il capo invece io lo misi a partito, e cominciai col riprendere e col compiere quegli studi ai quali m’ero sempre ribellato in nome di quegli altri centomila studi, che mi avevano condotto sino allora a non studiar mai niente. Lo zio ne è tanto contento che non sa più star nella pelle, e non c’è storta al fuoco di cui non mi confidi il quid che ci bolle in secreto. Egli si è tenuta la direzione del _laboratorio_, ossia del suo fornello, ed ha lasciata a me la cura della spezieria. Siccome poi egli mi chiama sempre il _militare_, così voleva che sulla porta della spezieria ci fosse scritto: _farmacia militare_. La cosa non è andata a luogo subito per qualche mia osservazioncella; il progetto sussiste, ma lo si differisce di giorno in giorno. Lo zio poi ha desiderato di vedermi capitano della guardia nazionale; e da un anno infatti io sono a capo di tutte le forze di terra del mio paesello. Poi faccio tant’altre piccole cose.... perchè bisogna sapere che nella mia valle, non essendoci che un solo partito politico, quello del criticare, io mi sono messo in capo di crearne uno nuovo, quello del _fare_! Lo zio adesso desidera.... e qui non guardatemi, perchè dovete sapere che non ho smesso ancora di farmi qualche volta rosso in viso tutto ad un tratto. Lo zio insomma è così contento d’essere zio, che vorrebbe diventare _pro-zio_. Ma non chiedetemene di più, perchè ciascuno è fatto a proprio modo, e il modo mio questa volta è quello di fermarmi qui. Per finire poi la storia del paese, vi dirò che quel buon figliolo di garzone del fornaio non è ritornato più. È morto al Volturno; e gli fu messa una lapide in chiesa, che ricorda come anche il nostro paesello abbia dato il suo tributo all’unità della patria. Morì il curato; morì la madre della Luisa. Alcuni dicono che la Luisa vada presso una sua parente che sta lontano; altri dicono di no, e soggiungono che se ci andrà, farà in breve ritorno. Io che volli scriver presto, anzi troppo presto, questa mia storia appunto per non darvela compiuta, permettetemi che vi lasci nella curiosità, e non vi faccia pronostici. E quel diplomatico dal naso rosso? Lo vidi per il mondo ben vestito, ma da un pezzo non ne ebbi più nuova. Che se poi aveste un’altra curiosità, la curiosità di sapere se di quel passero della sorella del curato io ne abbia fatto, proprio in tutto, il mio esemplare, allora prima di posar la penna lasciatemi dire una parola ancora. Quel passero col suo contegno severo aveva voluto di certo ammaestrare la mia giovinezza inesperta; e così gli avessi seguìti allora i suoi taciti consigli! Ad ambedue è capitata una spennacchiata del gatto, ma le conseguenze morali furono diverse, e con tutto il rispetto ch’io professo a quell’egregio mio precursore, non esito a dichiarare che non l’ho seguito nelle sue deduzioni, e che ho pigliato tutt’altro cammino. Evidentemente il disinganno aveva condotto quel passero allo scetticismo. Egli aveva perduta la fede nelle ali; la fede nei voli arditi e felici dal piano al monte, e dal monte, chi sa? alle cime inaccessibili, dove l’aquila tiene il suo nido. Egli più non credeva che a quei quattro salterelli che gli era dato di fare con le proprie gambe; ed anche alle proprie gambe egli guardava di traverso, nel saltellare, con un occhio in cui cercavi invano la vera fiamma della fede. Io invece questa fiamma santa l’ho conservata; e credo nelle ridenti pendici lontane, e nei vasti orizzonti. Credo di più che la fede e l’ideale non abbiano nulla a temere dall’esperienza della vita, come l’oro fino non ha nulla a temere dal crogiolo. Delle scorie ne ho buttate via molte! e forse non ho finito: ma mi tenti invano, ombra del passero, se mi vuoi compagno dei tuoi salterelli sfiduciati! Tutto il mio scetticismo consiste nell’aver imparato che ci sono delle gemme fatte di vetro e di talco, e delle x che, a conto finito, diventano modestamente le frazioni d’un quattrino. LO SCARTAFACCIO DELL’AMICO MICHELE. Milano, 1º dicembre 1867. Amico carissimo, Ieri, quando ci siamo incontrati al crocicchio delle Cinque Vie, tu mi hai fatte, tutte in una volta, mille domande, ch’erano ben naturali dopo tre anni che non ci vedevamo, ma che in quel momento erano troppe. Avevo sotto il braccio un fascio di carte, e nella testa un nuvolo di cose; eran due ore che correvo, per cento affarucci, da un ufficio all’altro, e non avevo finito. Era un viavai di gente da tutte le parti, e intanto tu mi domandavi, se lo rammenti, tutto d’un fiato «dove andavo, cosa pensavo, donde venivo, cosa facevo!» Ad ogni domanda, lì sui due piedi, non ho potuto risponderti che con un urtone, e senza mia colpa, perchè erano urtoni di rimbalzo. Presso le mie gambe s’erano già fermati due carretti; c’era un incontro di omnibus, e veniva una compagnia della Guardia nazionale. Tutto questo dimostrava come presso le cantonate sia difficile il raccontare anche una sola pagina delle proprie memorie. T’ho abbracciato in fretta; t’ho risposto che avevo mille cose a dirti, e che sarei venuto in casa tua a fare una gran partita di chiacchiere. Ma eccomi, stamani, una lettera del fattore che mi richiama in campagna; e così per un pezzo, addio chiacchiere. Ti voglio però pagare il mio debito. Devi dunque sapere innanzi tutto che in questi tre anni non ho fatto un bel niente. Fui anche ammalato, credo di mal di fegato: passai delle giornate intere chiuso nella mia camera, sprofondato in un seggiolone, e purchè le gambe rimanessero ferme, lasciavo che la fantasia camminasse come le faceva comodo. Di tanto in tanto poi, figurati che buon tempo! pigliavo la penna per mettere in carta le ubbie che mi attraversavano la mente e le cose che mi facevano maggior colpo. Lo vuoi tutto questo scarabocchio? Leggilo, se hai del buon tempo anche tu, e ci troverai la risposta a tutte le domande che mi hai fatte, e anche a molte di quelle che mi avresti potuto fare se non venivano quegli _omnibus_ e quei carretti. Ti dirò di più che, sebbene io non avessi avuto da prima altro pensiero che quello di scrivere, per così dire, a me stesso, pure qua e là devo avere scritto proprio come se qualcuno mi dovesse leggere, tanto è naturale in chi racconta il bisogno d’avere chi lo ascolti. Leggi dunque tutto questo scarabocchio; così se avrò scritto, senza volerlo, una storia, potrò anche dire d’aver avuto un lettore. Addio. L’amico MICHELE. * * * 15 luglio 1865. C’è dei momenti in cui è un gran bisogno dell’animo quello di scrivere una lettera. Convien però dire che un tal bisogno non lo sentano tutti, perchè de’ miei molti amici, non ce n’è uno che mi scriva una riga. Ma i miei amici hanno ben altro di meglio a fare: i miei amici sono diventati tutti uomini utili; il solo rimasto inutile son io. Confesso però che il silenzio altrui mi dà poco coraggio, per cui volendo proprio scrivere a qualcuno, la cosa più prudente è di scrivere a me stesso. Ma per scrivere a me stesso bisognerebbe che scrivessi cose che interessassero me; cioè, le mie memorie. Le memorie di che? La sarebbe una bella pretensione per me che sono così poco un uomo grande! Eppure mi pento di non avere scritto un po’ di cronaca nei tempi addietro. Eravamo pochi allora, ma tutti giovani, caldi, pieni di fede e di poesia. Bei tempi! Cioè tempi brutti, perchè, a ragionar bene, bisogna dire che i tempi belli son questi in cui i pochi son diventati i molti. Ma a me diventarono molti anche gli anni, e tutt’altro che molti i capelli. La poesia però ci ha perduto, e, per il meglio forse, non è più ricomparsa vergine e salda come prima. Nel quarant’otto s’era proprio creduto di andare in capo al mondo con una punta di ferro su un bastone e un vestituccio di tela. Ma senza questa santa ingenuità, chi avrebbe incominciato? Mi ricordo che anch’io, come tant’altri, essendo salito al potere, non mi parve in coscienza di fare abbastanza bene il dover mio in quel Comitato qual si fosse di cui facevo parte, finchè non fui vestito tutto di velluto, non ebbi una gran cintura di pelle, e non mi vidi piantate parecchie piume nel cappello. Chiesi l’obolo della vedova, feci comporre l’inno delle nazioni da redimere, e non so in quale occasione decretai indipendente l’Irlanda. Con tutto questo, se mi toccò la mia parte della impopolarità che accompagna il potere, l’ho dovuto al sospetto che appartenessi al partito della gente troppo positiva. Oh santo entusiasmo, sublimi inezie, sapienti spropositi, dove siete voi andati a finire! Nessuno serberà memoria di voi? nessuno verrà a cercarvi nelle fosse dimenticate dei campi di battaglia, delle terre d’esilio e dello spianato d’una prigione? Delle vicende intime di noi povere sentinelle perdute che facemmo le veglie dal 21 al 48 la storia che cosa dirà? Nessuno, proprio nessuno avrà scritto in quei tempi la pagina quotidiana di quelle sante memorie? Nessuno che le abbia scolpite nel cuore, scriverà un libro che racconti ai nostri figli, ricchi, grassi e beati a buon mercato, quali erbe amare abbiano masticate i loro poveri vecchi, e quanta fede li ha mantenuti instancabili e ritti? Questo testamento va fatto, e manca al suo dovere chi lascia andare perdute le memorie di un così nobile retaggio! Qualcuna di queste pagine la potrei scrivere anch’io. Io? E dàlli con quest’io! Da qualche tempo, senza dirmene nulla, è venuto a rizzar casa entro di me non so chi, il quale si prende lo spasso di soffiarmi di tanto in tanto una parolina all’orecchio e di farmi il precettore. È un precettore impertinente ed anche ignorante! perchè non sa che il mio dovere lo conosco senza che me lo insegni lui. Il mio dovere l’ho già fatto; adesso tocca agli altri, ed ho le mie buone ragioni per dire che ho finito; non foss’altro perchè sono ammalato; non foss’altro perchè non mi accomoda. Io? La mia parte l’ho fatta, io, ed ora, basta. Aspirai tutta la vita a un punto, e vi giunsi, ma lo confesso, stanco e rifinito. La mi si lasci dunque contemplare questa bella Italia che mi si para dinanzi; mi si lasci gustare questo sospirato riposo, quest’aura di pace che mi ristora dopo tanta fatica e tanta arsione. Aura dolcissima! Ma gli è però un gran dire che queste brezzoline tanto desiderate, appena comincino a spirare ti fanno tirar su il bavero e mutar di posto perchè ti paiono di troppo. Ma cosa voglio dir io con questo? Voglio forse dire ch’erano belli anche i tempi passati perchè erano i tempi dei miei capelli neri e della mia poesia? Ma che poesia? La poesia forse delle spie? No. Per oggi è meglio che la finisca, anche perchè, e lo so per prova, certi pensieri sono i peggiori nemici del mio povero fegato. * * * 16 luglio 1865. Questa notte col mio fegato è andata male. Ho fatto chiamare il medico, e sentirò che cosa me ne dice. Ma egli mi dirà di star allegro, di viaggiare e di andare a spasso. Dirà lui ch’io sto benone, o tutt’al più mi verrà fuori con la nevralgia. Quel mio buon amico dottore ha una gran simpatia per le nevralgie! — Ma possibile, gli domando io, che in cinque anni di Università non t’abbiano insegnato altro che a mandare gli ammalati a viaggiare o a passeggiare? — E lui ride; qualche volta però capisce d’aver torto; allora mi ascolta il cuore con l’orecchio, picchia di qua, picchia di là, mi fa cento domande e lo si direbbe persuaso pur troppo ch’io sto male. Ma un minuto dopo torna a metter tutto in canzonella, e se ne va. Un giorno mi disse ch’io sarei stato un bel caso per l’_omiopatia_. «E perchè no?» gli risposi «se la tua scienza rimane sempre muta, io dovrò bene ricorrere a qualche altra che parli.» — «Ah, tu vuoi la ricetta?» riprese il dottore «eccola qua.» E preso un pezzetto di carta scrisse sopra: _recipe qualche occupazione, o un passaporto_. Un passaporto? A questa parola feci una triste riflessione: è spesso un estremo rimedio, anzi è la confessione che rimedi non ce n’è più, quando il medico dice all’ammalato: «bisogna mutar aria.» Fosse così? Non glielo domandai, ma sentii il bisogno di rispondergli e di trattenerlo. «Non mi è nuova, caro dottore, questa tua grande idea di volermi vedere con una penna in sull’orecchio e un fascio di carte dinanzi. So bene che cosa vuoi dire con codesta tua _occupazione_. Ma te ne ringrazio. Io sono un vecchio cavallo di battaglia, e non ho groppa buona per la carretta. Se udissi la tromba del reggimento, ti ribalto il villano, e corro alla manovra. Tu sei più giovane di me, caro dottore, e non so se mi capirai. Non so come la pensino quelli del tuo tempo. Io, per conto mio, e per conto di quelli della mia età, ti dico che il nostro còmpito è finito. È inutile farmi la cera complimentosa, caro dottore; lasciami dire. Noi siamo stati i cavalieri erranti dell’Italia; per lei abbiamo sospirato e cantato; per lei siamo scesi soli in tutte le lizze, e abbiamo spezzate cento e cento lance. Ora ci vorresti tu chiamare al suo servizio per fare i conti e le spese della famiglia? Sapresti tu con tanta disinvoltura essere oggi l’amante, e domani il ragioniere della tua bella?» Ma qui il dottore mi interruppe per dirmi bruscamente che tutti in Italia dobbiamo essere i servi e i padroni a un tempo; i sudditi e i legislatori; i mariti e i ragionieri.... «Benissimo, dunque; ma allora ti dirò che io mi sono più d’una volta innamorato, ma che non ho voluto prendere moglie mai. Sì, in Italia il matrimonio è fatto, e i figlioli saranno una gente fortunata che le altre famiglie, forse, invidieranno. Ma l’antico amante, caro dottore, ha poetizzato di troppo tutta la vita, e non sa prendere con disinvoltura la vita coniugale. Ha veduto sempre da lontano la sua bella, misteriosamente ravvolta in tutto ciò che di più splendido e di più poetico gli offriva la fantasia. Erano più divine che umane le sue forme, ed egli credette in buona fede d’essere il fidanzato d’una Dea. La moglie venne in casa, bellissima, ma di questo mondo. I contorni vaghi e indefiniti divennero da quel giorno linee precise a cui la fantasia non può nè aggiungere nè togliere nulla. Quel velo aereo che la ravvolgeva, si mutò in vesti di mussola o di seta, di cui il marito conosce il costo sino all’ultimo quattrino. La Dea dalle grandi chiome, dalla fronte serena, dall’incesso maestoso, ha il suo fintino di trecce posticce, i suoi quarti d’ora di malumore, i suoi momenti di restìo. È benefica e grande, ma bisogna pagarle i debiti. Lo sposo ripete le frasi del suo amore, ma vengono a interromperlo i conti della cucina. Egli è felice, ma vissuto sempre tra le nuvole, ora che è calato a terra, al pari delle rondini, stenta a muover le gambe.» E il dottore intanto rideva più che mai, e mi domandava la conclusione. «La conclusione è che questi antichi ammalati, come diresti tu, di poesia e di amore, il giorno in cui toccavano la mèta avrebbero dovuto morire! Chi poi non ha avuto il buon senso di morire davvero, procuri di rimediarci alla meglio, e faccia quello che intendo di fare io per quel po’ di tempo che mi rimane: si ritiri dal mondo e si faccia fare il funerale come Carlo V. Eccoti il mio còmpito, caro dottore, che non è precisamente l’impiego che tu mi vorresti dare, ma che è il solo partito ragionevole a cui mi possa appigliare. E ci ho pensato seriamente.» Il dottore sulla fine rideva un po’ meno e mi guardava fisso in volto, di certo per arguire, senza ch’io lo sapessi, se nel mio fegato prevaleva il giallastro delle cellule epiteliali o il rosso della congestione dei tessuti. Poi conchiuse subitamente, con la sua solita sincerità: «Caro mio, se tiri via di questo passo, finirai col diventar matto.» * * * 25 luglio 1865. Questa mattina furono quattro quelli che mi domandarono che cosa faccio. «Piglio il fresco» risposi al primo, che mi trovò seduto sotto gli alberi del bastione. «Ma sicuro, cosa fa il nostro Michele, con quella cerona da papa?» continuò un altro ch’era a braccetto del primo. «Cerona!» ripresi io; e devo aver fatto una gran smorfia. I due amici si guardarono sorpresi senza capir niente. «Ma, ecco, io volevo dire» riprese il primo» tu che hai sempre studiato come un martire, che ti sei compromesso per la patria, come fai ad esser qui? Eh Dio sa che impiego aspetti, tu!» «Sul bastione?» «Sempre diplomatico il nostro Michele! Verrò poi a raccomandarmi a te....» «Insomma, conservati sempre sano e rubicondo come ora» terminò quello della cerona, e se ne andarono. Allora mi mossi anch’io in cerca d’un viale più solitario, per passeggiare tutto solo coi miei pensieri. Eh sì! credo che al mondo non ci sia stato che Adamo che abbia goduto, nei suoi primi tempi, d’un tantino di libertà; ben inteso prima di svegliarsi da quel sonno famoso. «Buon giorno, caro Michele» — «Altrettanto.» — «La riverisco.» — «I miei complimenti.» Oh che noja! e tiravo via. Ma ci sono anche quelli che ti fermano e, per non lasciarti andare, ti pigliano per un bottone. «Ma, caro Michele, che fai?» mi disse di botto un tale che, vedendolo, avevo sperato che avesse fretta. «Niente.» «Come, niente! In questi tempi?... è impossibile, niente! Stamani io ho già sbrigate cento faccende. Adesso corro all’udienza del tribunale; poi sono aspettato in un’adunanza di promotori d’opere idrauliche di cui presto si parlerà e molto.... Ma tu che fai? Lasciati vedere stasera.... Oh cosa dico io mai? stasera vado al circolo politico ove si devono trattare faccende importanti. Ci son molte cose su cui è urgente far sentire all’Europa la voce del nostro circolo.... Ma e tu, che fai?» «Niente.» «Niente? Ma come niente. È impossibile, niente.... Ma quando c’è la libertà....» «Non c’è forse anche la libertà di far niente?» «Oh, impossibile, impossibile! ci voglio pensar io a te. Ti darò ben io qualcosa da fare. Avrò presto una società di ortolani.... e fors’anche un collegio elettorale. Dovresti però venire al nostro circolo per farti conoscere come liberale e indipendente....» «Oh, io sono più indipendente ancora, e vado presto a vivere in campagna.» «Ti illudi, caro mio! ci penserò io; a rivederci.» Dunque sono io quello che s’illude! L’uno mi vuole con la cera rubiconda, e l’altro col domicilio forzato nel circolo, o tra gli ortolani, o dove meglio torna a lui. Caro Michele, bisogna andarsene presto! Quei tre devono avermi messo ben di cattivo umore, perchè il quarto amico in cui mi sono imbattuto poco dopo, prima di domandarmi che cosa facessi, mi domandò che cosa avessi di poco allegro per il capo in quel momento. A chiunque altro per oggi non avrei più risposto; ma quest’ultimo è un vecchio amico a cui ho sempre voluto bene. «Che cosa faccio? mi domandi. Guardo il bel profilo che i nostri monti disegnano in lontananza. Vedi come sono vaghe e sfumate quelle linee? Non ti pare che si confondano col cielo? Questi graziosi contorni del tuo paese tu gli hai scolpiti nel cuore come la fisonomia di qualcuno che tu ami. Tu le contempli quelle linee vaporose come un mistero....» «Oh, non c’è nessun mistero!» soggiunse l’amico, «perchè tutti sanno che le prime linee sono quelle dei colli marmo-arenacei, e di calcare ammonitico.... Poi vengono tutte le rocce emersorie della zona prealpina che si fecero strada tra le rocce sedimentarie. Abbiamo le rocce serpentinose, le granitiche, quelle di leptinite, quelle in filoni anfibolici e quarzosi. Poi ci sarebbero anche....» «Eh, non ti bastano! Pur troppo tu hai messo il dito sulla piaga. Contempla dunque quelle linee da lontano, e non chiedere di stendere la mano carezzevole su quelle pendici seducenti. Sono rocce aspre faticose....» «Ci sono però anche delle buone strade, buoni pascoli, cave di gesso.... e c’è vita laboriosa in quelle valli!» «Tanto meglio, o tanto peggio, come vuoi. Ma la seduzione di quelle linee così gradevoli, quando avrai dato il naso contro i tuoi graniti, non l’avrai più. Ed io sono innamorato sempre delle linee lontane, misteriose, indefinite!... Eccoti, giacchè me l’hai chiesto, quello che faccio!... Ero volato qui dopo dieci anni di esilio, ma ci ho trovati i tuoi ciottoli, e son ripartito. Viaggiai per contemplare da lontano il mio paese festante, come lo avevo contemplato un tempo vestito a lutto. Tu non sai quanto appaia bella e raggiante l’Italia risorta, veduta da paesi ove da anni non le si diceva più neanche il _Deprofundis!_ I suoi lontani contorni, per dirlo ancora con una similitudine, sono quelli d’una grande regina, che si avanza tenendo alta una nuova face della civiltà. Io mi inebbriavo d’orgoglio nel dirmi figlio della giovane e fortunata nazione. Sentivo di rappresentare anch’io qualcosa di grande!» «E simile orgoglio non potresti averlo ora rappresentando il paese in Parlamento?» soggiunse con qualche semplicità il mio naturalista. «Il Parlamento? Eccoti un’altra montagna dai grandiosi profili, ma dai filoni che non mi garbano. Sedere in Parlamento perchè un avvocato in un circolo ha provato ch’io sono un grand’uomo? Bell’orgoglio! Ma quell’avvocato mezz’ora prima ti provò anche che il suo cliente, avendo ammazzato la moglie, era il migliore dei mariti.... Insomma, caro mio, mi spiace a dirtelo, ma io non sono un geologo, e avrei continuata la mia contemplazione da lontano se la cattiva salute non mi avesse fatto ascoltare i suoi prudenti consigli. Una voce secreta mi diceva: se vuoi che le tue ceneri riposino in pace nel tuo paese....» Non le avessi mai nominate queste ceneri! L’amico le pigliò al balzo per mettere tutto in burla e per fare quelle solite esclamazioni di incredulità su cui si diedero, credo, l’intesa i miei amici per ingannarmi pietosamente. Intanto sono rientrato in casa, e ora mi sento peggio del solito. Ma già mi sono stizzito con coloro, e poi ho preso una solata che potrebbe anche avere delle brutte conseguenze. L’ho detto io che dovevo andarmene in campagna! Mi sento dell’arsione in gola, e non so se deva bere, o no. Il dottore, me lo immagino, non verrà; o se venisse anche, comincerebbe a parlare di politica, senza badare alla mia sete e agli altri cattivi sintomi di quest’oggi. Bisogna proprio che me ne vada in campagna, e subito. Da quanti anni non mi vede più la mia casetta di Borghignolo! Eh, sicuro! gli è proprio fin dal quarantasette, da quell’autunno in cui si cantava in ogni via, in ogni casolare l’inno di Pio IX. Di che mai si parlerà adesso nel mio paese? Di politica ce ne arriverà poca.... Che bella cosa! Non posso più sentire discorsi di politica, e invece se ne fa dappertutto. Il parlarmi di politica è per me tutt’uno come il parlarmi d’una simpatia del cuore. Bel gusto il sapere la tua amante sulle bocche di tutti! Chi mi ha detto che a Borghignolo è venuta a starci della gente nuova?... Se fosse vero, non ci vado; non sono in vena di veder gente che non mi piaccia. Scriverò al fattore.... eppure bisognerà andarci subito, perchè qui il mare della politica è sempre gonfio, ed io e le discussioni politiche siamo come il diavolo e Sant’Antonio. * * * 30 luglio 1865. Sono lì lì per prendere una nuova risoluzione. Forse non vado più in campagna. Quel buon figliolo di Aldo stamattina, nel contarmi le maraviglie di certi ospiti nuovi venuti a Borghignolo, mi ha quasi fatto passar la voglia di andarci. Intanto mi divertiva non poco il dottore, il quale, sapendo come io ami le conoscenze nuove, e massimamente certe conoscenze, faceva di tutto per mutar discorso, e tirare il povero uffizialetto fuori di strada. Gli disse perfino che ai bersaglieri si dovevano levare le piume dal cappello; ma tutto fu inutile. L’Alduccio continuava a andare in visibilio per i suoi nuovi amici, come ci si va a vent’anni; però dovrebbe averne ventiquattro.... Suo padre, Giandomenico, è un uomo della mia età; e Alduccio prima del quarantotto l’ho fatto saltellare sulle mie ginocchia le mille volte, quando passavo tanti mesi alla campagna.... Come se ne vanno gli anni! Stamattina mi si fa incontro un bell’uffiziale dei bersaglieri, e chi è? è lui, Alduccio. Come abbia potuto riconoscermi, col mutamento che ho fatto, non lo sa che lui. Oh l’avranno prevenuto! Questo nuovo proprietario e villeggiante nel mio paese è un tale signor Garofani. Non l’ho mai visto, ma ho sentito più volte parlare di lui dopo che sono ritornato. È un uomo _nuovo_, ma non come Cicerone però; pare anzi che il parlare non sia stato mai il suo forte. Datosi per tempo ai _generi coloniali_, gli ha trovati di gran lunga superiori all’eloquenza. In fatti i _coloniali_ non gli hanno mai fatto fare uno sproposito, e la facondia invece gliene ha fatto dire più d’uno. L’uffizialetto intanto aveva tirato me e il dottore sul _Corso_, facendomi fare e rifare il marciapiede, e parlandomi sempre di casa Garofani. Ancorchè io non sia troppo malizioso, non potei a meno in quel momento di non domandare se la moglie del signor Garofani fosse bellina. L’ufiìzialetto mi parve che si facesse un po’ rosso, ed io quasi quasi mi lasciavo andare a un giudizio temerario. Ma il dottore, che suol essere sempre pronto e preciso, saltò su a dire: «Eh! non l’hai mai veduta? È una brutta vecchia imbellettata. Di qui a un momento la incontriamo; ci è passata dinanzi poco fa, in carrozza.» Non avevamo fatto una ventina di passi, quando vidi venire una gran carrozza di color cioccolata, coi mozzi delle ruote che avevano le buccole dorate. Mi ero già fermato sui due piedi, quando il dottore esclamò: «Eccoti la tua bella signora Garofani!» La guardai bene. Era seduta diritta, stecchita, e pareva fosse lì per sdrucciolare giù da’ guanciali. Vidi un naso appuntito, non aquilino, ma di quelli che vanno in linea retta, anzi volgono un poco in su; due lucignoletti di capelli ingommati sulle tempie che giravano a spire come due chiocciolini; una boccuccia socchiusa e increspata all’ingiro, che pareva sorbisse perennemente qualcosa. Ma tutto ciò fu un baleno, perchè la carrozza passava di trotto. Vidi anche, ma in confuso, un non so che di nero, vicino alla signora, con una mano sulla gruccia d’una mazza, che poteva essere il marito; e sul davanti un non so che di bianco, che poteva essere una ragazza. A cassetta teneva le redini un uomo, con una gran barba, che pareva un mustafà; la sua livrea, come quella del servitore che gli sedeva accanto, era di quel colore cioccolata, che evidentemente deve essere il colore preferito in casa di questi signori Garofani, ma che al momento era un poco in gara, e, diciamolo, alquanto ecclissato da un cappellino, da certe piume e dal vestito della signora, ch’erano di color verde, anzi verdissimo. Il dottore aveva avuto ragione, ed io non calunnierò più il mio povero uffizialetto, il quale intanto aveva fatto alla carrozza un saluto garbatissimo, e poi aveva salutati anche noi che volevamo tornarcene a casa. Pare che il dottore sapesse di molte cose sul conto di questi signori Garofani, ma con me si tenne abbottonato. A gran fatica mi feci dire che la signora Garofani si chiama la signora Giuseppina; che la signora Giuseppina era stata la moglie del signor Baldassarre, un uomo grave e attempato più di lei. Il signor Baldassarre, venti e più anni fa, teneva bottega di droghiere, ed era rinomato per il suo _malaga_ e per la sua cravatta bianca. La signora Giuseppina faceva gl’involti con tanta grazia, e a tutti diceva la sua così bene, che rubava i cuori degli avventori. Mi disse poi che, morto quello della cravatta bianca, la signora Giuseppina aveva fatto padrone del suo cuore e di parte dell’eredità, il signor Garofani, che era stato il suo primo giovane, poi il suo scrivano, e ch’era tanto un bell’uomo. Il signor Garofani chiuse presto la bottega per intraprendere de’ traffici in grande; più tardi abbandonò anche le drogherie; fece non so quali grosse speculazioni, e adesso per mettere i suoi denari al sicuro, andò proprio a comperare nel mio paese. Ma io son l’uomo di lasciarvi comodi i signori Garofani, di rinunziare al piacere di fare la loro conoscenza, e di rimanermene dove sono. Questi signori mi hanno fatto entrar addosso un gran cattivo umore; più ci penso e più mi uggiscono. Mi è sempre piaciuto di conoscer gente, ma a patto di conoscerla da un pezzo. Allora la cosa va, nè devo domandarmi se sia proprio necessario conoscere il tale o il tal altro; domanda, alla quale non è sempre così facile rispondere. Dunque, come dicevo.... che dicevo io?... Dicevo che son l’uomo di non mettere più piede in Borghignolo... * * * 7 agosto 1865. «Spesso nei romanzi e nelle commedie c’è un medico che sa tutto, che capisce tutto e che le dice più belle di tutti. Tu vuoi essere uno di questi, e me ne dici ogni giorno di bellissime. Se scriverò un romanzo, ce le metterò tutte; ma intanto, a quattr’occhi, ti dico che le sono corbellerie.» Così dicevo stamani al mio medico, il quale intanto rideva di gusto e continuava imperterrito nella sua tesi favorita. Egli è sempre fisso nel voler fare di me un uomo solerte, un uomo d’importanza, affaccendato da mattina a sera, insomma un uomo _pubblico_, come si dice nel gergo della politica. Egli vede in questo bel trovato fin la ricetta contro i miei anni e i miei malanni. È inutile il discutere, inutile il fargli toccare con mano la realtà delle cose; inutile cercar di fargli capire come sia fatto l’animo mio. Quando credo che m’abbia capito, egli ripiglia da capo: chiama gli intrighi e il successo dei tristi la leva salutare per il risveglio dei buoni; l’apatìa dei buoni un fatto salutare anch’esso, perchè i tristi, venuti tutti a galla, possano essere schiumati via tutti in una volta; gli spropositi sono i primi passi della sapienza avvenire; la licenza, l’ignoranza, l’ingratitudine, la malevolenza sono il bel campo dove bisogna scendere per vincere ed ottenervi quegli allori che ci saranno un giorno invidiati, perchè ai posteri saranno concessi con mano più avara. Bravo dottore! Se mi fosse arrivata in quel momento quella lettera del fattore, che venne due ore dopo, gliel’avrei mostrata, chè non poteva venire più a proposito. Ma la lettera non la trovai che al ritorno dal mio solito passeggio, e il dottore non lo rivedrò che tra un paio di giorni. Ecco che cosa dice il mio fattore. Borghignolo, 6 agosto 1865. «Illustr. e colen. signor Padrone. «Consegno questa lettera a Luigi, figlio della Maddalena sua pigionante, il quale, se ne ricorderà, è quello che Lei ha tenuto a battesimo. Parte per l’America in compagnia di altri a cercar fortuna. Ma siccome Luigi sarà coscritto nella prossima leva, così si raccomanda a Lei perchè gli dia, come si suol dire, una mano. Quanto a liberarlo dalla coscrizione ci penserà il pollaiolo, che viene qui al mercato ogni giovedì e che conosce un deputato, che può tutto. Il nostro deputato pur troppo è tutto amico del Governo, e non ha mai ottenuto niente. Luigi La prega di trovargli il modo di poter partire senza passaporto. Lei farebbe proprio con ciò un’opera pia. Fanno così quasi tutti, e sarebbe peccato in questi tempi a non industriarsi. »Finisco con una notizia. »Carlone legnaiolo è morto in seguito a un colpo di apoplessia, che ha fatto molto senso a tutti. »Anche i pèschi del giardino questa volta promettono poco. »Ho ricevuto per lei la così detta scheda della ricchezza mobile. Ma ho un amico il quale conosce un impiegato nell’ufficio delle tasse, che ha un gran talento, e che gli ha insegnato il modo di non pagar quasi niente. Andrò domani al capoluogo, e non dubiti che non trascurerò questa pratica. »Con che sono di lei devotissimo servo »GIACOMO C.» Eppure il mio fattore è un galantuomo; è un uomo che ama il paese, che ha combattuto per esso nel quarantotto, e che non farebbe mai a nessun patto una cosa che non credesse onesta. Il mio servitore riseppe da Luigi che tanto lui che i compagni furono condotti in un’osteria, dove hanno un tale che si incarica di mandarli tutti ad imbarcarsi per l’America. Povero figliolo! Dio sa in quali mani è caduto! Bisogna non lasciarlo partire. Son tutti così questi semplicioni; si credono più furbi degli altri quando mancano al loro dovere, quando trasgrediscono le leggi del loro paese. L’affidarsi a gente sconosciuta, berne di grosse, non dar retta ai galantuomini, le son tutte per loro furberie delle più fini. Poi si va in prigione, in miseria, e si torna da capo, se occorre, a farsi menar per il naso da un briccone nuovo. È però anche vero che dei galantuomini che si curino di questa povera gente, e cerchino d’aprir loro gli occhi, ce n’è pochi. Questo è il guaio. E Luigi ritornerà? Al mio servitore non ne ha detto nulla, però, essendo venuto a cercarmi, è naturale che ritorni. E se non tornasse?... Potrei andar subito io a cercar di lui, ma, e poi? Forse non lo trovo o lo trovo in mezzo a chi sa qual gente, ed io non mi voglio mettere a far prediche nelle osterie. Oh ritornerà! A quattr’occhi gli potrò far entrare molto meglio quello che nessuno si dà la briga di dire a questa povera gente. Le sono noie però che impensieriscono e non lanciano tranquilli. * * * 9 agosto 1865. Ieri vedendo che Luigi non capitava, risolsi d’andar in cerca di lui. Mi feci indicare dal mio servitore l’osteria; ci andai, e seppi che Luigi era partito la sera innanzi. Non ho potuto levarmelo dal pensiero quel figliolo per tutto ieri, ed anche oggi non faccio che pensarci. Non posso levarmelo dalla mente.... perchè vorrei figurarmelo quale sarà ora, che ha i suoi venti anni, che si sarà fatto grande e grosso.... Era un così bel bambino diciott’anni fa! Pazienza, lo vedrò quando ritornerà.... E forse tornerà signore! perchè si dice che faccian bene i fatti loro questi tali che vanno a cercar lavoro e fortuna lontano, e che dopo un paio d’anni se ne tornino tutti col loro gruzzolo.... Borghignolo è un gran bel paese! Gli antichi, quando avevan bisogno d’un uomo di giudizio, proprio di quelli che ci vogliono per i casi straordinari, non lo cercavano nelle città, lo cercavano vicino a un aratro. «La gente di senno pigliava il largo fino da allora!» come dicevo stamani al mio buon medico, che ama tanto gli esempi classici. Ci può essere cosa più severa e solenne d’un bell’aratro tirato da due buoi gravi e mansueti? Sento proprio nel profondo dell’anima che, se non mi risolvo, finirò presto col morire di fiele e di malinconia. Sento che il giorno in cui, avrò volte le spalle alle metropoli illustri, ed avrò aperti i polmoni all’aria pura del mio paesello, sarò libero da tutti quei malanni che oggi fanno di me un soggetto di clinica. Se il destino non ha voluto che scendessi a suo tempo nel sepolcro, io ne avrò trovato un altro, ove riposerò, anche senza morire, egualmente obliato, libero e felice. Scorrevo per le regioni più care della mia fantasia, sognando tutta la pace e le delizie d’una vita nuova, quando il mio medico, capitatomi in camera, mi si piantò dinanzi e, senza ch’io avessi aperto bocca, prese il filo dei miei pensieri e lo seguitò, ravvolgendo tutto in un monte di celie. Come ebbe finito, io non feci che tirar innanzi, dicendo a lui quello che prima dicevo a me. «Mio caro amico, tra poco la sarà proprio così; io sarò disceso nella tomba, sarò anzi in paradiso. Il paradiso io me lo immagino formato di tanti piccoli Borghignoli, ove la gente beata sarà tutta in giacchetta, con un cappello di paglia a larghe tese in testa. A Borghignolo, e in paradiso, non ci saranno nè politicanti che si tirano per i capelli, nè seccatori, nè giornali, nè guastamestieri, nè male lingue; ci si farà quello che pare e piace; ci si faran delle chiacchiere di tanto in tanto con qualche buon uomo; si contemplerà in lungo e in largo la gran magnificenza del creato, che le tue città, caro dottore, nascondono con le scene di cartone dei loro palazzi.... Proprio anche la politica mi è venuta in uggia, e dopo non aver vissuto d’altro per tant’anni!» continuai, senza lasciar finire al dottore una interruzione. «Che se poi non mi hai capito o vuoi che ti ripeta ciò che t’ho detto le mille volte, io sono pronto. Il pensare a un lauto pranzo quando si è mezzo morti di fame, e il fare tutto quello che si può per vederselo imbandito, non ha nulla a che fare col mettersi il grembiule, stare in cucina e imbrattarsi con le pentole. Rispetto i cuochi; rispetto la loro vocazione di cui la natura è stata con me così avara. Ma che vuoi! Io sono di quelli che in cucina perdono ogni appetito. Ho tentato più volte, per vederti contento, di seguire i tuoi consigli, di vincere le mie ripugnanze, e di mettermi ai fornelli. Per più mesi non ho fatto che leggere giornali da mattina a sera, correre ai circoli, andare a braccetto con tutti i politiconi di cartello e di ripiego. Conobbi, come la chiamano, la gente _vecchia_ e la gente _nuova_: conobbi gli uomini ardenti, quelli che vogliono far cuocere a fiamma di fascina anche lo stufato; conobbi i rosticcieri, che tengono roba mezzo calda e mezzo fredda; conobbi quelli, che son loro stessi sulle braci, o perchè non sanno come pensarla per pensar bene, o perchè temono di non essere proprio gl’idoli di quanti incontrano per strada: conobbi infine quelli che a mio avviso le sanno dir giuste, ma che poi fanno del loro buon senso un canonicato semplice.» «Di capogiro in capogiro» continuai, senza badare a una nuova interruzione del dottore; «mi dovetti persuadere presto che il fumo e il caldo dei fornelli non eran cose per me. Ma tu volevi ch’io continuassi a lottare contro questa mia natura ribelle, ed io mi ci provai. Son ritornato ai circoli. Ai circoli c’è del buono e del meno buono, come dappertutto; ma siccome la gente ha poca pazienza e se ne stanca presto, così non ho potuto farne una lunga esperienza. C’è di buono che vi si annunziano sempre argomenti della più grande importanza; e di men buono che vi si discorre poi di tutt’altro. È pure un altro guaio che ci si stia troppo e che ci faccia troppo caldo; c’è una bottiglia d’acqua, è vero, ma non beve che il presidente. Un altro guaio dei circoli è la questione _pregiudiziale_. Le prime volte mi affannavo a mandare giù in fretta l’ultimo boccone del desinare; in seguito uscivo di casa un po’ più tardi, ma la questione _pregiudiziale_ l’ho trovata sempre a tutte le ore. Questa benedetta questione mi tirava fuori di strada, e mentre aspettavo la questione _vera_, così bel bello mi trovavo col pensiero sulla piazzetta di Borghignolo a discorrere delle mele del mio giardino, e delle belle viole della maestra.» Il dottore, vedendo di non potermi interrompere, rideva, e mi lasciava dire. «Capirai dunque che io ci misi sempre della buona volontà; ma se la natura mi si è fatta ribelle, e non ci posso contar sopra, che colpa n’ho io? Una volta, per dirne una, quando un contrabbandiere mi portava un giornale straniero, me lo divoravo avidamente, e ci trovavo tutti i sapori. Lo crederesti? Ora che di giornali c’è tanta abbondanza e tanta varietà, io n’ho perduto il gusto, e trovo da dire fin sul conto loro. Mi impaziento perchè vedo chi si sia fare il giornalista. Quando un ragazzo non riusciva a imparare, ai miei tempi lo mettevano in seminario. Adesso egli vi dice: — Farò il giornalista! ossia ne insegnerò a tutti. — E ha ragione; perchè, sebbene sia un vecchio adagio quello che non sempre si mangerebbe il pane se si vedesse farlo, pure il pane si mangia sempre, e il fornaio che lo fa non si va a vederlo mai. Così, quando mi vengon sotto gli occhi certi giornali che trattano con tanta confidenza l’invenzione della stampa e de’ caratteri mobili, cerco ben io di richiamare tutte le tue prediche, e tutti quei ragionamenti che una volta facevo anch’io, ma allora mi entra un accesso de’ miei soliti malanni, ed eccomi da capo col pensiero sulla strada di Borghignolo. Questi malanni sono, io credo, la conseguenza di accessi di gelosia. Sì, mio caro, ti permetto un’ultima risata, di accessi di gelosia ne’ quali mi si scuriscono gli occhi, vedendo questa antica bella dei miei pensieri, l’Italia, a braccetto, o per una ragione o per l’altra, d’ogni primo capitato che le susurra all’orecchio tante e tante baggianate!» Qui il dottore profittò d’una mia pausa per snocciolarmi tutta la solita filza dei suoi argomenti, nei quali non c’era nulla di nuovo, concludendo col dirmi ch’io cercavo la pietra filosofale, e ch’ero un alchimista, cioè, «vuoi dire» soggiunsi io «mezzo pensatore e mezzo matto.» «Alla pietra filosofale ho talmente rinunziato» continuai in tono di chi è giunto alla conclusione «che non cerco ora altro che la mia casuccia di campagna. Ma voi altri cittadini che per immaginarvi la campagna guardate a quattro alberelli cresciuti in una piazza, in conformità dei regolamenti, non potete sapere che cosa sieno i campi, le montagne, i boschi e gli orizzonti non frastagliati dalle gronde e dai fumaioli. Non credete che si possa rimanere seduti a guardar l’erba, se non c’è vicina la banda che suoni, e la bottega dei sorbetti. Non credete che si possa mangiare un pane diverso dal vostro, discorrere con gente diversa, pensare a cose che non sieno le vostre. Voi non siete fatti per capire la vita felice dei campi; ed io vi posso compiangere, od ammirare se volete, ma non potrei farvi cambiare di gusto. Mi vorresti tu dunque condannare ad essere un cittadino forzato, a diventar tisico a poco a poco, trascinando una vita amara in mezzo a cure che non sono più per me, mentre vedi così facile e vicino il porto d’ogni mia beatitudine?» Il dottore, chinando il capo, fece un gesto più rassegnato che convinto; mi strinse la mano, e si rizzò. Allora gli dissi ch’ero risoluto di partire il giorno appresso, e lì sui due piedi si fece un monte di progetti di lunghe lettere, di visite, e di passeggiate campestri in compagnia. Mi ha poi promesso di venire domattina a stringermi la mano al momento della partenza. Ora, cittadini carissimi, io vi saluto; corro in braccio all’aratro, se mi permettete una metafora; corro in paradiso, se me ne permettete un’altra: e nel ripeterle tutte e due, mi trovo a ogni minuto dinanzi allo specchio a compiacermi del mio cappello di paglia, che ha una tesa grande quanto la mia consolazione. * * * Borghignolo, 12 agosto 1865. Ma questo paese è diventato la residenza delle mosche! Bisogna tener chiuse le persiane, i vetri e le imposte se non si vuol essere mangiati. Altro che scrivere le mie prime impressioni campestri! Se il sole non è sotto, non si può nè aprire le finestre, nè mettere il muso fuori dell’uscio. E che caldo che ci fa! Il fattore dice di non ricordarsene, ma io mi ricordo benissimo che una volta a Borghignolo spirava sempre, anche d’estate, una brezzolina per tutto il giorno che non lasciava sentire il caldo. Insomma, bisognerà aver pazienza, e rassegnarsi a incominciare la vita dei campi il mese venturo. La mia povera casa poi l’ho ritrovata in tale disordine, che non mi sarà dato così subito d’avere una stanza dove mi possa sedere, dove ci sia un tavolino su cui non posi un palmo di polvere, e un calamaio in cui si possa intingere una penna. Questo, che ho dinanzi, me lo feci prestare dal fattore per mandare un paio di righe al mio buon medico, ma si vede che con questo calamaio, se non si è in molta confidenza, non se ne fa nulla. Tant’è vero che, volere o non volere, bisogna che finisca. * * * 6 settembre 1865. Per la mancanza deplorabile di non so quale organo del mio cervello, io non ho la facoltà di descrivere le cose che mi piacciono. Sono quasi da un mese alla campagna, e in tutto questo tempo avrei avuto il dovere di far parola di queste mie vaghissime colline, di questa antica casa de’ miei vecchi, e delle cento stradicciole dei miei passeggi, che ad ogni sguardo, ad ogni passo, mi ridestano tante emozioni nel cuore. Signor no; più le contemplo queste cose, per me così care, così seducenti, e più mi faccio pensoso e taciturno. Esse m’inondano l’anima di qualcosa che è dolce e malinconico, ma questo _qualcosa_ poi se lo volessi descrivere, non saprei da qual parte incominciare. Sono invece le cose uggiose, le cose che non vorrei vedere, e di cui non vorrei parlare, quelle che proprio mi sciolgono la lingua, e mi tengono lì a ciarlare od a scrivere per ore ed ore. Se questa poi sia una delle molle contraddizioni dello spirito umano, od una cosa tutta mia, e in tal caso se possa essere causa od effetto de’ miei malanni, è un quesito di fisiologia che ho fatto ieri al dottore del paese, il quale mi rispose che questa era una di quelle questioni che fanno venire il capogiro, e che egli aveva imparato fino da quand’era all’Università a farle passare con un bicchiere di vino, e anche con due quando si facevano più insistenti. Siccome poi di vino io non ne bevo, così lascio le cose come sono, e scrivo. Tra le cento ragioni che mi facevano mandar d’oggi in domani questa mia venuta alla campagna, c’era anche, lo confesso, la noia dei complimenti e delle feste che mi avrebbero fatto questi terrazzani nel rivedermi dopo tanti anni, e dopo tante disgrazie, di cui, per l’amore del paese, ebbi anch’io la mia parte. Io non son fatto per queste cose; e poi, dicevo tra me: così me le fossi meritate!; ma io ho fatto ben poco, e non ho fatto che il mio dovere. Ma andate a discutere, continuavo, con la benevolenza di vecchi amici, e con certi sentimenti di entusiasmo, di compiacenza e d’orgoglio dei propri compaesani! Son capaci costoro di voler festeggiare il vecchio esule che ritorna, con un arco di trionfo. Qualche pranzo, qualche serenata, qualche discorso poi non lo schivo. Oh che noia! ma come si fa? Alla fine m’ero rassegnato; pensai anche a quattro parole da dir loro, e partii, prendendo però tutte le precauzioni per giungere non aspettato in sulla notte. Le cose andarono bene, anzi, passati alcuni giorni, mi parve che andassero perfino un po’ troppo bene. Il mio _incognito_ durava più di quello che mi pareva possibile in un piccolo paese, ove una persona di più trabocca, e in un momento è a cognizione di tutti. È ben vero che in quei primi cinque o sei giorni non avevo messo piede fuori di casa, ma però avevo avuta una visita del curato. Eccomi scoperto, avevo subito detto; ma dopo il curato non era più comparsa anima viva. Anche il curato aveva avuto un certo fare che non mi pareva proprio quello della circostanza. Della mia venuta si era congratulalo con una certa parsimonia, e al tono un poco imbarazzato e quasi compassionevole, pareva fosse venuto a confortarmi più che a farmi festa. Pensai subito che ne sapesse sulla mia salute più di me, e che mi tenesse spacciato in breve. Insomma cominciai ad essere poco tranquillo, tanto più che anche il fattore aveva esso pure il suo fare un po’ misterioso. La necessità di vedere una terza persona si fece così prepotente, che un bel mattino volli uscire di casa a far quattro passi fin verso la piazza e il caffè. La prima sorpresa poco grata che m’ebbi, appena fui in strada, fu di vedere il muro di casa mia tutto imbrattato di parole scritte col carbone, e di cancellature a pennellate di calcina. C’era un _abbasso_, scritto molto in grande, seguito da qualche altra parola che si vedeva lavata e rilavata da non capirci più nulla. C’era però un _morte agli aristocratici di Borghignolo_, e qualche frammento di _evviva_ e di _abbasso_ sfuggito alla censura evidente del mio fattore, che mi dimostravano come il muro della mia casa fosse l’aringo di una polemica molto appassionata. Tirai avanti, e ad ogni passo la marea cresceva sempre più. Dalla prima all’ultima casa, ogni muro era agitatissimo; ci si proclamava il trionfo d’ogni più ardita questione sociale in mezzo alla sconfitta, s’intende, dell’ortografia. Sulla casa del curato c’era scritto _vogliamo la libertà del pensiero_, e su quella del Comune _abbasso il ministero e viva Buccelli_ che è il nuovo segretario del municipio. Fui interrotto qua e là nelle mie riflessioni dalle parole di saluto cordiale e commovente che mi diresse qualche buon vecchio contadino, di quelli che m’avevano conosciuto per l’addietro, e che forse mi avevano già creduto morto. Ma nel tempo stesso avevo veduto venire qualche notabile del paese che, dopo avermi guardato con la coda dell’occhio, aveva dato una svolta alla prima cantonata. Giunsi al caffè. Tra una nuvolaglia di fumo e di mosche, intravvidi alcuni giovinotti di quelli venuti su da poco, e di cui non sapevo raccapezzare le fisonomie: vi si faceva un gran chiasso; pareva che ci fosse una grossa discussione, e non si capiva poi se tutti fossero d’un parere, o se ognuno avesse il suo, perchè gridavano tutti a piena gola e nel medesimo tempo. Al mio entrare fecero tutti silenzio improvvisamente e con una certa affettazione; poi l’uno dopo l’altro passarono, parlandosi piano tra loro, in una stanzuccia vicina dove c’erano i fornelli, e non ne rimasero che quattro i quali si misero a un tavolino a giocare a briscola. Per bacco! O sogno, dicevo io, o qui c’è del mistero; o non capisco più nulla. Mi misi a sedere e domandai una tazza di caffè. Il caffettiere mi riconobbe appena, e mi trovò magro e di brutta cera; a buon conto lo chiamai di nuovo, e invece del caffè chiesi una limonata. Però, siccome pensai che avevo fatto colazione da poco, ritornai alla prima idea, e invece della limonata mi feci portare il caffè. Sul tavolino presso cui m’ero seduto, c’erano a rifascio dei giornali recenti e vecchi, e ch’erano una grande novità, perocchè a’ miei tempi in quel luogo non se n’era veduti mai. Ne presi uno su cui era scritto, con parola tolta a qualche vocabolario di medicina, giornale _umoristico_, e andavo leggicchiando qua e là, pensando a quella mia vecchia aspirazione giovanile sul buon senso applicato anche allo scrivere i giornali. Quei quattro che giocavano, facevano di tanto in tanto un po’ di conversazione, e proclamavano ad alta voce per farsi udire dal pubblico, degli aforismi che non avevano a fare per nulla con la briscola. Ma guardandomi attorno vidi che a fare da pubblico non c’ero che io, per cui misi anche questo caso tra i molti altri di cui non capivo niente. «Bel giardino di natura, pei _codini_ no, non sei!» diceva uno, e gli altri tre ridevano per un pezzo, e più di quello che non valesse la cosa. «Quante mosche!...» «Eh ne girano dei mosconi! ma una volta o l’altra può venire chi li spazzi via tutti!» «Sicuro, sicuro. Partita fatta. Che partitone che si fanno eh!» «Certamente.... ma gli è perchè quei di Borghignolo hanno gli occhi aperti.... e quel tale che li deve menare per il naso non è nato ancora, sia che lo mandi il Ministero, sia che lo mandi il Governo!...» Intanto dall’_umoristico_ ero passato a un altro giornaluccio piuttosto piccolo, novissimo per me, che si chiamava _Il Vero Italiano_. Il primo articolo era intestato a caratteri maiuscoli: _Cittadini di Borghignolo, all’erta!_ Se la mia curiosità fu irresistibile, mi pare di doverne essere scusato. Con molta attenzione lessi tutto lo scritto, il quale diceva pressappoco così: «Quasichè non bastassero i fatti liberticidi di cui ci è dato sfacciatamente spettacolo ogni giorno, il Ministero, per ribadire le nostre catene, dà mano ai più tenebrosi e gesuitici agguati. Noi le abbiamo più volte scoperte e svelate al popolo queste trame ministeriali; noi! cui fa impavidi la nostra coscienza, e la nobile missione del giornalismo! »I patriotti stieno all’erta! Stieno all’erta oggi, più di tutti, i cittadini di Borghignolo ai quali vogliam rivolgere una parola. Siamo alla vigilia delle elezioni generali; ciò è noto, ma noi soggiungiamo esser noto del pari che il Ministero fa celatamente serpeggiare in paese ad incettare suffragi uomini a lui venduti.... e lo neghi il Ministero se può! »Vuolsi che anche la nostra provincia sia percorsa da uomini della trama; vuolsi che _un tale_ assente da molti anni sia improvvisamente comparso nei nostri paesi. »Cittadini di Borghignolo all’erta! Vuolsi che costui sia uno dei più attivi agitatori ministeriali, e che con lavoro indefesso e nascosto abbia già a quest’ora ordite tra noi le prime fila della congiura ministeriale....» Benissimo! Questo si chiama colpir giusto! Capisco di chi si vuol parlare, dissi tra me, vedendomi dipinto così al vivo. Per bacco! confesso però che questa non me l’aspettavo. Adesso incomincio a capire.... o per dir meglio sono da capo a non capirne niente. Guardai la data del giornale, e vidi ch’era d’una settimana addietro, e che il _Vero Italiano_ lo si stampava nel capoluogo del mandamento. Cercai, in fondo al foglio, la soscrizione del direttore, e lessi un certo nome che non m’era nuovo. È il nome d’un antico sensaluzzo di grani.... oh, non sarà lui! Ma intanto mandando un’occhiata anche a quei quattro del tavolino, mi accorsi che andavan facendosi cenno tra loro con gli occhi e coi piedi, e se la godevano alle mie spalle, ch’era uno spasso. Pensai che i commenti era meglio li facessi a casa. «Ehi bottega!» chiamai alzandomi; pagai il caffè, e me ne andai. I quattro, appena fui fuori dell’uscio, diedero in una grande sghignazzata, ed uno mi gridò dietro a tutta voce _viva l’Italia!_ per farmi dispetto. Poco dopo ero a casa. Io non sono neanche troppo curioso, ma per bacco! questa volta aveva diritto d’esserlo un poco. Oh perdinci! di misteri ne sono stucco e ristucco; lo saprò ben io che c’è di nuovo! In fatti, lì sui due piedi, feci chiamare il fattore; lo misi al muro, cioè lo feci sedere, e gli feci dire per filo e per segno tutto quello che volevo sapere. Sulle prime le reticenze furono molte; il mio uomo cercava svignarsela, e stiracchiava il prezzo, diplomaticamente, sulla verità; ma quando si ha a fare con uno fermo e risoluto, ci vuol altro. Tutto al contrario di quello che io avevo pensato e sperato, che cioè la politica non avesse fatto neanche capolino nel mio paesello, la politica ha pigliato Borghignolo, se l’è messo sulle spalle, e poi gli ha levata la mano. »Perocchè bisogna sapere» diceva il mio fattore «che Borghignolo è irritato: e a dirla qui, non ha torto;... perocchè bisogna sapere che il Governo in tutto questo tempo con Borghignolo ha sempre fatto l’indiano, quasi per darci ad intendere che non sapesse neanche che ci fossimo a questo mondo. Ma, come dice qui la gente, adesso che siamo liberi è passato il tempo dei gonzi!... Cosa ha fatto di nuovo questo Governo? Niente. Borghignolo ha mandate al ministero fior di suppliche per diventare capoluogo di mandamento, e non gli hanno neppure risposto! Ogni giorno invece il Governo manda fuori qualcosa di nuovo, che la è una vera confusione. Queste leggi nuove poi sono tutte cose che per Borghignolo non vanno. E intanto, dice la gente, si paga troppo, non si spende niente pei paesi, e si lasciano tanti patriotti senza il più piccolo impiego.» Fatte queste premesse a giustificazione di Borghignolo, il fattore venne da sè alla partita dei disordini e dei torti. Mi disse che le cose, per volerle proprio capire, bisognava pigliarle fin da quando il conte Giandomenico essendo nella deputazione comunale, aveva mandato a spasso il Buccelli ch’era il secretario. Appena si parlò che gli austriaci se ne potessero andare, il Buccelli aveva incominciato a dire che Giandomenico era un _tedescone_: ma un bel mattino si sentì che Giandomenico aveva mandato il suo figliolo Aldo ad arrolarsi nei bersaglieri in Piemonte: era il primo volontario che partiva da Borghignolo. _Venuta l’Italia_, come dice il mio fattore, ci fu da rifare il Consiglio comunale con le leggi nuove. I _signori_, cioè Giandomenico, il dottore, il curato, il caffettiere, lo speziale, un merciaio e vari altri, erano divisi in cinque partiti: i contadini fecero anch’essi la lista dei consiglieri, e ci misero Giandomenico e quattordici di loro. Il Buccelli che lo seppe, pigliò il più furbo, quello che maneggiava la faccenda, e gli confidò all’orecchio che era stato Giandomenico quello che aveva inventata la guardia nazionale. Allora nelle liste il nome di Giandomenico fu lasciato indietro; il Consiglio comunale riuscì composto di quindici contadini; il prefetto, non sapendo chi far sindaco, tira in lungo, e dice che confida nell’_opera riparatrice del tempo_; Buccelli fu nominato segretario del comune. La Giunta municipale, in generale non si fida della carta, nè di quella stampata, nè di quella scritta, per cui delibera sempre di non far niente. La prefettura _annulla_ il far niente; ma le cose, com’è naturale, non vanno innanzi per questo. Le faccende dunque vanno un po’ male, e i _signori_, quelli dei cinque partiti, se la pigliano col Governo, e si dicono del partito _rosso_. Questa parola _rosso_ imbroglia un poco il mio fattore, ma per istinto la pronuncia con una certa smorfia di qualche serietà. Questi _rossi_ dicono cose di fuoco sul caffè: dicono che il Governo è _venduto_, e che i contadini sono _pifferi_. «Il Governo non sa che rispondere» dice il mio fattore «ma i contadini seguitano a nominarsi tra di loro per far dispetto a quelli dei _calzoni lunghi_. Il Buccelli nel partito _rosso_ è l’uomo della giornata, ed anche i contadini dicono che è uno dei pochi di cui si possa fidarsi. Infatti le cose non le piglia male. Nel Consiglio comunale ha proposto innanzi tutto che si abolisse l’illuminazione del paese. I consiglieri votarono per acclamazione, e si dissero all’orecchio che il segretario era uomo di studii, e che andava tenuto di conto. Ai _rossi_, il Buccelli poi disse che i lampioni gli aveva fatti mettere Giandomenico, e che la era una sua aristocrazia. Di scuole il Consiglio non vuol sentirne parlare, e il Buccelli tira giù proteste per opporsi, come egli dice coi _rossi_, al Governo.» E via di questo passo il fattore mi vuotò il sacco. Così _signori_ e _pifferi_, i quali si mangerebbero tra loro, sono unanimi nel tenere alto il Buccelli sul piedestallo di una grande popolarità. Poi il mio fattore mi raccontò che da un pezzo, al povero Giandomenico gli affari andavano alla peggio; cosa che del resto non mi era del tutto nuova. Le ultime annate cattive per raccolti, e più cattive per lui, grazie a quella legge che è comune ai debiti e alle valanghe, gli avevano dato l’ultimo tracollo. Il Buccelli intanto era stato veduto comperare i crediti qua e là verso quel povero galantuomo, e un bel giorno saltar fuori col pegno, con l’asta, e col portargli via quel po’ che gli era rimasto, salvo casa e orto. — «Ma con che denari» disse qui il fattore, per prevenire una mia domanda «con che denari il Buccelli aveva potuto comperare questa roba?... In paese» continuava il fattore «i _neutrali_ (perocchè ci sono anche i neutrali) cominciavano a non capirne niente. Quando tutto a un tratto si viene a sapere che il Buccelli aveva comperato per un gran signore della città, il quale non aveva voluto comparire per pagar meno. Allora l’abbiamo capita tutti, e infatti poco dopo si vide arrivare un bell’uomo, che è poi il signor Garofani, con tanto di moglie e carrozze e cavalli e servitori, il quale si mise detto e fatto a rifabbricare con lusso un casale rustico ch’era unito ai fondi del conte Giandomenico. Venuto poi che fu questo nuovo signore, la gente cominciò a parlare. Anche qui si formarono due partiti, senza contare un terzo che si tiene neutrale.» A questo punto però, avendo cominciato anch’io a capire che il mio fattore mi voleva menar fuori di strada, perchè ormai eravamo arrivati al momento del dovermi pur dire quello che riguardava me, lo fermai, e lo rimisi in careggiata. «Insomma, si dice che lei è _governativo_!» scoppiò fuori a un tratto il mio povero fattore, per dirla tutta in una volta, giacchè la doveva dire così grossa. «Però, veda, sono state le male lingue....» ripigliava il fattore; ma io lo tenni saldo, e gliene feci dire di più grosse ancora. Allora seppi che se per l’addietro non ero venuto in paese, gli era perchè m’ero messo alle costole del Governo per buscarmi un impiego e fargli fare quelle leggi che erano contrarie a Borghignolo. Ma venutoci poi e senza impiego, non ci dovevo, era chiaro, esser venuto per niente, e quindi Dio sa per che cosa. Tutti si aspettavano ch’io mi sarei dato molto d’attorno: ma nessuno avendomi veduto per essermene io rimasto così appartato, i sospetti erano cresciuti tanto più. Io sono l’amico di Giandomenico, e siccome questo povero Giandomenico ha sempre avuta l’aria un poco intronata, e chi sa come lo avranno ora sbalordito le disgrazie!, così si dice ch’ei fa lo sciocco per darla ad intendere, che è il mio emissario segreto, che è un volpone, e che fra noi due nascondiamo una covata misteriosa. «Ci mancherebbe anche questa!» dice la gente. «Coraggio» dice il Buccelli «lasciate fare a me!» «E intanto» soggiunge il fattore «anche il foglio del capoluogo deve aver messo olio sulle braci; mi contano che n’ha parlato anch’esso, e mi chiudono la bocca, perchè il foglio io non lo leggo; e poi mi dicono che ragionar meglio del foglio è impossibile. Fu allora che, non sapendo che fare di meglio, ho pensato d’inviarle quel figliolo, Luigi, che andava in America, sicuro che lei gli avrebbe fatto del bene; e allora le male lingue avrebbero taciuto: ma anche questa la mi è andata male.» Così il mio fattore, senza saperlo, aveva fatto un po’ di politica anch’esso. È uno strano privilegio di questa scienza, quello di essere professata senza le spese della laurea, e spesso anche senza quelle della grammatica! Ma lasciamo andare questa questione; la questione per me adesso è di sapere se devo rifare i bauli per la seconda volta, o no. Confesso che di trovare tanta politica in Borghignolo non me l’aspettavo davvero. E non m’aspettavo che il mio _aratro_, in ricambio di tanto affetto, m’avesse a schiacciar sotto così subito. Dovrò dunque tenermi chiuso in casa, dopo essere venuto qui per cercar ristoro all’aria libera delle colline e de’ campi? Ci vorrà pazienza! rimarrò solo, lascerò fare e dire, terrò per me i campi, la collina, la mia casa, e abbandonerò ai borghignolesi la piazza, il caffè e la politica. Così vivremo tutti in pace, ed io non farò i bauli, aspettando, come il prefetto, l’opera riparatrice del tempo. Non foss’altro, su quella paura che avevo avuto dell’arco di trionfo, ora sono tranquillo. * * * 10 settembre 1865. Se a qualcuno dei nostri nipoti, i quali avranno anch’essi le loro tribolazioni grandi e piccole, venisse il capriccio di conoscere qualche tribolazione dei loro vecchi, qualche piccola tribolazione, per esempio, del 1865, avrei voglia di far loro sapere che c’era quella della _popolarità_ e della _impopolarità_. Se a loro tempo non l’avranno, fortunati loro! Dal più al meno, per questa benedetta _popolarità_, oggi sono tutti sulle spine. Si dicono bugìe; si fanno cose incomodissime; si farebbero le capriole e i rivoltoloni per strada senza che l’essere gravi o vecchi sia un ostacolo. Anch’io, quand’ero giovane, ho fatto l’occhietto alla _popolarità_; e avendolo fatto contemporaneamente a una signora alla moda, la quale di tanto in tanto metteva anche me sul candelliere per darsi il gusto poi di voltarmi le spalle, ci ho trovata alla fine l’istessa soddisfazione. Per finirla affatto colla _popolarità_, ci volle però che mi piantasse lei. Pensando a un caso così tremendo, una volta ne avrei avuti i brividi; ma ora che ci sono, mi sento invece un gran peso giù dalle spalle. I pregi dell’essere _impopolare_ sono, pressappoco, quelli del celibato, pregi negativi; li ho già capiti e valutati, e per un uomo del mio stampo, sono pregi d’oro. Approfittando dunque della mia _impopolarità_ il giorno dopo che ne ebbi la prova, passando dinanzi al caffè proprio sul mezzodì andai a far visita al mio vecchio compagno di scuola, Giandomenico. Di questi fatti, audacissimi per Borghignolo, se ne vedranno d’ora innanzi parecchi. Povero Giandomenico! Mi ha stretto talmente il cuore, che ho dovuto maledire tra me stesso i miei anni, i miei acciacchi, e questa tomba nella quale sono irremissibilmente disceso. Sì, perchè se io fossi giovane, sano e, innanzi tutto, vivo, vorrei davvero cavarlo quel mio povero amico da quello stato così tristo in cui l’ho veduto. Eh, come si fa! È troppo tardi. Pesa su di me una fatalità, innanzi alla quale ho dovuto darmi vinto, e a quest’ora è inutile che io riprenda una lotta a cui non basto. Povero Giandomenico! Vedendomi, s’è fatto rosso in viso quasi gli rammentassi in una volta tutta la storia delle sue disgrazie. Gli parlai subito del suo bel figliolo; gliene chiesi conto di nuovo; gli parlai dei miei progetti di vita campagnola, e cercai nel passato qualche barzelletta da richiamare. Ma Giandomenico intanto aveva ripresa una certa espressione tra il malinconico e l’indifferente, che gli doveva essere ormai abituale; rispondeva poco, e con l’aria d’uno che non ascolti. Gli anni e le sofferenze non gli avevano risparmiato nulla; e di più traspariva da lui un certo decadimento morale, da cui mi sentii così dolorosamente colpito che quasi mi vennero le lacrime agli occhi. Presto la parlantina mi abbandonò, e ci furono dei lunghi intervalli di silenzio. Diedi qualche occhiata all’ingiro, e riconobbi il salotto ove eravamo; mi rammentai di averci tante volte giocato, quand’ero ragazzo, sotto gli occhi della contessa Teresa, la madre di Giandomenico, la quale mi dava sempre de’ confetti. Allora, avrei voluto essere sempre lì; ma mi fermavo spesso sulla porta, perchè quel salotto e quei signori mi davano tanta soggezione! Quanti bei mobili ci avevo veduti! All’ingiro, pendevano dalle pareti delle grandi cornici dorate, degli specchi, e dei santi. Nel mezzo, ricordavo una lumiera a cristalli bianchi e colorati, a fiorellini, a fogliuzze luccicanti che m’avevano sempre fatta una gran gola. Poi c’erano tavole, seggioloni, e tavolini tutti a fogliame e a spigoli contro i quali avevo dato tante volte delle capate, però senza piangere, perchè avevo soggezione anche dei mobili. Ora in quel salotto non c’era più che una vecchia scrivanìa piena di polvere e di carte disordinate, presso una finestra; un tavolino scassinato e qualche seggiola spaiata. L’unico mobile di pregio che rividi fu uno scrignetto a incrostature di tartaruga e di lamine d’argento cesellate. Lo aveva assai caro la contessa Teresa, e mi era rimasto impresso nella memoria perch’era di là che uscivano di solito i confetti. Ora era mezzo screpolato e annerito. Quest’ultimo avanzo di una ricchezza che non era più, rendeva ancora più tristo lo squallore di quel salotto; e più tristi faceva i miei pensieri che volevano indagare come mai solo quello scrignetto avesse potuto rimanere all’antico suo posto. Mi alzai. Giandomenico richiamandosi di nuovo a se stesso, si fece ancora un po’ rosso in viso, mi incominciò qualche parola di complimento che andò a morirgli sulle labbra, e volle accompagnarmi fino al portone della casa. Attraversai il lungo porticato tutto dipinto a stemmi e a motti in latino; intravvidi ancora certi ritratti vecchi, anneriti ch’ero solito guardare passando; ma questa volta non alzavo più gli occhi, perchè tutto in quella casa, e quello che c’era, e quello che non c’era più, mi serrava il cuore ugualmente. Nel salutarmi, Giandomenico mi guardò e mi disse: «sei pallido e malinconico, cos’hai?» «Io?» risposi: «Tutt’altro. Forse non pare a primo aspetto, ma sono in bonissima salute, e di bonissimo umore!» Non avrei mai creduto di dover dire una simile bugia. Ma il sentimento che me la dettava, me la fece quasi parere una verità. * * * 15 settembre 1865. A un vecchio cavallo che ha passati i suoi anni, prima della rimonta, al reggimento, e che ora tira tranquillo per una stradicciola di campagna la sua carretta, non si dovrebbero lasciar mai sentire gli squilli della tromba. Lo dicevo sempre al mio buon medico, e in questi giorni me l’andai ripetendo a me stesso, nel sentirmi un certo bollore nel sangue, dopo aver veduto l’affisso sulla porta del comune che annunziava per il giorno 22 del mese venturo le elezioni politiche generali. Non so perchè, ma da quel momento mi sentii una gran voglia di chiacchierare con qualcuno, e le gambe mi menarono a passare dinanzi al caffè; proprio dinanzi a quel famoso caffè nel quale la settimana prima avevo giurato di non metter più piede. Dopo averci fatto più volte il primo giorno la ronda all’ingiro, il giorno dopo finii coll’entrarci. Rividi il _Vero Italiano_; e per accostare alle labbra, ancora una volta, la tazza della _popolarità_, domandai un bicchiere di _anisetto_. Due giorni dopo, avevo già scambiata qualche parola con qualcuno, e avevo ascoltato qualche utile insegnamento sulla briscola e sull’amministrazione dei grandi Stati. Queste prime prove della mia deferenza furono bene accolte, e contribuirono a persuadere più d’uno, se non mi sbaglio, della mia innocenza. A poco a poco si cominciò a guardarmi più con curiosità che con sospetto; e scommetterei che molti sono forse già convinti che quel tale, che cospira contro Borghignolo, sia un altro. Insomma si direbbe che rinasca una certa fiducia. Oggi infatti, verso il tocco, quando i benestanti del paese dopo aver desinato vanno, col naso un po’ rosso, a prendere il caffè, passando io a caso dinanzi la bottega, parecchi, con viva istanza, mi vollero per farmi decidere una questione. La questione era se, quando si tratta di eleggere un deputato, sia meglio sceglierne uno di quei vecchi, purchè sia giovane d’anni, od uno nuovo, ma vecchio d’età. Questa importante questione era venuta a proposito d’un appello che il _Vero Italiano_ aveva fatto a quei di Borghignolo, in un articolo sulle elezioni che incominciava: «Borghignolesi, pensateci: vi guarda l’Italia, vi guarda l’Europa!» Chi gridava più di tutti era il segretario Buccelli. «Ma volete contarle a me queste cose» diceva «a me che apro tutti i giorni cinque o sei pieghi dove ci son carte che vengono e dal prefetto, e dal Ministero, e dai carabinieri?... Io la vedo da vicino la politica, miei cari, e so come vanno le faccende. Ci vogliono uomini nuovi, come dice bene il _Vero Italiano_, ma un po’ sugli anni, come dico bene io! Qui sta il punto! I deputati bisogna mutarli tutte le volte, anzi io li vorrei mutare tutti gli anni, per impedire le combriccole: questa, come politica, sarebbe la migliore: ma poi bisogna mandare al Parlamento degli uomini che non se la lascino fare. Perchè bisogna sapere che presso il Ministero ce ne sono dei birbaccioni! delle volpi!... Bisognerebbe vedere i pieghi....» «Dunque ci vogliono dei giovani!» gridava Batista. Batista è un giovanotto elegante del paese, in giacchetta di velluto, e camicia di lana rossa, colla quale vuol anche dire d’essere stato una volta lì lì per partire coi volontari: «Ci vogliono dei giovani che abbiano del fegato, che ci sbarazzino dei parrucconi, e che vadano là e che dicano.... insomma lo so ben io!...» «D’accordo» ripigliava il Buccelli «le idee devono essere tutte nuove, e ci vogliono uomini sempre nuovi; ma per tenere al dovere i parrucconi ci vogliono quelli che la sanno più lunga di loro. I regolamenti, le tabelle, i conteggi.... non sono cose da giovanotti; ci vogliono i capelli grigi, lo dica lei, signor Borsa....» Il signor Borsa è un antico impiegato che veste di nero, e porta sempre il cappello di città: è l’ultimo di quand’era ancora all’impiego, e che segue il signor Borsa nella vita privata. «Sicuro! sicuro!» rispose il signor Borsa gravemente «siamo in un cataclisma con queste novità! Non ne capisco più niente nemmen io! Bisogna cambiar tutto da capo a fondo....» «Dunque ci vogliono i giovani» gridava di nuovo Batista «ci vogliamo noi; ci vogliono quelli dell’opposizione....» «Ben detto» osservò un altro del crocchio, un certo Pasetti «se si vuole che il Governo sia sorvegliato davvero, bisogna che i deputati sieno tutti dell’opposizione; se no, ministri e deputati se la intendono tra di loro; e allora, domando io, a cosa serve che si mandino al Parlamento i deputati?» Il Pasetti è un giovanotto, impiegato anch’esso, e in servizio. «Eh! eh!» continuava, a guisa di soliloquio, il signor Borsa «gli uomini ci sarebbero stati; ne ho conosciuti io, ai miei tempi, negli ufficii governativi, degli uomini, e che omoni! Ma sono morti.» «Per fare il deputato, come l’intendo io, capite» gridava da capo Batista «non ci vogliono tante chiacchiere e tante carte, ci vuole del fegato! Io voglio un deputato che dica al Ministero: se volete la Venezia, cominciate a intimare alla Russia che sgomberi subito dalla Polonia; e allora l’Austria non sarà più niente; e se non avete il coraggio di far questo, signori ministri, andatevene al diavolo! È così che si deve parlare nelle Camere, vi pare?» «E credete che anche noi, senza essere giovanotti, non le sapremmo dire queste cose?» gli rispondeva il Buccelli. «E noi ai ministri diremo anche di fare economia, e di non rubare!» Qui ci fu un applauso generale. Buccelli conosce il pubblico. «Prima economia» esclamava Batista, per non parere da meno, «sciogliere l’esercito, e armare il popolo.» «Poi, pagar bene gl’impiegati» continuava il Pasetti «favorire i giovani, pensionare i vecchi, od anche non pensionarli per il momento, se non si può....» Qui il signor Borsa, che aspetta, credo, una pensione, intervenne subito per non lasciar prendere una cattiva piega al discorso; questa volta si alzò in piedi. «Io sì ve lo dirò, signori miei, ve lo dirò io che me ne intendo, dove sta il marcio!...» «No, ve lo dirò io!» «Lasciate dire a me....» «Eh compare, sentite....» «Il marcio sta nei preti....» «Sta nella Guardia nazionale....» «Niente affatto!» «Ma volete saperne più di me!» Tutti volevano parlare in una volta. In mezzo a questo chiasso non potei udire il discorso del signor Borsa, il quale finì esclamando: «E fino a quando non si faranno più novità, sarò sempre _rosso_ anch’io!» «Benissimo, benissimo!» gridarono in coro gli altri, cioè il caffettiere, il pizzicagnolo, un mercante, un canonico, il perito agrimensore, il vetturale ed altri uomini politici di minor conto, che di solito votano in silenzio. «Anche quella novità» osservò questa volta, in via eccezionale, il perito «di mettere a sistema metrico tutto quello che si mangia, e tutto quello che si beve, non so che libertà sia! Che sulle mie canne ci fossero i metri, lo capivo; ma che mi si voglia far bere, quando vado all’osteria, a sistema metrico, non lo capirò mai. Se, per esempio, volessi berne un boccale, che diritto ha il governo di farmene bere un litro?... È forse lui che me lo paga?» «E se ne bevete quattro _quintini_ ne bevete meno d’un boccale;» osservò il vetturale «per cui ci perdete sempre.» «Sicuro. Insomma si vede proprio» conchiuse il pizzicagnolo «che non abbiamo mai saputo mandare un buon deputato.» Anche qui la discussione si fece generale, e non si parlava più che ad una voce. «Questa volta bisogna pescarne fuori uno coi fiocchi.» «Io do il mio voto a voi, compare.» «Coi fiocchi? Quando son là son tutti eguali.» «E quella baggianata del telegrafo?...» «Quando sono là, sono tutti venduti,» dice il _Vero Italiano_. «C’è di quelli che hanno intascate le dozzine di milioni.» «E di quelli, si conta, che han comperato dei poderi!... e non si sa dove!» «Telegrafi di qua, telegrafi di là,... e li paghiamo noi!» «Non so dei deputati; ma so che i ministri, e me lo ha detto uno che viaggia, comperano tutti in America.» «Fin cinque lire l’uno, li hanno pagati quei pali del telegrafo! Capite cos’è il Ministero? Che se lo dicevano a me, con tre lire....» «Ma l’ho sempre detto io che ci vogliono de’ deputati galantuomini!» «Deputati nuovi; deputati che non se la lascino fare; deputati che abbiano una politica furba, e che sieno nemici dei Ministeri!» «E dicono che quel meccanismo di vetro, e che so io, che sta fitto in cima di ogni palo, costi un occhio. Capite come vanno le cose!» «Ci vuole la libertà dei popoli! Ci vuole una libertà tutta diversa, se no, non ne faremo niente!» «E ci vogliono poche strade ferrate che fanno rincarare le ova...» «Bravo, bravo!» «Insomma ci vuole il suffragio universale» conchiuse il Pasetti. Il chiasso e la confusione erano tali, che io potei piano piano ripigliare la mia strada, senza che gl’interlocutori se ne avvedessero, e senza decidere la famosa questione per la quale m’avevano voluto. Il Buccelli però che mi vide partire, e che ormai aveva perduta la speranza di farsi ascoltare, diede un’ultima crollata di capo, uscì dal caffè, e raggiuntomi mi accompagnò fino a casa ripigliando la sua tesi, per quel bisogno prepotente che ognuno ha di trovar qualcuno che gli dia ragione, almeno a quattro occhi. «Sono buoni figlioli» diceva il Buccelli «che la pensano bene, ma in politica certe furberie non le capiscono alla prima. Che ci vogliano deputati nuovi, ma che sieno un po’ in là con gli anni, è l’abbiccì della politica un po’ fine! È vero, o no? Lo dica lei, don Michele, lei che la politica la sa da un pezzo, e che ha girato il mondo....» «Caro Buccelli» rispos’io «giacchè mi dite così, vi farò una confidenza. In altri tempi, quand’ero giovane, mi son trovato, è vero, un po’ nella politica anch’io. La polizia, come sapete, mi voleva mettere in gabbia, ed io che avevo trovato a tempo un buco nella rete, mutai di bosco, e mi tenni alla larga dagli uccellari. Ma questa, come vedete, era una politica molto facile a capire, politica semplice, spiccia, e non c’era da farci su questioni. Adesso invece la politica è diventata molto più fine, come dite voi benissimo, e capirete che non è alla mia età che si imparino le cose nuove. Chi sa? fors’anche ci riuscirei, ma non mi ci metto. Sono ignorante, in questa parte, ignorante come non lo è nessuno, perchè di politica oggi ne sanno un po’ tutti. Anzi vi faccio questa confessione in confidenza, perchè poi non vorrei che la gente ridesse un pochino di me.» Intanto eravamo giunti alla porta di casa mia. Il Buccelli avrebbe voluto riprendere il filo delle idee che evidentemente io gli avevo fatto smarrire. Ma dopo una confessione così completa, a me parve d’aver finito, e lo salutai ringraziandolo della compagnia. * * * 24 settembre 1865. Da tre giorni non è più possibile tener dietro a tutti gli avvenimenti che si succedono in Borghignolo. Il fatto principale, e di cui gli altri non sono che conseguenze e necessità storiche, è la venuta del signor Garofani, di sua moglie e d’una loro figlia. Addio passeggiate, addio colline, e i vostri bei sorrisi d’autunno; io mi sono chiuso in casa, passeggiando per le mie stanze dove spero almeno di non incontrarmi con questi nuovi venuti. So appena chi sieno, non li ho veduti che una volta alla sfuggita, eppure non mi vanno. Potevano lasciarmi nella mia quiete da cui incominciavo a sentire qualche primo beneficio.... ma signor no! Oggi infatti sto già malissimo, e se non temessi di peggio, ritornerei in città. Il prossimo e la libertà individuale formano uno di quei problemi che la teoria potrà sciogliere, ma la pratica mai. Questi signori Garofani stanno poco lontano da me. Oltre a molte terre, che erano del mio povero amico Giandomenico, fu comperata da loro una sua vecchia casa rustica che sta nel paese, e di cui fecero una villa chiamandola l’_Isola di Cipro_. Quest’isola, affidata nelle mani di un pittore di scene, fatto venire appositamente, rappresenta appunto uno di quei castelli di tela con cui spesso incomincia un ballo mimico. Non ci manca nulla; merli che diroccano, stemmi a cinque garofani, un gufo di cattivo umore, e perfino un guerriero vestito in ferro, con cimiero e piume, che guarda fuori da una finestra finta, come a dire che il padrone di casa è sulle mosse per la crociata. Ora si sta facendo un giardino, nel quale, mi conta il mio fattore, ci devono essere cose straordinarie. Intanto nessuno può entrarvi, e a chi ci lavora è proibito severamente l’aprir bocca. Sento anche che girano per il paese due servitori di casa Garofani, in giubba di color cioccolata e calzoni corti, con cordoni e mostre d’argento; uno ha una gran barba. La gente, a cui paiono e non paiono due carabinieri, a buon conto fa loro le scappellate. Alla sera il cuoco di casa Garofani va al caffè dove gioca a tressette. Gli pagano volentieri de’ bicchierini, ma lo fanno cantare sulle provviste e sui piatti che si mangiano da’ suoi padroni. Non è la prima volta che il signor Garofani viene in paese, ma non si è ancor finito di parlarne. Ogni volta si discorre di nuovi milioni, dice il mio fattore, e di nuove maraviglie; c’è chi ammira, c’e chi critica, e ciascuno dice la sua. Il più affaccendato di tutti è il Buccelli, il quale è in casa Garofani da mattina a sera, e va e viene senza aver tempo di rispondere o di salutare chicchessia. Anche le altre persone più cospicue hanno già fatta la loro visita, e presentati i loro omaggi. Primi furono il curato e il signor Borsa, i quali attraversarono il paese assieme, in abito delle feste; il signor Borsa portava un paio di guanti neri, che serba per le grandi occasioni, e nei quali ci potevano stare contemporaneamente anche le mani del compagno. Si è osservato in paese che Giandomenico non è ancora andato in casa Garofani, e che non ci sono andato nemmen io. Da ciò si conchiude che decisamente io sono del partito di Giandomenico, e che è difficile prevedere come l’andrà a finire. Quei di Borghignolo, poco avvezzi a tante novità in una volta, ne provano qualche apprensione. E in qualche apprensione mi trovo anch’io, non potendo prevedere quando mi sarà dato uscire di casa. * * * 15 ottobre 1865. Col mio _aratro_ la va di male in peggio. Ho gran paura che a compire la storia delle mie illusioni e dei miei disinganni, non ci debba concorrere anche un pieno disinganno a proposito di Borghignolo. Ma chi se le poteva sognare certe cose? Il silenzio e la quiete di Borghignolo, a mio ricordo, non erano interrotti mai in tutta la giornata che dal rumore di un carro che passasse sulla strada maestra, o dallo stridìo delle cicale nelle ore calde. Io che avevo fatto i miei conti su questi pregi di Borghignolo, incomincio a trovarmi un po’ defraudato. Altro che le cicale! Anche qui ci sono partiti e polemiche; anche qui c’è un _orizzonte politico_ rannuvolato, il quale di tanto in tanto manda un acquazzone di quelli che vanno a raggiungere fino i pulcini rincantucciati nel pollaio. Quelli di Borghignolo, a dirla, sono nel loro diritto; io però, se essi continuano a volere levar la mano alle cicale, me ne andrò, e senza metter tempo in mezzo, come soglio far io quando prendo una risoluzione. Nei giorni passati ero tanto sulle mosse che non presi nemmeno la penna per continuare queste pagine che pur sono l’unico mio sollievo. La riprendo oggi per non rompere il filo della cronaca di Borghignolo; ma se presto non ritorna la bonaccia, mi metto la barca sulle spalle, e vado in traccia della terra ferma, se pure ce n’è una. Eccola dunque, tutta d’un fiato, la storia di queste ultime tre settimane. — La mano di Borghignolo è chiesta contemporaneamente da tre nuovi candidati politici, desiderosi di impalmarla e condurla in quel giardino della vita coniugale che è tutto fiorito di rose, come ognuno sa. Dell’antico deputato, che pure era un brav’uomo, nessuno parla più, perchè sono unanimi nella massima che ce ne voglia uno nuovo. I tre candidati nuovi sono: un medico del capoluogo della provincia, il direttore del _Vero Italiano_ e il signor Garofani. Il medico è un antico carbonaro, stato due volte in prigione, stato in esilio parecchi anni; ebbe il suo magro patrimonio sotto sequestro, e lo perdè in gran parte. Egli però non va troppo a garbo a tutti quelli che furono sempre solidali e indivisibili nel far niente. I più lo combattono, e dicono di lui cose di fuoco. Dicono, tra l’altre, che sia imbecillito, che abbia perduta l’antica energia del protestare, e che adesso non sappia predicare di meglio che l’abnegazione, la pazienza e la laboriosità. A Borghignolo, dove la si pensa ben più altamente, non c’è nessuno che si occupi di lui, meno forse quell’altro originale d’un Giandomenico. Il direttore del _Vero Italiano_, che è proprio l’antico sensale, e che non so come mai sia diventato giornalista, possiede il cuore della bella a cui aspira. Per quante, e per quanto diverse siano le cose che i suoi lettori possano pensare in capo a un giorno, egli le sa indovinare e stampar tutte. Quelli che leggono in un foglio stampato, che viene dal capoluogo, proprio tutto ciò ch’essi avevano pensato, dicono subito che è un grand’uomo chi sa scrivere a quel modo. Non è però a dire che dopo tanto corteo di fedeli non vengano anche dei miscredenti. C’è chi a quattr’occhi crolla il capo; c’è chi ricorda qualche storiella che gli altri hanno dimenticato; c’è chi ne susurra di grosse all’orecchio d’un amico. Ma anche questi in pubblico se ne stanno zitti, come passeri che scambiano lo spauracchio col guardia; e lo inchinano anche loro, e fanno appuntino tutto quello ch’egli prescrive. Egli insomma è il padrone della provincia, tanto è il prestigio della carta stampata nei paesi dove essa è cosa nuova. Il terzo aspirante è il signor Garofani, uomo nuovo ma provetto, come disse per tempo il Buccelli, prevedendo il giorno in cui si avrebbe a salvar la capra e i cavoli. Lieto d’essere fuori di combattimento, e di non appartenere più a questo mondo, me ne stavo una mattina nell’orto, osservando una certa mia vite a spalliera. Omero, che trovò questa pianta tuttora salvatica in Sicilia, come dice il mio manuale, se vedesse la mia bella vite a tralci orizzontali, all’uso di Thomery, mi direbbe certamente: «bravo Michelino!» Dicevo questo tra me, quando il mio fattore, correndo e infilando a un tempo le maniche della carniera, venne a dirmi in gran fretta e confusione che nel mio salottino c’era la signora Garofani, che domandava di me. Risposi subito che non c’ero; ch’ero lontanissimo; che era impossibile sapere dove mi fossi fitto, e quando sarei ricomparso. Ma fu inutile, perchè il fattore, nell’abbottonarsi la carniera, mi confessò che essendo stato sorpreso in maniche di camicia, aveva cercato di rimediarci col dire ch’ero in casa, e che venivo subito. Erano le dieci di mattina. La signora Giuseppina Garofani aveva un gran vestito di seta color verde, un vezzo di diamanti al collo, e un cappellino verde anche esso, con piume bianche. Capii la confusione del mio fattore. Passata quella prima stizza, seppi sostenere nel dialogo la mia parte con bastante disinvoltura e cortesia, rimanendo però, a un pezzo, inferiore alla melliflua signora Giuseppina, la quale dopo mezz’ora di conversazione mi chiamava già il _suo caro don Michelino_; dopo tre quarti d’ora m’interrompeva con un _gioia mia!_ e dopo un’ora, poichè rimase lì più d’un’ora, esclamava di tanto in tanto: «_ma lei parla come un amore!_» Cosa voleva la signora Giuseppina? La signora Giuseppina incominciò col dirmi che, passando dinanzi alla mia casa, aveva domandato di chi fossero quei bei gerani che si vedevano nella corte; le avevano risposto ch’erano del padrone, ossia ch’erano miei. «Come! del signor don Michele? Di quel signore così garbato, di cui si dicono tante belle cose, e che io e Garofani desideriamo tanto di poter conoscere!» Allora era entrata, e il mio fattore aveva voluto a ogni costo chiamarmi, e darmi questo disturbo. Dai gerani passò alla sua nuova villa, da questa alle ricchezze di suo marito, e dal marito all’elezione del deputato. «Garofani non lo sa, ma tutti lo vogliono lui. Eh, si vede che sono molto fini quei di Borghignolo! Per l’impiego di deputato, Garofani lo si direbbe fatto a posta!; io che sono sua moglie lo devo sapere. Se vedesse Garofani quando prende la gazzetta! È un politico dei primi!; la legge fino all’ultima parola, a costo di addormentarcisi sopra. E poi mio marito è tanto parlatore! Tutti dicono di volere un deputato che parli molto; ebbene mio marito, a lei lo posso dire, parla più di tutti! Se sapesse quanto parla!...» Insomma la signora Giuseppina, credendo ch’io potessi procacciare a suo marito una bella gerla di voti, voleva che per il bene della patria ci accordassimo, io e lei, per assicurargli il trionfo. Alla signora Giuseppina confidai dal lato mio i miei malanni, il mio mal di fegato, e la mia ignoranza in fatto di gazzette. Mi feci spiegare qualcuno di questi imbrogli della politica, e la pregai di lasciarmi da un canto, per la paura che mi fanno le cose che non capisco. La signora Giuseppina, che non aveva preveduto il caso, rimase questa volta un poco sconcertata. Pochi giorni dopo però trovò modo di ritornare all’assalto, intarsiando il discorso d’argomenti che non erano de’ suoi, e che si vedevano suggeriti dal Buccelli; ma si trovò da capo nelle secche. Quando poi si persuase che non c’era modo di farmi spiegare la bandiera de’ Garofani, volle almeno assicurarsi della mia neutralità, e riuscì a tirarmi in casa sua. È un vampiro con la cuffia, questa signora Giuseppina! e se non me ne divertissi alquanto, avrei già pensato sul serio a mettermi in salvo. Conobbi il marito, il quale dal punto di vista di alcuni _generi coloniali_, è in disaccordo con la politica italiana; conobbi la figlia che si chiama Adelina, e che, sotto ogni punto di vista, è una bellissima ragazza. Gli assalti a cui ho dovuto far testa per non lasciarmi cavare dall’ospizio degli invalidi, e ricacciare nelle file dei combattenti, non vennero solo dalla signora Giuseppina. Ebbi un assalto da Giandomenico; ne ebbi un altro da un circolo elettorale del capoluogo della provincia, e non so dir quanti da vecchi amici e conoscenti dei paesi circonvicini. A chi risposi adducendo un pretesto, e a chi confidando le mie buone ragioni. «Io non diffido» dissi agli amici «delle sorti del mio paese. L’importante è fatto. Ci sono poi dei mali inevitabili, ed è a furia di compitare, e di spropositi che il paese imparerà a leggere corrente nel libro delle sue libertà. La casa nuova è bella quando la vedi sui disegni, o quando la abiti finita; mentre la fabbrichi non hai che malta e calcinacci da tutte le parti. Io fui tra quelli che la disegnavano; non sarò tra quelli che l’abiteranno, e posso quindi risparmiarmi i tegoli sul capo, e gli schizzi della calcina.» Quelle domande e quelle risposte però mi avevano già messo sossopra; mi avevano agitato non so perchè; mi avevano risvegliati i sintomi dei miei più grossi malanni, e se non mi fossi rifuggito subito nella dimenticanza d’ogni cosa di questo mondo, non so quello che sarebbe già avvenuto di me a quest’ora. Ma ritorniamo agli avvenimenti di Borghignolo. La visita fatta a me dalla signora Giuseppina fu l’assalto, tentato e non riuscito, contro una vecchia bicocca che potè essere lasciata da parte, senza pregiudizio delle grandi operazioni strategiche, le quali incominciarono subito dopo, con un pranzo ogni giorno in casa Garofani. Ad eccezione di me, che non ci andai, e di Giandomenico che non fu invitato, vi pranzò in pochi giorni, auspice il Buccelli, mezzo il paese. Ci furono pranzi aristocratici col curato e il signor Borsa, e pranzi democratici con l’agrimensore e il caffettiere. Poi il Buccelli radunò un circolo politico, dal quale fece proclamare la teoria _dell’uomo nuovo, ma provetto_, all’appoggio di una esperienza di cui ognuno aveva potuto, pranzando, assaporare i pregi. Si fecero grandi elogi anche al direttore del _Vero Italiano_; si deplorò che fosse un po’ meno provetto del signor Garofani, e si augurò all’Italia che in altro modo lo avesse tra i suoi rappresentanti: si mandò un saluto fraterno all’America, e si nominò un Comitato promotore della candidatura del signor Garofani. Il Comitato promotore, e il Buccelli che ne è il presidente, pensarono per prima cosa a procacciarsi degli alleati. Il Buccelli che, come dice la signora Giuseppina, è un politico, quasi quasi come il Garofani, mise gli occhi sopra un paese vicino ove gli parve che il terreno fosse vergine, e l’elettore docile. Sommando in prevenzione i voti di questi elettori con quelli di Borghignolo, vide che l’aritmetica era tutta a favore del suo candidato; fece il suo piano strategico, ed entrò subito in campagna. La gran giornata campale, decisiva, l’abbiamo avuta poi domenica passata. Quella domenica era la terza del mese, e in Borghignolo la terza domenica d’ogni mese si fa una processione per tutte le vie con la confraternita e con la banda. L’occasione non poteva essere migliore; furono invitati per quel giorno in Borghignolo gli elettori con cui si voleva fraternizzare, e con essi furono invitati anche un paio di sindaci, un paio di curati, e qualche canonico. La festa poi doveva chiudersi con un gran convito in casa Garofani, e con lo sparo dei mortaletti in piazza. Il Buccelli previde ogni cosa, fino i brindisi, e gli evviva in fin di tavola. La signora Giuseppina, che mi onora della sua confidenza, mi disse il giorno prima che il Buccelli e suo marito avevano pensato un bellissimo discorso. Il Buccelli sapeva, perchè egli stesso glielo aveva suggerito, che uno dei sindaci invitati, nel fare il suo _evviva_ al futuro deputato, gli avrebbe chiesto nientemeno che una strada ferrata che toccasse il suo paese. Il signor Garofani allora gli avrebbe risposto in un modo da lasciare tutti gli astanti con la bocca aperta per un pezzo. Venuta la domenica, e venuti gli invitati, alla mattina dopo la messa cantata ci fu dunque la processione che, a detta di tutti, riuscì più bella del consueto. Il clero era più numeroso per l’intervento dei curati e dei canonici invitati al pranzo di casa Garofani; la banda, che di solito gode delle maggiori franchigie nell’abbigliamento, sfoggiava questa volta un berretto d’uniforme; parecchi confratelli poi avevano fatta lavare la veste. In veste bianca, cappa rossa e posto distinto veniva il Buccelli, il quale è anche priore della confraternita. L’antico priore era lo speziale, ma dopo la battaglia di Magenta il Buccelli cominciò a dire che non era più l’uomo dei tempi, e gli rubò il posto. Quando le processioni, o la confraternita, passano dinanzi al caffè, ove piantati sulla porta ci stanno sempre due o tre liberi pensatori con le mani nel taschino de’ calzoni, il nuovo priore, facendo loro d’occhio con malizia, riceve in ricambio un saluto d’intelligenza e una smorfia sotto i baffi, da cui si vede che tra la confraternita e i radicali di Borghignolo, non c’è ruggine di sorta. Anche quei della banda, che precedono il baldacchino, dinanzi al caffè intonano l’inno di Garibaldi, per far intendere che non sono meno liberi pensatori di quello che siano liberi sonatori. Incominciata la processione, incominciò anche lo scampanìo che seguitò per più d’un’ora. Io, che al sonare delle campane divento come uno di quei poveri cani che mandano dei mesti ululati e scappano per le campagne, senza ululati ma mestissimo pigliai una delle mie stradicciole favorite e di là mi dilungai, come fanno i miei pensieri, fuori di mano e senza mèta. Per il pranzo, anche questa volta mi ero scusato, e potei lasciare tutte le altre allegrie senza che alcuno ci badasse, perchè ormai è noto il mio divorzio da questo mondo per incompatibilità di carattere. Ma appena fui di ritorno, mi trovai dinanzi la signora Giuseppina che veniva a prendermi in tutta furia perchè almeno accettassi una tazza di caffè, e fossi presente agli evviva che incominciano, secondo l’uso di Borghignolo, quando i commensali, levatisi di tavola, si frammischiano, gridano, si abbracciano girando per la sala col bicchiere in mano. Condotto dalle chiacchiere della signora Giuseppina, dopo pochi minuti ero anch’io tra i convitati in baldoria di casa Garofani, e giungevo proprio in sul punto in cui si faceva un profondo silenzio per udire quel tal sindaco che doveva parlare della strada ferrata. Questo sindaco che aveva l’aria d’aver bevuto un po’ troppo, e di non saper più dove ripescare il suo discorso, dopo un po’ di meditazione fece un gesto di impazienza, e si accontentò di gridare: «Viva dunque il signor Garofani e la sua signora _metà_! Viva tutta la compagnia! E viva l’allegria!» — «Bravo Carlotto! benissimo!» si gridò da tutte le parti. «Viva il signor Garofani! viva il nostro deputato! viva Carlotto! viva l’allegria!» E per qualche minuto ci fu un chiasso indiavolato. Il Buccelli era diventato livido, ma il signor Garofani imperturbato fece cenno di voler rispondere, ed ottenuto un silenzio ancor più profondo del primo, rispose così: «Io ringrazio l’egregio signor sindaco della fiducia, che a nome degli elettori della sua cospicua borgata, così eloquentemente ha voluto significarmi. Gli interessi di questi paesi mi sono sacri quasi come i miei... No! o Signori, quelle obbiezioni di cui ha parlato il signor sindaco, che dagli avversarii si fanno alla nostra appetita ferrovia, reggere non potranno; ed io per sempre le saprò disperdere tanto nel Parlamento che alla Borsa.... Sì! o Signori, le strade ferrate sono il gran portento del secolo! I titoli della nostra linea si manterranno in richiesta e buona vista. Il commercio e l’industria formano la prosperità dei popoli! Viva dunque la strada ferrata! viva il signor sindaco e la libertà!» L’entusiasmo fu indescrivibile. Il Buccelli si ricompose e riacquistò il colorito naturale, che in quel momento era quello d’uno che ha ben pranzato. Tutti volevano abbracciare il signor Garofani, e dichiaravano che parole simili a quelle dette da lui non le avevano mai sentite. Parecchi erano talmente inteneriti, che stavano per piangere, e la signora Giuseppina ne accresceva il numero, correndo per la sala con due bottiglie in mano, a ricolmare i bicchieri di tutti. Anche i servitori della casa, quantunque vestissero la gran livrea di color cioccolata con le mostre verdi, dimenticate le etichette, bevevano allegramente colla compagnia. Io mi ero rifuggito in un angolo dove si faceva meno baccano, e dove mi trovai con un canonico che, seduto, assaporava tranquillamente il suo vino, levando di tanto in tanto qualcosa di tasca, ove aveva un magazzino di dolci, castagne e fruite secche. Ma la signora Giuseppina che non mi aveva perso d’occhio, fu presto da me con un bicchierino, e una piccola bottiglia. «A questo poi, signor don Michelino, non si dice di no. È un _malaga_ di quello che faceva il povero Baldassare, il mio primo uomo. È una delle ultime bottiglie che conservo in sua memoria, perchè me le aveva regalate il giorno in cui mi ha sposata.» «Eh, allora è proprio vecchione!» disse in buona fede il canonico; ed io, per salvarlo, dovetti accettare il _malaga_ e sviare il discorso, esclamando: «Alla sua salute, signora Giuseppina!» «Troppo onore, e tante grazie!... E che ne dice del discorso di Garofani? Che sentimento eh!» prese subito a dire anche la signora Giuseppina per isviar me. «E quelle parole sulla strada ferrata!» riprese il canonico. «Che parole! che risposta!.... In questo cantuccio non ho ben capito cosa gli avesse domandato il sindaco a proposito delle strade ferrate....» La signora Giuseppina allora non ebbe più altro rimedio che quello di pigliarmi per un braccio, e di condurmi a forza in cerca del marito, dicendomi ch’egli era in giro per le sale da un pezzo a cercar di me, e tante altre belle cose. Così, in grazia del canonico, dovetti avere un dialogo anche col signor Garofani, e fermarmi mezz’ora di più. Appena però il signor Garofani incominciò nel suo crocchio a spiegare la politica, col pretesto di deporre il bicchierino del _malaga_, io mi tirai in disparte, e approfittando del primo uscio, me ne andai. Se ne dolse con me il giorno dopo la signora Giuseppina, ma io l’acquietai subito, dicendole che quella maniera di andarsene si chiamava andarsene alla francese, e che era una cosa di gran moda. * * * 20 ottobre 1865. Quando l’orologio è vecchio e logoro, è inutile, caro Michele, buttar via quattrini e cambiare d’orologiaro. Se l’aria di Borghignolo non mi pare più quella d’una volta, è inutile che me la pigli con quelli che devastano i boschi, e lasciano dilagare le acque. È con me che me la devo prendere, è col mio fegato, e sa il cielo con quali altri visceri malati e disfatti!; è col destino che non mi lascia mai mancare delle agitazioni nell’animo. Però anche i medici, per non far torto a nessuno, di me non hanno mai capito niente. L’inverno ritorna; la buona stagione sulla quale il mio buon medico aveva fatto tanti calcoli, è passata e pigliò posto anch’essa nello scaffale dei miei disinganni. Il sole ci mandò oggi un saluto, con qualche suo raggio tiepido, come un conoscente lontano che appena si ricordi di noi. Andai a rendergli il saluto anch’io, pensando: «pallido come sei, chi sa se ritorni!;» e pigliai per una delle stradicciole della collina, fredda e malinconica anch’essa, col suo bel verde ingiallito, le sue belle foglie cadute e ammucchiate, e senza il canto dei suoi uccelletti che sparirono come i convitati d’una casa venuta in basso. Pieno di tristi pensieri, m’ero fermato a contemplare dall’alto la vecchia casa del mio amico Giandomenico, chiamata ancora il castellotto, situata nella parte più elevata del paese ove principia la falda del colle. Da un lato, il muraglione della facciata ha l’aspetto tuttora di un pezzo di torre; ci si vede una sola finestrella a sesto acuto: ruvido e severo, pare che dica ancora a chi passa: «cavati il cappello, e tira diritto.» Poi si vede che s’era cominciato, in altri tempi, a foggiarlo sullo stampo fastoso di un padrone con la parrucca incipriata, e la giubba di velluto. Ci furono aperte cinque grandi finestre con frontoni, cornicioni, ornamenti a spezzature, a curve, che paiono occupati a farsi tra di loro degli inchini in un minuetto. Quei finestroni volevano dire: «qui c’è corte bandita per tutti; pei nobili quassù, e pei villani sull’erba del brolo.» Ma i finestroni non furono continuati; rimasero soli, e dopo questi il muraglione continua uniforme, e pare più severo e più malinconico. Qua e là vi fu aperta qualche finestra meschina, misurata sulla persiana che c’era da metterci, per dar luce a un ripostiglio o ad una cameretta da pigionante. Tutto è cadente, scassinato, deserto; l’inverno è disceso da un pezzo sull’antico palazzotto, senza vicenda di stagioni più liete. Povero Giandomenico! L’ultimo della tua famiglia non è il tuo figliolo che, alta la fronte e la spada in mano, può cadere su un campo di battaglia nell’ebbrezza della gloria. L’ultimo sei tu che, vecchio e rifinito, assisti mestamente ogni giorno al crollare inesorabile di queste ultime rovine della tua famiglia, della tua casa!..... . . . . . . . «Una bigattiera! una magnifica bigattiera!» m’interruppe una voce, mentre una mano si posava sulle mie spalle. Era il signor Garofani, che s’era fermato presso di me, precedendo di pochi passi sua moglie e sua figlia che salivano anch’esse quella costa. «Scommetto che anche lei, don Michele, stava pensando che cosa si potrebbe cavare da quel casone abbandonato, piuttosto che lasciarlo ai topi ed alle rondini. Io l’ho visitato. Sicuro!... Ci ho pensato, e non saprei vederci che una bella bigattiera. Le pare? La facciamo?» «Una bigattiera?... Eh sicuro! ma io non c’ero arrivato» risposi. «E il conte Giandomenico dunque, gliela vuol vendere la sua casa?» «Non so, se lo voglia; ma siccome io, per buon cuore, ho fatto tempo fa uno sproposito, e mi sono tirato addosso certi crediti spallati verso quel signore, con ipoteca sulla casa, così lei capirà che posso pigliarmela quando lo voglio io.» «Niente affatto!» esclamò la signora Giuseppina, che giungeva in quel punto, tutta trafelata, e con quei cernecchi sulle tempie ambedue sgommati. «Prima di tutto, noi di quella casa non sappiamo che farne! Poi, se fosse nostra, si dovrebbe fare la bigattiera nella casa ove adesso stiamo noi, e quest’altra diventerebbe il castello Garofani!.... Ma questo si dice tanto per dire, perchè la casa non è nostra, e noi non ci pensiamo nemmeno!» «E poi» soggiunse timidamente Adelina «dove andrebbe quel signore che ci sta, e che dicono tanto disgraziato?...» «Le donne» ripigliò il Garofani «di queste cose non ne capiscono niente. Se io ci voglio mettere a preferenza la bigattiera è perchè....» «È perchè, è perchè....» interruppe la signora «queste sono tutte chiacchiere inutili! Tu, Garofani, va pure per la tua strada con Adelina; io rimango con don Michele: noi pigliamo quest’altro sentiero, perchè abbiamo i nostri segreti.... nevvero, don Michele?» E così dicendo mi forzò a darle il braccio, e a mettermi in viaggio con lei per altra via. «Dunque bisogna sapere che ci sono buone notizie» riprese la signora Giuseppina un po’ sotto voce, e tenendomi il braccio stretto col suo in segno di confidenza e di qualche tenerezza. «Sicuro; l’elezione di mio marito andrà a vele gonfie! Ho già fatto venire cento palloncini per l’illuminazione del giardino. Ci vogliam noi donne per pensare a tutto! Queste cose non le dico per vantarmi, perchè anzi gli onori io non gli ho cercati mai; gli ho sempre lasciati venire spontaneamente, fin da quando m’ha sposata il mio primo marito, che aveva una così bella.... un così bel commercio. Capisco che in allora potevo ben dire le mie ragioni, perchè non per niente mi chiamavano tutti _la bella signora Peppina_. Ma tornando a quello che dicevamo poco fa, questa nomina la desidero proprio per lui, per mio marito. Perchè quando si pensa che un tale, che so io, al quale, quando eravamo nel commercio, non avrei data una libbra di fichi secchi a credenza, adesso l’hanno fatto cavaliere!... E bisogna vedere sua moglie, la signora _cavaliera_, come la ci guarda d’alto in basso! Noi! Noi che, non tocca a me a dirlo, ma.... Ma invece il signor Governo ha avuto il coraggio, una volta che una persona era andata a dirgli che mio marito, per pura giustizia, lo si doveva far cavaliere, ha avuto il coraggio, dico, di rispondere che non c’erano gli _estremi_! La parola l’ho veduta io in iscritto proprio sull’istanza. Ah! non ci sono gli estremi per noi, e ci sono stati per quell’altro? Ma la vedremo adesso, quando ci avran fatti deputati, se ne vorranno ancora degli estremi! In allora la guarderemo d’alto in basso anche noi la signora _cavaliera_! Non che me ne importi, ma mi piace la giustizia. Che gliene pare, lo dica lei? E poi» continuò la signora Giuseppina senza ripigliare fiato «noi abbiamo una figlia, e abbiamo quindi dei doveri. Con la dote che le si può dare, quando fosse figlia d’un cavaliere, si può fare come niente un matrimonio nobile. Perciò non ho badato a spese, e mia figlia può montar su un trono. Le ho fatto venire tutti i maestri che si pagano di più; essa ha imparato la grammatica, il pianoforte, la musica, il disegno, tutte le lingue forestiere, e perfino la poesia. Bisogna sentirla quando parla le lingue! con che sentimento.... e spedito che non si capisce niente. Ma è una benedetta ragazza che, quando è in mezzo alla gente, si fa tutta rossa, e non c’è modo di cavarle una parola. È tutta sua madre! quand’ero ragazza, ero anch’io fatta così. Lei dunque capirà ch’io non posso darla in moglie al primo mascalzone....» E con questi ed altri ragionamenti la signora Giuseppina mi accompagnò fin sull’uscio di casa mia, ove io m’ero avviato senza che se ne avvedesse, conoscendo io assai bene tutti i sentieri e tutte le scorciatoie. Come fui nel mio salotto, il fattore, vedendomi pallido, volle che pigliassi una fiammata, e nell’accendere il fuoco mi raccontò che molti di quelli che devono votare per il nuovo deputato, daranno il voto a quello che scrive la gazzetta _Il Vero italiano_, perchè ne hanno paura. Anche questa nuova, che veniva ad aggiungersi alle mie meditazioni sulla casa di Giandomenico, e alle parole che la signora Giuseppina aveva troncate a suo marito, non era fatta per sollevarmi l’animo, e farmi pigliare miglior colorito. La fiammata si levò alta e scintillante; ma io rimasi col cuore stretto e gelato. Che cosa faccio io?... Se non fossi un povero ammalato.... Ora poi è tardi. * * * 2 novembre 1865. Approfittai d’un raffreddore per rimaner chiuso in camera tutta la settimana, senza udire una parola, e senza vedere anima viva durante la battaglia elettorale: i miei propositi vacillavano, e ho dovuto chiudermi in casa per essere sicuro di me. Però a questi foglietti, mentre nessuno mi sente, posso confidare che l’amarezza provata a starmene con le mani in mano, mentre di fuori si combatteva, fu più forte di tutte le amarezze che avevo provate quando lottavo, e che m’ero prefisso di non aver più a provare. La prima votazione non riuscì decisiva: ci fu la seconda prova la domenica seguente; e stamane il fattore venne a dirmi ch’era arrivato in quel punto dal capoluogo il cursore del comune, e aveva portate le nuove al Buccelli e ai molti che l’aspettavano sulla porta del caffè. L’eletto era il direttore del _Vero Italiano_. Quegli elettori fatti venire dal Buccelli, la terza domenica del mese, avevano votato per il gazzettiere, come un sol uomo, dopo aver mangiato ciascuno per dieci, in onore del signor Garofani. La sera stessa, dopo il pranzo, s’era udito uno di quei convitati dire, nel tornarsene a casa, che «dopo tutte quelle accoglienze, e tutte quelle bottiglie, a pensarci bene, non ci si vedeva chiaro.» Oggi è il dì dei morti. La giornata è meno serena di ieri. Il fattore dopo avermi inutilmente consigliato a non uscire di casa, vedendo che non gli rispondevo, e ch’ero un poco astratto, senza soggiungere altro mi mise un tabarro sulle spalle, e mi lasciò andare. L’aria umida e fredda, il cielo che si faceva sempre più grigio davano ragione al fattore. Ma una campana che sonava a lenti rintocchi, la nenia del rosario ripetuto da branchi di donne che trovai lungo la strada, avevano in quel momento tant’eco nel mio animo, che forzavano me pure a seguire i passi altrui, camminando a traverso ai campi per il viottolo che mena al Camposanto. Ci ho anch’io qualcuno, pensavo, là dentro, e non voglio che sia l’ultimo salutato. Lo spianato dinanzi al cimitero s’era mano mano riempito di gente. Le donne, inginocchiate presso il cancello, recitavano in compagnia a voce bassa il _De profundis_; i bambini guardavano le loro mamme, con gli occhi spalancati, e fissi, senza comprendere quella mestizia e quella preghiera; i vecchi, col capo basso e le mani giunte, fissavano silenziosi e riverenti la terra, con la quale sentivano più prossimo il misterioso legame. I singhiozzi d’una povera donna mi scossero dalle mie meditazioni, e mi fecero movere verso questa infelice che, più che pregare, piangeva come chi è afflitto da una disgrazia recente. Era una povera vecchia che non tardai a riconoscere; era la Maddalena, la madre di Luigi, quel giovanotto partito tre mesi prima, e ch’io non ero giunto in tempo a trattenere. La povera donna mi riconobbe. «Eh, mio buon signore,» prese a dire «il mio povero figliolo non c’è più, proprio più! La carta dove c’è scritto che il mio figliolo è morto, l’ho fatta leggere da più che cinquanta persone, e dal signor curato, e dal segretario, e fin dalla gente degli altri paesi. Ma già, c’è anche il bollo, e non la può sbagliare. Sicuro, l’hanno sbarcato in un paese dove c’era un male cattivo, e quel povero figliolo è morto!... Il non avere vicino nessuno de’ suoi, quando s’è ammalati, è una gran disgrazia! Avesse almeno fatto il suo bene!... lo spero, perchè era un buon figliolo! E dire che quando è partito io lo avevo il presentimento.... ma mi consolavo pensando che il fattore gli aveva data una lettera per lei.... e don Michele, pensavo io, è una di quelle persone che so ben io! Don Michele gl’insegnerà la strada buona, o non lo lascerà partire! Ma poi, scrisse che non aveva potuto trovare don Michele, e che era già lontano non so quanto. Quel benedetto figliolo, forse, non sarà venuto da lei con la lettera, perchè lei sarebbe corso subito a cercarlo, l’avrebbe trovato, e gliel’avrebbe detta una buona parola. Oh, lei è un buon signore, lo so!... e intanto il mio Luigi non l’ho più.... un così bel figliolo!...» I singhiozzi le soffocavano di nuovo la parola, ed era per cadere. Alcune donne la sostennero e la condussero via. Anch’io mi levai di là, e, ritornando a casa a gran passi, convulso, e con gli occhi che sentivo gonfiarsi, ripetevo a me stesso: «Non l’ho cercato subito il tuo figliolo, no! Prima ho discusso a chi toccasse salvare il vicino che affoga, e quando ebbi conchiuso che toccava a me, il tuo figliolo era partito!» Ho scritto abbastanza per oggi. Ho chiuse le finestre, e acceso il fuoco; ma ho la mano e il cuore intirizziti. Sono segni di neve. Qualche spruzzo di pioggia è venuto a battere sui vetri, e a dirmi che per un pezzo forse non uscirò di casa. Ma anche il mio salotto ha i suoi passatempi. Per esempio, ecco un foglio novissimo, appena giunto, del _Vero Italiano_ che leggeremo da capo a fondo, incominciando dalle prime linee che dicono così: L’ELEZIONE DI IERI. _Se la modestia non ce lo vietasse, dovremmo dire che un grande atto di saviezza illuminata hanno col voto di ieri compiuto gli elettori del nostro Collegio. L’Italia vuole uomini nuovi, indipendenti, onesti. Noi fummo eletti...._ * * * 7 novembre 1865. La mia intasatura de’ giorni passati venne a proposito, non solo per me, ma anche per la signora Giuseppina la quale, continuando ad approfittarne, dopo quella prima domenica della votazione, non si lasciò più vedere. La mi fece così un vero regalo, perchè proprio davvero in questi giorni non ero in vena nè di far le mie condoglianze, nè di ascoltare tutto quello che avrebbe potuto dirmi per una simile circostanza. In questo frattempo, le notizie tutte del paese le avevo avute appuntino dal fattore il quale, nel fare di tanto in tanto qualche partita al caffè o all’osteria, si trova facilmente informato di tutta la storia contemporanea di Borghignolo. Il fattore dunque pretende che, quando è arrivata in caffè la notizia dell’elezione, ci furono parecchi che ne risero sotto i baffi, ma poi, incontrandosi col Buccelli, se ne mostravano afflittissimi. Il Buccelli s’è fatto in volto del colore della sua giacchetta, ch’è di color cenere; non parla più, e dice solamente che _sa tutto_. Anche de’ voti del paese, a conti fatti, il signor Garofani non ne ha avuto che la metà. Il Buccelli aveva detto il giorno prima, pronosticando, che i voti di Borghignolo gli aveva già tutti nel carniere; e il giorno dopo un bell’umore andò dicendo che nel carniere del Buccelli c’era una maglia rotta e che quella era stata tutta la disgrazia. Il Buccelli è sulle tracce di costui, e dice che lo scoprirà. La signora Giuseppina ha già attraversato cinque o sei volte il paese, senza cappellino, senza cuffia, senza diamanti, e senza gomma alle tempie; l’ha attraversalo camminando in fretta, col Buccelli al fianco, e parlando ad alta voce perchè tutti l’udissero: dice anch’essa che _sa tutto_, ma che però _una volta o l’altra arriverà a scoprire ogni cosa_. Dice che Borghignolo è un paese di villani screanzati, e che quelli che hanno empito la pancia in casa sua, la possono tener piena per un pezzo. Dice che il tiro principale gliel’ha fatto quel vecchio rimbambito che sta lassù in quella topaia, ma che anche lui mangerà presto una gerla di pan pentito. E che insomma, se non avesse la disgrazia di essere una dama educata, li piglierebbe tutti a.... perchè fin da quando c’era il suo primo marito, e che tutti parlavano della bella signora Peppina, e c’erano dei nobili e dei conti innamorati, la Giuseppina, delle figure, non ne ha fatte mai; e non vuol essere venuta adesso a farne con questi mascalzoni di Borghignolo.... Queste ed altre parole c’è chi le ha udite con le proprie orecchie, e c’è chi le ha udite ripetere da altri. Se ne parla al caffè e all’osteria a mezza voce, con qualche mistero, e con qualche apprensione. Alcuni per paura, vorrebbero avere il coraggio della propria opinione, e dir chiaro e tondo che hanno votato per il Garofani, ma poi, pensando a quell’altro che fu eletto, pigliano una via di mezzo, e non dicono nulla. Ce n’è altri, d’animo più forte e indipendente, di quelli che hanno pranzato allegramente in casa Garofani, ma che poi, «siccome non hanno mai cavato il cappello a nessuno, e neanche ai milioni di questi signori» così se ne sono già andati al capoluogo a complimentare il direttore della gazzetta. I più si domandano come l’andrà a finire, ma nessuno lo sa; anche i più curiosi questa volta rimangono con la curiosità in corpo; passano e ripassano dinanzi a casa Garofani, spiano traverso il cancello, ma non ne capiscono niente. Bisognerà lasciare sbollir le ire della signora Giuseppina, e poi non sarà difficile avviare per la gola del cammino tutti questi vapori neri e minacciosi. Ci sarà bene qualcuno che vorrà ammansarla, e senza voler essere io quello che entri nella gabbia per il primo, non mi mancherà l’occasione delle carezze e del bocconcino, per farle intendere qualche parola di ragione, senza che m’abbia a mostrare i denti. Mi inquietano soprattutto le parole lanciate contro il mio povero amico, a cui quei signori potrebbero fare molto male. Ci penserò io a versare acqua su questi carboni; i quali non potranno divampare così subito, e intanto avremo tempo, io di fare il mio piano, e la signora Giuseppina di mettersi in calma e di raccogliere le vele, ossia di ingommare di nuovo alle tempie quei due cernecchi ora in balìa dei venti. * * * 9 novembre 1865. Giandomenico e la sua casa, la signora Giuseppina e i suoi discorsi, tanto quelli della passata bonaccia che gli ultimi della tempesta, non m’hanno lasciato in pace per tutt’ieri. I presentimenti, se non sono la voce della nostra ragione che vuol farsi sentire quando noi non ci pigliamo l’incomodo di ricorrere a lei, sono la voce di qualcuno che la sa ben lunga. Stamane dunque mi feci premura di recarmi alla casa Garofani, avendo meditata e decisa una visita alla signora Giuseppina. «Sono partiti per la città ieri sera» mi disse uno che se ne stava appoggiato al portone socchiuso della casa, e che nell’occasione dei pranzi avevo veduto strozzato in una livrea che gli mozzava il fiato. «È impossibile!» risposi io. «Eppure.... vuole che io non lo sappia?« «Ma ne siete sicuro?» «Eh, per bacco! Partiti i padroni, partito il signor cuoco, Giovanni, la cameriera....» «Partiti, partiti.... ma come mai!» continuavo io, e si pensi con quale stizza! Ma intanto ci si erano fatti intorno tre o quattro curiosi, che mi confermarono ad una voce la notizia, dicendo che la carrozza era passata dinanzi al caffè; che nessuno sulle prime aveva voluto credere, ma che poi se n’erano persuasi tutti, vedendo che il signor cuoco della casa non compariva a far la partita a briscola. «E così?» domandavano dei curiosi ai quali una notizia sola non basta mai. «E così?» mi domando adesso anch’io; e rimango con la bocca aperta, e goffo come loro. * * * 25 novembre 1865. Partiti i signori Garofani, se si guardano le acque di Borghignolo ritornate alla loro antica bonaccia, sarebbe difficile raccapezzare quanta burrasca ci passò sopra, se di tanto in tanto il cadavere di qualche naufrago, e gli avanzi di qualche naviglio sconquassato, comparendo lentamente alla superficie delle acque, non ci dicessero con quanta furia si fossero esse gonfiate. Le disdette di affitti e pigioni sono piovute a furia sul capo di tutti quegli elettori infelici che, nell’esercizio della loro sovranità, caddero in sospetto al Buccelli di non aver dato il voto al signor Garofani. Qualche raro fedele ebbe già il suo premio in vita, ma finora le folgori furono più numerose che le corone. Anche questa volta, la barca scassinata di Giandomenico deve essere tra quelle che ebbero più largamente rotti i fianchi, e che più fanno acqua. Il fattore mi disse più volte, in questi giorni, d’aver saputo da gente che lo può sapere, che il Buccelli va qua e là comperando altri creditucci che molti hanno verso Giandomenico; non certo per fargliene un regalo, come osserva con finezza il fattore; e che fu più volte al capoluogo da un tal avvocato che è appunto quello che da più mesi muove lite a Giandomenico per un credito che il signor Garofani tiene ipotecato sul castello. Aggiunge il fattore che il Buccelli dalle smanie è passato alla calma; che tace sempre, e che sempre ha sulla bocca un sorriso, anche quando non c’è niente di che ridere: cosa che nessuno capisce, e che dà molto a pensare; e che finalmente qualche volta fu sentito dire «che in Borghignolo si devono veder cose, cose _che nè i nostri vecchi, nè i nostri figli non avranno vedute mai!_» Queste cose non sono difficili a indovinarsi. La signora Giuseppina vuole il castello, e il Buccelli vuole Giandomenico fuori di paese. È un’orribile stagione questa. La neve ha già mandati i suoi primi spruzzi; tira vento da mattina a sera, e da due settimane non s’è veduto uno strappo di sereno. Per sapere se c’è proprio ordito qualche brutto gioco contro il povero Giandomenico, bisognerebbe battere la campagna, bere l’anisetto al caffè, fare il politico all’osteria, e inscriversi forse nella confraternita del Buccelli. Bisognerebbe correre alla città, e fare la corte alla signora Giuseppina, e la partita col signor Garofani. Ma, innanzi tutto, bisognerebbe discorrere con Giandomenico; bisognerebbe in nome della vecchia amicizia, chiedergli un minuto di espansione, e domandargli che cosa potrebbe fare per lui un vecchio amico. Eh, certamente! Ed è appunto quello che ho cercato di fare. Ieri, dunque, con Giandomenico, che qualche volta viene da me dopo desinare, seduti al fuoco, e messa dinanzi a lui una bottiglia di vino, s’incominciò a discorrere, pressappoco di questo tenore: «Bonissimo» diceva Giandomenico «questo vecchio vino della paglia! Ne faccio io, o ne facevo, poco importa, di simile nelle mie vigne della collina che ho vendute al droghiere. Gran peccato che l’enologia sia così poco in fiore da noi! Una vasta associazione dei viticoltori, un grande stabilimento, e un insegnamento pubblico di enologia, furono e sono pur sempre il mio principal pensiero. Dovessi far tutto a mie spese, appena le mie faccende me lo permetteranno, un giorno o l’altro in Borghignolo si vedrà qualcosa di simile, te l’assicuro io!» «Ma, a proposito del droghiere, ossia del signor Garofani» presi a dir io «l’hai sempre in piedi quella lite? Gli avvocati hanno da seguitare a infilzar carte e spese, o la finite una volta con un buon accordo?» «Un buon accordo? È impossibile, mio caro. Certa gente non capirà mai le condizioni della proprietà fondiaria. Ma non importa; e, alle corte, io pagherò.» «Alle corte? Benissimo, pagar subito, e finirla....» «Subito sì, cioè relativamente, appena che.... perocchè le combinazioni possono essere molte. Le cose attualmente si presentano così....» Fu qui, cioè a traverso a una penosa narrazione nella quale Giandomenico, lottando a ogni tratto con la verità, cercava di far illusione un poco a me, un poco a se stesso, che venni a conoscere a quali estremi fosse giunto il mio povero amico. La casa, i mobili, il giardino, che ora è divenuto un camperello, e che sono gli ultimi avanzi di quanto possedeva Giandomenico, sono alla vigilia d’essere messi al pubblico incanto. E le sue speranze quali sono? «Credi tu che la sapienza degli antichi abbia detto a caso che la fortuna è legata a una ruota?» diceva Giandomenico. «Io sono in basso, ma la ruota gira!... Io sto con gli antichi, e non mi sono ingannato mai. Troppi conforti e troppi nobili esempi ci hanno lasciato essi, perchè io deva aver imparato solo a chiedere pietà nella sventura. E vorresti tu parlare di queste cose elevate a gente che non ti capisce?... a qualche basso intrigante di villaggio, o ad uno che ha razzolato qualcosa mettendo un quattrino sull’altro, vorresti tu parlare dell’avvenire della proprietà fondiaria, e dei tesori di cui la terra ci sarà larga un giorno sotto gli auspicii del credito e della scienza? Gli vorrai tu parlare dei vasti orizzonti che si aprono al capitale in quegli umani consorzii pieni di gioventù, che sorgono al di là dell’Oceano, e che fanno maravigliare la vecchia Europa delle loro scoperte, delle loro industrie, e delle loro rapide fortune?» Io lo guardavo senza capirne una parola; e fu allora che in un momento di espansione mi confidò come egli, alcuni anni fa, avesse venduta una delle sue ultime zolle di terra per dare una sommerella a un tale, famoso spiantato d’uno dei paesi vicini, e che appunto si diceva andato in America a tentare la fortuna. Egli deve avermi letto in faccia l’espressione d’una dolorosa maraviglia, perchè subito riprese: «È tra questi uomini arditi, avventurosi, e un po’ rompicolli, se vuoi, che la fortuna sceglie spesso i suoi beniamini. Il vecchio mondo, piccolo e sfruttato, è per gli uomini pazienti, modesti e fatti sullo stampo comune. Certe fantasie ardenti, sconfinate, disordinate, se vuoi, hanno bisogno di paesi vergini e vasti. Dietro loro, dietro questi uomini arditi, corsero sempre le grandi fortune. Che vuoi? Io ho una gran fede nel mio viaggiatore. Ogni giorno aspetto la lettera, e la lettera verrà, che mi annunzia guadagni ingenti fatti dall’amico, e dei quali una parte solcherà l’Oceano per ristorare la sorte degli antichi signori di Borghignolo. Allora il droghiere mi vedrà accendere il sigaro con quei bigliettucci ch’egli va facendosi cedere da qualche buon uomo a cui ho dovuto rivolgermi in certi momenti difficili. Allora si tirerà il fiato largo in Borghignolo, noi e la povera gente! Qualcosa di buono si vedrà, te l’assicuro io! Allora avrò qualche consiglio a domandarti....» «Ma se la fortuna non lo mandasse questo bel colpo, o lo ritardasse?» gli osservai io pieno d’una nuova tristezza, che mi cresceva nell’animo mano mano che il povero Giandomenico mi confidava le sue speranze. «Potrebbe ritardare, ne convengo, ed è per questo che devo rassegnarmi alle temporanee difese, agli armistizi, e all’arte del guadagnar tempo, che è tutta del mio avvocato. Mi addoloro di queste arti, ma penso che presto anche la dignità avrà la sua rivincita.» E qui tirò innanzi lieto e confidente nelle sue speranze, e nei suoi progetti. Solo gli vidi passare una nube sulla fronte quando gli chiesi nuove di suo figlio. «Mio figlio, mio figlio!...» incominciò, e pareva volesse con la mano e con gli occhi accennare che suo figlio avrebbe raccolti i frutti di tutte le sue speranze. Ma gli occhi gli si velarono improvvisamente di lacrime, e senza poter più profferire una parola, mi strinse la mano con una forza insolita; cercò riprendere il sorriso di prima, e mi lasciò. * * * 5 dicembre 1860. Il Buccelli continua a non aprir bocca, ma si è vestito tutto di nuovo. Sono arrivate alcune persone dal capoluogo col soprabito nero e il cappello di città, le quali entrarono nella casa di Giandomenico, vi rimasero un paio d’ore, poi andarono a prendere il caffè, e ripartirono. Uno di questi fu sentito dire al compagno, mentre scioglieva col cucchiaino lo zucchero nella tazza del caffè: «Quando si trova poco, la è una gran bella cosa, in un momento si fa!» I soliti curiosi passano, da tre o quattro giorni, qualche mezz’ora dinanzi alla porta di Giandomenico per vedere forse se ci stanno ancora quei signori che pure han veduto partire, poi se ne vanno anch’essi pei fatti loro. Il famiglio di Giandomenico va tutti i giorni all’ufficio della posta, e disse a qualcuno che il suo padrone aspetta una gran lettera, ma tutti i giorni ne esce con le mani vuote. Tali sono le ultime novità del paese che, secondo il solito, ho risapute dal fattore, il quale soggiunge di non capirne niente, e con qualche insistenza; forse perchè sospetta, guardandomi in viso, ch’io ne capisca invece qualcosa. * * * 10 dicembre 1865. Io non so se i diplomatici sieno tutti originari di Borghignolo, ma so che in questo benedetto paese è una impresa quasi impossibile quella di giungere a sapere una verità. Per quanto io abbia fatto in questi ultimi giorni, non sono stato capace di poter conoscere che cosa succeda in casa di Giandomenico, che cosa sia delle faccende sue, che cosa faccia il Buccelli, che cosa facciano i Garofani, che cosa si nasconda dietro il velo misterioso che acciglia le facce dei Borghignolesi. Dopo quell’ultima sera in cui ho parlato con lui, non trovai più modo di vedere Giandomenico. Il famiglio risponde sempre che il suo padrone è fuori di casa. Intanto io sono sulle spine per il mio povero amico. Vedo male, malissimo, e vorrei pure saperne qualcosa. Ieri andai dal curato. «Tocca a lei, don Giacomo, a metterci una mano» gli dissi. «Lei potrà sapere quel che succede. Ci uniremo, e faremo tutto quello che si potrà. Schiviamo una catastrofe a quel povero vecchio; mi dica che cosa si possa fare di bene, lei che n’è maestro, e facciamo quest’opera di carità insieme!» Ma don Giacomo, sebbene non sia nativo di Borghignolo, pure, siccome ci sta da trent’anni, è diventato diplomatico anche lui. Una volta era un po’ meno freddo e circospetto, ma dacchè gli avvenimenti della politica l’hanno sorpreso senza ch’egli ci mettesse prima una parola, come soleva fare in tutte l’altre cose che accadevano a Borghignolo, o perdè la bussola, o se l’ebbe a male. E perciò credo che don Giacomo taccia, ed aspetti a pigliare il suo partito. Vorrebbe, e non vorrebbe; non dice nè di no, nè di sì; e si conserva neutrale tra i potentati di Borghignolo. Il curato, dopo avermi ieri concluso che sarebbe andato da Giandomenico, per dirmi poi per filo e per segno come stavano le cose, venne stamani a raccontarmi, per tutta notizia, avergli detto il famiglio di Giandomenico che il suo padrone non era in casa. «Se lei, signor curato» mi feci animo a dirgli, «non vuol vedere uno dei più vecchi tra i suoi parrocchiani messo forse sulla strada, ora che siamo in tempo, vada alla città. Dai signori Garofani potrà saper tutto; a lei quei signori non potranno negare un’opera di carità. Vada, don Giacomo, e mi dica poi che cosa potrò far io. Lei avrà fatto un’opera santa di più!...» Ma sulla fronte di don Giacomo passava intanto leggero leggero il fantasima del Buccelli, che don Giacomo teme come la scomunica maggiore. Don Giacomo insomma non mi disse nè di sì, nè di no, ma concluse che sarebbe riuscito a vedere Giandomenico, e che mi avrebbe poi detto come stavano le cose. * * * 15 dicembre 1865. «Se lei, per così dire, veniva ieri mattina proprio a quest’ora, guardi un po’! lei trovava ancora in città i miei padroni. Sono partiti alle tre ore dopo mezzogiorno; ma chi poteva pensare una cosa simile? Anch’io, che l’ho saputo dal cuoco direttamente, non l’ho saputo che tre giorni fa. Ma s’accomodi qui presso il caldano; che ne dice di questo freddo?... Se lei poi volesse sapere in che paese sono andati, al momento non glielo saprei dire. Però il cuoco, nel salutarmi — signora Ghita — disse — a rivederla coi ravanelli — e questa per me è stata una gran parola! perchè mi ha dato a capire che i padroni non torneranno per tutto l’inverno.... E il motivo?... lei mi dirà. Il motivo ci sarà, lo creda a me; basterebbe solamente saperlo! ma non lo sanno nè il cuoco, nè le altre persone di servizio.... Con la nuova cameriera poi, non ho ancor barattata, per così dire, una parola dacchè è venuta in questa casa. Essa avrà i suoi motivi; io posso avere o non avere i miei; ci salutiamo; ma non tocca a me il domandarle per la prima una cosa che in ogni caso toccava a lei a dirmi fin da un pezzo. Tutto quello che so è che la ragazza, la signora Adelina, è di molto dimagrata, e che viene il dottore tutte le mattine.... Son cose, lei dirà....» Ma io non dissi niente; e questo è tutto quello che seppi a Milano dalla portinaia del signor Garofani. Ritornato il giorno stesso a Borghignolo, il fattore mi disse che Don Giacomo era venuto da me verso mezzogiorno e lo aveva incaricato di dirmi che «quanto a quell’affare, non c’era niente di nuovo.» * * * 22 dicembre 1865. Da più giorni, probabilmente, sul portone del castellotto di Giandomenico stava un affisso stampato, che incominciava colle parole, a grandi caratteri, _asta di mobili_. Al mio fattore non sarà bastato l’animo di darmi questa nuova, e stamani me l’ebbi improvvisa, mentre, scendendo la collina, passavo dinanzi al castello, nel ritornare a casa dopo una passeggiata. La casa di Giandomenico era la casa di tutti, come se il padrone fosse morto e sepolto. L’asta dei mobili era stata bandita per quel giorno stesso, e mentre io passavo per di là, era già sullo scorcio. Le poche masserizie del mio povero amico erano state trascinate e messe alla rinfusa sotto il portico e nel cortile. A chiunque passava pareva di essere un poco padrone di tutta quella povera roba, e ognuno si dava il gusto passeggiero di trattarla con la maggiore dimestichezza. I più erano curiosi, a cui bastava l’essere entrati per quel portone, e in quelle stanze, ove prima non avevano mai messo il piede, e che ora si davano la soddisfazione e il passatempo di girarle a beneplacito col cappello in testa, o sedendosi dove meglio garbava, senza chiedere licenza a nessuno. C’erano le seggiole; ma i più preferivano sedere su d’una scrivania, su un tavolino, su un cassettone, per quanto ci si dovesse star male. Era l’animo, bisogna dire, che ci trovasse i suoi comodi. Sul vecchio seggiolone a intagli, da cui tante volte avevo veduto rizzarsi Giandomenico per venirmi incontro con la sua lieta affabilità, stava ora seduto il Buccelli che aveva dinanzi a sè il tavolino di giuoco della contessa madre, pieno di carte, di scartafacci, e imbrattato d’inchiostro. Vicino al Buccelli stavano alcuni uffiziali giudiziari, e il gridatore dell’incanto, i quali ora scrivevano, ora parlavano tra loro, seduti alla scrivania di Giandomenico. L’oste e il caffettiere caricavano alcune sedie e alcune vecchie masserizie su una carretta; qualch’altro usciva con un tavolino scassinato, o qualche attrezzo rurale sulle spalle; il signor Borsa, con molta attenzione, con gli occhiali, e in un angolo della corte, insaccava un po’ di libri e di vecchie carte, comperate a peso sulla stadera. Io m’ero fermato dietro un pilastro all’ingresso del cortile; nessuno mi vedeva o aveva tempo di badare a me, ed io non sapevo staccare l’occhio, con una mestizia che mi lacerava l’anima, da quelle povere rovine che vedevo riunite per l’ultima volta. Esse mi richiamavano tante care memorie dell’infanzia e dell’amicizia; memorie conservate nel santuario di quelle vecchie masserizie che ora andavano per sempre disperse. Povere masserizie! Nel rivedere mano mano quelle note forme, quasi mi pareva che dovessero anch’esse dividere meco tutta l’amarezza di quel momento! Un vecchio contadino, che era rimasto per qualche tempo tacito spettatore di quella scena, nell’uscire, crollando il capo, mi si fece vicino, e prese a dire: «Ecco una casa grande che se ne va! Che ne dice, don Michele? E la va male anche pei poveri, quando al posto dei signori antichi si vedono questi _tali_, questi padroni nuovi! L’amore alla terra, e alla gente che ci vive sopra, questi _tali_ non l’hanno. Povero signor conte Giandomenico! Ho conosciuto anche i vecchi della casa io! tutta gente caritatevole e alla mano. E questa roba disgraziatamente frutta poco a quel povero signore! Il bello e il buono lo mette tutto da una parte il Buccelli; il quale fa per conto di quel tale che adesso compera in paese.... Gli stracci sono lasciati alla gara, ma su quel che c’è di buono, come dicevo, mette le zampe il Buccelli, che girando un paio d’occhi di basilisco, lascia capire che guai a chi parla. Se c’è nessuno, dice, questa è roba mia. Uno, due, tre! è bell’e fatto. Povero signor conte, chi sa dov’è andato!... Io l’ho veduto partire, saran tre giorni, sulla bass’ora. Lo seguiva Carlone, come diciamo noi, che è il suo famiglio; il quale prima andò alla posta, perchè il suo padrone aspettava una gran lettera. Intanto il signor conte si fermò con me, pover uomo, mi guardò un pezzo, mi battè sulla spalla, ed io aspettavo che mi dicesse qualcosa.... ma, così tra il chiaro e scuro, mi parve che avesse gli occhi rossi e che si mordesse le labbra. Intanto era ritornato Carlone, il quale disse: Non c’è niente!; e allora il signor conte Giandomenico mi strinse la mano e, sempre senza aprir bocca, se ne andò. Anch’io non gli seppi dir niente.... Si vede che aveva in cuore una gran passione, e che non poteva parlare. Ho sentito poi che aveva lasciato il castello, perchè ci doveva essere l’asta dei mobili, e che era andato lontano, da un suo parente; ma dove, nessuno lo sa. Ora si dice che anche il castello debba andare in mano di questo tale per cui si maneggia il Buccelli. Allora il nostro povero signor conte non lo vediamo proprio più....» Mentre parlava il contadino, tutta quella poca gente, ch’era in corte, si era radunata intorno al Buccelli e al trombetta dell’asta, i quali un po’ discorrevano, un po’ schiamazzavano, e bisogna credere che dicessero delle cose molto facete, perchè tratto tratto si facevano da tutti assieme delle grandi risate. Anch’io mi feci innanzi di qualche passo per osservare.... e cos’era? Era l’incanto dell’ultima cosa rimasta, una cassetta nera con qualche intarsiatura in avorio, che Giandomenico teneva sul cassettone della sua camera da letto, e che chiamava il suo tesoro. In quella cassetta c’erano alcune cosucce che avevano servito alla moglie di Giandomenico, morta molti anni addietro. Più volte, il mio buon amico me l’aveva mostrata, e mi ricordo di averci veduto un guancialino da spilli, un agoraio, un ventaglio, un borsellino, dei ciondolini, una sciarpetta, e un piccolo scialle nero con balza ricamata a fiorellini in seta di colore. Questo scialle doveva essere particolarmente prezioso a Giandomenico, e gli doveva richiamare qualche memoria ben dolce e mesta, perchè ogni volta, nel mostrarmelo, lo levava, lo spiegava con una cura religiosa, e stava per incominciare un racconto; ma subito, interrompendosi, lo ripiegava, lo riponeva nella cassetta, e per qualche momento non poteva dir parola. Ora la cassetta stava aperta sulla scrivania, presso cui si trovavano quei del tribunale. Il trombetta vendeva il ventaglio, e intanto lo aveva spiegato e si faceva vento, il Buccelli s’era messo lo scialle. Chi ne diceva una, e chi rideva di quelle che dicevano gli altri; insomma l’asta finiva in mezzo a un buon umore, che ai più non lasciava sentire la brezza gelata che spirava in quel momento nel cortile. Anch’io non l’avevo sentita fino allora, ma la sentii scendere nel cuore così improvvisa, così acuta, che n’ebbi occhi appannati, e fuggii di là. Perchè fuggii? Perchè non corsi a strappare di mano al Buccelli quelle ultime reliquie per renderle un giorno al mio povero amico? Questa domanda mi assalì prima che toccassi la soglia di casa mia; ma mi scossero di nuovo le voci lontane del Buccelli e degli altri che uscivano in quel punto dal cortile. Lentamente rientrai in casa con l’animo pieno di disgusto e con un rimorso di più. Le potrò riavere ancora quelle reliquie? * * * 2 gennaio 1866. Ogni mia ricerca fu inutile. Da otto giorni non ho fatto altro che domandare di Giandomenico; e ancora non ne so nulla. Parlai con tutti in Borghignolo e con molti dei paesi vicini; mi rivolsi al delegato della questura; mi rivolsi ai carabinieri, perchè si facessero delle ricerche fuori di paese. Le ricerche furono fatte; ma tutti vennero a dirmi che non s’era potuto saperne nulla. Molti mi dicevano: «Bisognerebbe parlarne col Borsa; il Borsa, fu protocollista al tribunale per molti anni, e queste cose lui le sa.» Ma il Borsa era fuori di paese. Oggi finalmente capitò anche lui, e dopo avermi ascoltato nel più profondo silenzio, prese a dire, con un fare contento di sè, ch’egli mi poteva mettere con precisione sulla strada per ritrovare Giandomenico. Mi rasserenai tutto, e rifiatai proprio di cuore. «Il conte Giandomenico» soggiunse il Borsa «ha dei parenti.... e se non gli ha, vuol dire che gli ha perduti ben di fresco. A quest’ora, lo creda a me, egli è in casa dei suoi parenti.... non facciamo altre ipotesi; il conte Giandomenico è in casa de’ suoi parenti! Di più, quello che io so di certo, è che questi parenti abitano o nella provincia di Brescia, o in quella di Cremona, o in quella di Pavia; fuori di lì non si va. Si fidi di me, e non cerchi altro.» Lo ringraziai tanto; e nel ritornarmene a casa pensai che il meglio fosse ormai di scrivere ad Aldo stesso, che è di guarnigione in Calabria; e gli scrissi così: «Carissimo, »Tu sai, mio buon Aldo, che negli affari di casa tua si sono accumulate da parecchi anni varie disavventure. Ultimamente alle vecchie se ne aggiunsero di nuove, e tuo padre, credendole forse irreparabili, uscì di paese, e andò, a quanto mi si dice, presso certi suoi parenti ch’io non conosco. Forse a quest’ora egli te ne avrà informato; ma a me pure, suo vecchio amico, preme assai di conoscere la sua nuova dimora. Scrivimi subito quello che ne sai. Ma se non ne sapessi nulla ancora, chiedi al tuo Maggiore un permesso d’alcuni giorni, e vieni diritto a Borghignolo. Al Maggiore puoi dire schiettamente di che si tratta; egli sarà di certo un brav’uomo, e ti lascerà partire. Tuo padre, pover’uomo! è nell’afflizione e nello sconforto; noi lo possiamo rianimare, noi gli possiamo fare molto bene. Non ti aggiungo di più, perchè so che del venire, non avrai di certo impazienza minore di quella che provo io nell’aspettarti. Addio.» Mi pare di avergli fatto capire abbastanza chiaro di non perder tempo. Ho pensato poi che, se non gli scrivevo io, Dio sa quando ne avrebbe saputo qualcosa. Chi gli avrebbe scritto? Quei suoi parenti, no di certo.... oh! non se la piglieranno più che tanto!... mi par di vederli. Tale è il mondo, e bisogna dire che abbia ragione, perchè è un pezzo che la va così. Ma s’io mi prendo a cuore questa faccenda, non è già per immischiarmi nelle cose di Borghignolo, o in qualsiasi altra di questo mondo: stendere la mano ad un amico dell’infanzia è tutt’altra cosa. E poi, dico il vero, vedersi mettere sotto il naso i raggiri d’un mascalzone, e mandarli giù, è cosa che passa i termini della mia pazienza. Ma dopo questa, se qualcuno sentirà ancora parlare di Michele, gliene darò il mirallegro. * * * 10 gennaio 1866. O una risposta di Aldo, o Aldo in persona, non li posso ragionevolmente aspettare che tra un paio di giorni. Lo vo facendo e rifacendo questo conto, da mattina a sera, eppure ogni tanto vado a domandare al tabaccaio che tiene l’_interim_ della posta, se c’è per me qualche lettera che venga da lontano. Ieri poi, avendo saputo dal fattore ch’era arrivato dal capoluogo un dispaccio telegrafico, mi misi in mente che quel dispaccio fosse di Aldo, e uscii di casa in cerca dell’uomo che l’aveva portato; ma questo era ripartito; e seppi al caffè che il dispaccio era per il Buccelli, e che glielo aveva mandato, dalla capitale, il nuovo deputato, per annunziargli che lo aveva fatto nominare, di punto in bianco, commesso postale di Borghignolo, in _pianta stabile_. In caffè, a proposito di questa nomina, si stava in gran silenzio. I soliti che vi facevano circolo, se ne stavano tutti con le mani dietro le reni, le labbra strette, e qualche ruga in fronte, appena ce ne fosse una disposizione naturale. Come mai il Buccelli e il giornalista, dopo la battaglia così recente dell’elezione, erano a un tratto diventati amici? Come mai quest’amicizia si accordava con quell’altra del signor Garofani? Come mai un Tizio arriva a buscarsi, e quando nessuno se lo aspetta, un impiego così in grande? Come mai il direttore del _Vero Italiano_ ha trovato il Governo di pasta così dolce? Come mai.... Insomma pensandoci, e quelli del caffè ci stavano appunto pensando, c’era da perder la bussola. In mezzo a tanta battaglia di pensieri, ch’era facile intravvedere dietro gli altipiani delle rughe, anche un osservatore poco fine, come posso esser io, capiva presto quale ne poteva essere la conclusione. La conclusione sarebbe stata, che anche la popolarità del Buccelli avrebbe dato in quelle secche in cui si trovano subito arrenati tutti quelli che, per approdare più presto, spingono di troppo la loro nave. Ma qui vien gente, e faccio punto. Era il _pedone telegrafico_, come lo chiamano qui, con ardita denominazione. Questa volta il telegramma era per me; è Aldo, proprio lui, che lo manda. Sia lodato il cielo!.... La telegrafia però avrà fatto un gran passo, quando quelli che se ne servono non si crederanno più in obbligo di comporre degli indovinelli. _Ricevuta lettera. Maggiore partire permesso domani. Riconoscente chiamata_, dice il telegramma. Voglio supporre che chi deve partire in permesso sia Aldo, e non il Maggiore, ma potrebbe essere a rovescio, e il telegramma non sarebbe neanche dei peggiori. Rifacendo i miei conti, ora penso che tra quattro o cinque giorni Aldo sarà qui. Il filo delle mie osservazioni sui Borghignolesi lo riprenderò in altro momento; per oggi non voglio aver che un solo pensiero, quello di rivedere presto il povero Giandomenico, o di avere almeno qualche notizia di lui. * * * 16 gennaio 1866. «Tempi più difficili di questi non ce n’è stati mai!» mi diceva anche ieri il Borsa. «Sa il cielo come la finirà.... se pure la finirà!» Il Borsa, da qualche tempo, mi dimostra una benevolenza insolita; in cinque giorni m’ha già fatte due visite. Le cose pubbliche di Borghignolo gli danno molto a pensare, ed è a me che confida i suoi più neri presentimenti. «Nominare il Buccelli commesso postale è uno di quegli errori politici che dimostrano la insufficenza d’un governo, la confusione degli ordini amministrativi, la necessità d’un nuovo Ministero!» mi diceva il Borsa. «Lo creda a me, questa ostinazione del Governo, questa affettazione, per così dire, di badare tanto poco alle cose di Borghignolo, non è naturale. Oh no! Lo creda a me, c’è del puntiglio!... Il Buccelli commesso postale! È proprio un voler dividere il paese in due partiti, perchè se c’è chi lo vuole, c’è anche chi non lo vuole! E poi, e poi.... un impiegato nasce, ma non si crea; non si può quindi dare un impiego a chicchessia, ed un governo non deve mai violentare le leggi della natura. Per gl’impieghi ci vogliono persone di temperamento freddo, di testa calma, che non si confondano con facilità nella spedizione dei pieghi; che conoscano il nome dei dicasteri, il giro delle carte; persone che sappiano star sul sodo; che vestano con decoro; che abbiano sempre qualcosa di dignitoso e di affabile, direi fin nel camminare; persone insomma, che abbiano quel non so che che fa dire: ecco un pubblico funzionario!» Così dicendo, il Borsa andava prendendo via via degli atteggiamenti diversi, che erano come vignette illustrative. Non disse altro; ma certe crollatine di capo, e certe prese di tabacco che si succedevano con frequenza e irregolarità straordinarie, facevano capire chiaramente che c’è del torbido in Borghignolo, e che ce n’è di molto nell’animo del Borsa. Oltre ciò, da quel poco che taluno osa dire, e da quello che i più tacciono, si capisce indubbiamente che nei partiti politici di Borghignolo è avvenuto, come direbbe un giornalista, uno _spostamento profondo_. Dopo che il Buccelli è salito in alto, i suoi amici, rimasti naturalmente al loro posto, se ne sentirono un poco smaccati. Parve a parecchi d’essere lasciati lì con un palmo di naso; e il palmo di naso in politica manda spesso diviato nell’opposizione. Povero Buccelli! L’aura popolare ha già dato l’addio, a quest’ora, anche a lui. L’essersi fatto il servitore di tutti, il campione d’ogni capriccio, l’aver pagati tanti bicchieri di vino all’osteria, l’aver dato fondo a tutta la scienza della popolarità, non gli è valso nulla, proprio nulla anche a lui! Quelli che si trovano a pie’ di scala, presto o tardi voltan le spalle a chi ha salito il primo scalino; a Borghignolo poi le voltano subito. Se il Buccelli ha letto la storia, a quest’ora deve prevedere la catastrofe: i suoi ultimi atti sono della natura di quelli, che di solito segnano la decadenza degli imperi; egli esagera le proprie forze, le mette tutte in mostra, ne fa sfoggio: il che significa che le sente fuggire. Il barbiere del paese che, per non dire di no al Buccelli, si era per quest’anno rassegnato a fare anche il maestro comunale, ora è andato in Municipio a dire ch’egli non va più innanzi, e che ne cerchino un altro per la fin del mese, perchè questo mestieruccio del maestro non è nelle convenienze di chi ha bottega in proprio, e serve fior di gente. Il Buccelli montò su tutte le furie; licenziò su due piedi il barbiere, e fece chiudere la scuola. Ma il regio ispettore mandò alla Giunta una lavata di capo; fece riaprire la scuola, ed ordinò che si cercasse, entro il mese, un maestro per terra o per mare. Si radunò il consiglio; il Buccelli lesse l’ordine dell’ispettore; i consiglieri non apersero bocca, votarono tutti per il no, e se ne andarono. «Villani, ignoranti!» esclamò il Buccelli «che voto è questo!... mascalzoni!...» ma fu inutile. Un mese fa, queste parole sarebbero state irresistibili, ma oggi la voce del Buccelli ha perduto, come si vede, ogni prestigio. «Gli è perchè» conchiudeva il signor Borsa, dopo avermi narrate tutte queste cose «se io dovessi dirne una, direi.... ma la prego non me ne faccia autore.... direi che quando l’arco è troppo teso.... si spezza!» * * * 17 gennaio 1866. Sia lodato il cielo, Aldo è in viaggio! In una lettera, che ho avuto poco fa, Aldo mi dice d’aver ottenuto dal Maggiore il permesso di partire, e che l’indomani si metteva in viaggio. Se è arrivata la lettera, dovrebbe arrivare anche lui ben presto, tra un paio di giorni al più. Potesse quel figliolo mettermi sulle tracce del mio povero Giandomenico, e levarmi da questa angoscia! Sono oramai passate tre settimane da che ha lasciato il paese, e non s’è potuto sapere di lui nulla, nulla, per quanto io abbia messo sossopra mezza la provincia. Aldo saprà dove stanno que’ suoi parenti presso i quali si trova a quest’ora, senza dubbio, suo padre. Senza dubbio, sì; ma quando lo saprò proprio di certo, avrò un gran peso giù dal cuore. Intanto la lettera d’oggi mi è di buon augurio. Il Buccelli, col mandarmela, ha inaugurato bene il suo nuovo ufficio, e son tentato di dargli anch’io il mirallegro, come tutti quelli che andavano stamani a domandargli le lettere; così dicevami poco fa il fattore. Ah Buccelli! Già, è inutile gli omaggi appannano gli occhi anche agli uomini grandi. Anche tu hai forse già detto a quest’ora: «ho più amici di quello che mi credevo; che un colpo di fortuna sia toccato a me, piuttosto che ad uno di loro, è una cosa che proprio piace a tutti!» * * * 19 gennaio 1866. La novità d’oggi è che per tutto il paese si legge scritto sui muri, col carbone, _viva Buccelli_; in alcuni luoghi è scritto di fresco, in altri è ricalcato sul vecchio che incominciava a sbiadire. Una bell’occhiata di sole mi chiamò fuori di casa, ed anch’io lessi questo augurio popolare, che riuscirebbe meno anonimo e misterioso a chi volesse esaminare per minuto la mano di scritto del Buccelli. Il Borsa però ne è agitatissimo. Lo trovai per istrada, e messosi a passeggiare con me, prese a persuadermi che siamo tutti sull’orlo d’un precipizio, di cui mente umana non può valutare la profondità. Secondo lui, questi muri scarabocchiati col carbone rivelano una lega misteriosa tra il Buccelli e un partito che è in preda alle passioni più selvagge; partito, e qui sta il peggio, che nessuno sa di chi si componga. «Intanto che fa il Governo? Noi siamo senza Governo; il Governo non capisce niente; senza un Governo che si faccia temere molto, non c’è libertà; bisogna cambiare il Ministero; il male è che si cambiano troppi ministri....» In somma, il povero Borsa non sa che cosa concludere. Però soggiunge che lo sa ben lui quello che si dovrebbe fare, che non si è mai voluto dargli retta; che lo ha sempre detto.... ma in conclusione non lo dice mai. Fors’anche lo disse questa volta, ma i miei pensieri avevano cominciato in quel punto a prendere tutt’altro indirizzo. Salivamo la collina da cui era scomparsa ogni traccia di neve; i miei pensieri seguivano quelle mille forme delle falde e dei poggi che, sebbene spoglie delle splendide vesti della vegetazione, erano pure vaghe nella loro severa semplicità. Il Borsa parlava; ma le sue parole le sentivo confuse col romorìo di qualche zampillo che spicciava dai muri, col tintinnìo de’ campanacci di alcune capre che salivano l’erta dinanzi a noi, e col fruscìo delle foglie secche mosse dal vento. Sì, dicevo tra me, tu sei sempre il mio bel paese di Borghignolo, quale t’ho avuto dinanzi agli occhi e t’ho sospirato per tanti anni.... Ah se tu non avessi degli abitanti! «Dunque lei è del mio parere?» «Oh sì; credo di sì....» «Che lei solo può mettere rimedio alle cose di Borghignolo?» «Oh, questo poi no!» «Ma se lei dice d’essere del mio parere....» «Del suo parere sì, ma in tutt’altro.» «Don Michele, lo creda a me! Non c’è altro che lei....» «Ma no! Ce n’è a bizzeffe....» «Ci metta la sua esperienza....» «Non ho esperienza di sorta!» «Ci metta una mano. Non mi dirà di non averne! E se non c’è una sua mano, abbiamo un cataclisma, abbiamo la guerra civile, il finimondo.... avremo un commissario regio!» «Manco male!» «Ah! no, don Michele, risparmi una pagina così dolorosa, così obbrobriosa direi, alla storia di Borghignolo; storia che fu sempre, come tutti sanno, così ricca di mirabili esempi, tanto sul punto dei costumi che su quello della buona amministrazione comunale. Tocca a lei, don Michele, a fare in modo che Borghignolo ritorni all’antico splendore! Che vi trionfi la virtù, e non si dica: Borghignolo è caduto in fondo a un abisso: Borghignolo non è più.» «Caro signor Borsa, Borghignolo vivrà un pezzo ancora, vedrà! Quanto a me, lei lo sa benissimo, io sono un uomo morto e sepolto da un pezzo; sono un povero ammalato che vive chiuso, quasi sempre, in una camera, fuori del mondo, ignorato da tutti....» «Oh non lo creda! Incomincia a formarsi un partito per lei.... partito che, se continua di questo passo....» «Lo fermi subito, per carità.... gli risparmi l’incomodo....» «Ha veduto?» esclamò a un tratto il Borsa, interrompendo il filo del suo discorso, e fermandosi sui due piedi. «Ha veduto?» ripigliò, dopo una breve pausa, con espressione affannosa, e cacciando fuori tanto d’occhi. «No, signor Borsa, non ho veduto niente!» «Come, non ha veduto?...» «Ma le dico di no! Cos’è successo?» «Non ha veduto quei due che passavano?» «Ebbene?» «Ridevano!» «E così?...» «Ridevano!» continuò in tono desolato il Borsa «Ridevano, perchè ora tutti quelli dei paesi vicini, quando incontrano qualcuno di Borghignolo, ridono!... Una volta, a quelli di Borghignolo dappertutto si cavava il cappello! Ora siamo diventati, mi permetta l’espressione, il ludibrio dei popoli! E in una simile condizione di cose, toccava proprio al Governo a metter olio sulla brace? Doveva il Governo, per dirne una sola, dare la posta al Buccelli?...» * * * 24 gennaio 1866. Ho messo in vettura, e fatto ripartire Aldo, con la stessa impazienza con cui per tanti giorni lo avevo aspettato. Di Giandomenico ne so quanto ne sapevo; so invece un altro bel pasticcio, dal quale potrebbero forse venire altri guai. Ci sono degli uomini di cuore che nelle disgrazie, più la matassa è avviluppata, e più facilmente trovano il bandolo del fare il bene. Lo so!... Il cielo li benedica.... Ma veniamo al nuovo pasticcio. Fu una ben penosa narrazione quella che io feci ad Aldo, ma non gli volli tener nascosto nulla, e gli narrai via via tutte le dolorose vicissitudini di suo padre. Il povero Aldo piangeva. Era confuso, prostrato, come chi per la prima volta si trova dinanzi alle disgrazie della vita. Che le faccende di casa sua andassero di male in peggio, non gli era cosa nuova di certo: fin da fanciullo si sarà trovato un bel giorno senza ninnoli e senza vestitino nuovo. Più tardi avrà vedute e capite le strettezze di suo padre; ma le avrà vedute con quella fiducia giovanile, che crede più alle speranze del domani, che alle verità ingrate dell’oggi. Così pensavo tra me, vedendolo tanto abbattuto; ma poco dopo, i suoi vent’anni venivano a prendere il disopra. Ci fu un lungo silenzio tra me e lui. Poi a un tratto Aldo si levò in piedi; alzò la fronte, in atto quasi di ascoltare una improvvisa ispirazione; mi si gittò nelle braccia, e mi tenne stretto lungamente. Più volte fu per staccarsi, e più volte mi riabbracciò. Voleva parlare, ma non poteva: era convulso, tremante. Alla fine, dopo un grande sforzo, come se quella prima ispirazione avesse vinto, esclamò: «Oh! sì, sì, io l’amo! Sì, don Michele, ho deciso!... Io amo quell’angelo... io volerò presso di lei.... nevvero, don Michele?... Un consiglio, una parola, ed io parto!...» Io non ne capivo niente. «Sì, figliol mio; aspetta, discorreremo, hai ragione, partirai, ma aspetta» e cercavo di calmarlo, perchè non gli desse volta il cervello. «Che caso! Che fatalità!... Ma io parto, volo. Oh! lei vedrà, don Michele!» «Calmati, figliol mio, calmati; dimmi un po’....» «Io l’amo da più d’un anno!... Io non ho amato altra mai, e mai non amerò che quell’angelo!... Oh, don Michele, mi risponda, mi dia un consiglio....» «Ma, caro mio, io non capisco niente!» gli dissi alla fine; «parla, spiegati.» «Oh! ci sono delle cose che non si spiegheranno mai! Il suo buon cuore deve comprendermi, don Michele. Oh che fatalità! che romanzo! Essa non ne sa nulla.... oh certo non ne sa nulla!... Ma quando lo saprà, è da lei che verrà l’ulivo di pace per tutti!... Il mio povero padre farà ritorno alla nostra vecchia casa; ogni guaio sarà finito; tutti benediranno lei. Io.... ritornerò al mio battaglione, e poi.... verrà un giorno, presto spero.... io morrò sul campo, gridando _viva l’Italia!... Ella_.... oh! ella spargerà una lagrima.... perchè....» Ci volle un pezzo, e una gran pazienza a calmarlo, a farlo scendere dalle nuvole, a farlo sedere, e a fargli fare una narrazione dalla quale si potesse raccapezzar qualcosa. Raccolsi dunque che Aldo, nell’autunno del 1864, passando un mese a Borghignolo, aveva fatto una grande amicizia coi signori Garofani, che in allora erano ancora nella fase dei sorrisetti, e piano piano s’era innamorato della loro figliola, l’Adelina. Ora, il progetto che gli era balenato in mente, era di correre presso quei signori; di raccontare tutto l’accaduto ad Adelina, la quale non ne sapeva nulla, com’era probabilissimo; poi di buttarsi, lui e Adelina, nelle braccia del signor Garofani e della signora Giuseppina; e d’ottenere sull’attimo, come gli pareva assai naturale, che fosse restituita a suo padre la casa e tutto l’aver suo. Cercai sulle prime di calmare un poco l’entusiasmo di Aldo, ammettendo che nel suo progetto ci poteva essere del buono, ma che bisognava aspettare, per non dirgli proprio subito quello che ne pensavo io, cioè che il Garofani e sua moglie, saputa una simile cosa, gli avrebbero fatto ruzzolare la scala. Aldo era sicuro che i genitori d’Adelina sapevan tutto, perchè dell’amor suo n’era pieno il creato: ne parlavano le piante, l’aria, i ruscelli, e quindi ne dovevano aver parlato anche il signor Garofani e la signora Giuseppina. Le parole di Aldo mi facevano sorridere, eppure gliele invidiavo tutte. Egli era un bel campo tutto verde e fiorito; io ero il falciatore, che veniva a far fieno e a disporre le zolle per l’inverno. Quando mi sembrò che Aldo fosse più calmo, e mi parve tempo di concludere qualcosa, cominciai a parlare chiaro e preciso, perchè quel buon figliolo non aggiungesse alle disgrazie di casa qualche grosso sproposito di suo. «No, don Michele, lei non conosce abbastanza il signor Garofani e la madre di....» balbettava ancora Aldo, dopo ch’io gli avevo fatto il mio sermone. «Se li conoscesse meglio, capirebbe ch’io non m’inganno con lo sperare in loro, e in quello che da loro può ottenere Ad.... oh mi lasci fare!... Io parto, volo; vado in cerca di loro, ottengo tutto, ritrovo mio padre, poi volo ancora qui....» «Tu non volerai nè qui, nè là; tu partirai con la vettura domani, andrai diritto fino al luogo dove speri di trovare tuo padre, mi scriverai ogni giorno, e non farai nulla, nulla, capisci, all’infuori di quello che t’avrò detto io. Non si comanda in due; io ho su di te i miei diritti di anzianità, e tu, da bravo uffiziale, ubbidirai!» Dopo queste parole, Aldo tacque, e non parlò più nè di pregare, nè di volare. Povero figliolo! Chi non è in ballo ha un bel confortare i cani all’erta! Appesa al muro del mio salotto, c’è una stampa che rappresenta un mare in gran burrasca, un bastimento che si sfascia, e cento infelici che vanno a fondo. Se questi volessero dar retta a me, che vedo le cose con calma e previdenza, si salverebbero quasi tutti; ma il guaio è che per trovar lo scampo, bisogna essere all’asciutto! Trattenni con me Aldo anche il giorno appresso per potergli discorrere un poco a lungo; per mostrargli che l’amo come un mio figliolo; per aprirgli infine un pochino anche l’animo mio, che non è poi quello d’un orso. Anche Aldo ne sa poco o nulla di questi suoi parenti presso i quali potrebbe essere andato Giandomenico. Egli pure non gli ha veduti mai. Dice però che suo padre riceveva, di tanto in tanto, lettere da un cugino consigliere di tribunale a Bologna; qualche volta poi aveva sentito parlare d’altri cugini, che abitavano nella provincia di Brescia. Aldo, per fortuna, ricordava i nomi sì dell’uno che degli altri; è sicuro di trovare suo padre presso il cugino di Bologna, e vi si recava diviato. Da Bologna avrò la sua prima lettera, voglia il cielo che ci legga subito una buona nuova! Allora partirò anch’io, per adempiere come saprò meglio, a questo dovere, che è l’ultimo rimastomi nella vita. Poi, cercherò, per finirvi i miei giorni, un paesello, che sia davvero l’ultimo di questo mondo, giacchè m’avvedo che Borghignolo ha la pretensione di non esserlo. * * * 25 gennaio 1866. Nuova visita del signor Borsa. Il Borsa, quando ha qualcosa a dire, tace; tiene per di più la bocca così stretta, che la si direbbe una bottega chiusa per morte o per trasloco del proprietario. Qui, i traslocati devono essere i denti. Più gli si vede una cera impenetrabile, e più c’è da arguire che muoia dalla voglia di parlare. Oggi dunque, entrato nella mia stanza, mi salutò col capo, si mise a sedere, tirò molte prese di tabacco, spiegò più volte un fazzoletto su cui è rappresentata la battaglia di Solferino, e tutto ciò senza dire una parola. Lo lasciai tacere per un quarto d’ora, poi presi a dire: «Signor Borsa, lei mi conta delle cose serie stamani!... Eh! cosa vuole che le dica....» «Dica a quel suo nipote, che ora è partito....» «Non è mio nipote, è mio figlioccio.» «Benissimo. Gli dica dunque ch’egli è molto giovane.... e quando il Borsa dice _molto giovane_, sa ben lui quello che vuol dire!... Perchè Borghignolo non è più il paese d’una volta! Perchè.... siamo vicini a un cataclisma.... perchè i galantuomini, e quelli che sanno non contano più niente! Ma non parliamo di questo. Dica dunque a suo nipote....» «Al mio figlioccio....» «Benissimo. Gli dica dunque che, quando non si conoscono gli uomini, bisogna cercare quelli che li conoscono.... gli dica....» A poco a poco, dopo un lungo preambolo, venni a sapere che il Borsa aveva veduto Aldo che discorreva per strada col Buccelli. Questo era stato il gran guaio. Io infatti non avevo detto ad Aldo qual parte avesse avuto questo Buccelli nelle disgrazie di suo padre. Il Buccelli avrà cercato di cavarsi qualche curiosità, ma Aldo aveva ben poco a rispondergli, e non ne cascherà il mondo. Aldo poi, da quel tanto che ho potuto capire nei due giorni passati con lui, non è nè uno sventato, nè un cervellino leggiero. C’è in lui, per dire la verità, una grande mobilità di fantasia; le sue impressioni sono vivacissime e fuggevoli; i suoi propositi si succedono rapidi, e spesso si contraddicono; ma tutti, nella loro brevissima esistenza, hanno l’impronta di una convinzione sincera. Ma è tanto giovane e così avvezzo a far tutto a suon di tromba, al passo di corsa, con uno svolazzo di piume e la sciabola in mano! Egli avrà letti tutti i romanzi che legge la moglie del suo Maggiore. Egli deve credere che la vita sia tutta una vicenda di pericoli e di glorie; di marce forzate e di fiori gettati dalle finestre; di colonnelli arrabbiati e di sindaci complimentosi; di mamme severe e di serve ammiratrici. Egli deve credere che il mondo per metà si componga di quelli che tirano delle schioppettate, e per metà di quelli che li rincacciano a baionette spianate. Ogni ostacolo, ogni traversìa, devono essere per lui problemi la cui soluzione sta tutta nel cuore e nell’impeto di chi li deve superare. Tale deve essere Aldo, con l’aggiunta di un cuore eccellente e di un animo retto. «Aldo farà onore a Borghignolo» dissi al Borsa tanto per consolarlo, mettendolo a parte dei miei ragionamenti. Ma il Borsa non era in vena di lasciarsi consolare. «È possibile.... ma già è troppo giovane! So io quello che mi dico; e verrà un giorno, don Michele, in cui ripensando alle cose che oggi le dico, e a quelle che non le posso dire, esclamerà: il Borsa aveva ragione!: ma sarà tardi. Oh! le cose che il povero Borsa va dicendo da un pezzo, vogliono diventar preziose un giorno! Lo so bene, ma sarà tardi! I guai e gl’intrighi non sono finiti.... dico gl’_intrighi_ per ora, perchè non posso dire di più!... La ci metta una mano, don Michele, o la si tenga in guardia! Oh! se ne vedranno delle grosse!... e badi bene che dico _si vedranno_, e non dico _vedremo_, perchè io le vedo già!... Insomma, don Michele, glielo domando per l’ultima volta.... una mano! una mano!...» «Io non ci metto nè mani, nè piedi, lei lo sa!» «Come la è così, le son servo. Scriva a suo nipote che si guardi dal Buccelli!... Per ora, questo basta.... a suo tempo gli potrà scrivere qualche cosa di più.» * * * 30 gennaio 1866. Sono da capo con le angustie e con le incertezze. Ma facciamo i conti. Aldo è partito da sei giorni, potevo io averne nuova a quest’ora? Io dico di sì. Potrebbe darsi però che a Bologna non avesse trovato suo padre, e fosse ripartito per Brescia. Forse non avrà trovato così subito neanche il cugino consigliere; forse aspetta, prima di scrivermi, d’avere una buona notizia. Io però gli avevo fatto promettere di scrivermi ogni giorno, avesse o non avesse grandi cose a dirmi. Se ne sarà dimenticato; qualcosa bisogna pur concedere a quell’età, e a quel pennacchio del cappello; ma intanto i miei nervi ballano, e la fantasia galoppa. C’è per di più quel buon uomo, il Borsa, che mi va dicendo ogni tanto: «s’io dovessi mandare a qualcuno una lettera, metterei la lettera in tasca, e la porterei con le mie gambe; poi con le mie gambe andrei a prendere la risposta.» È vero però che subito dopo soggiunge: «il Borsa non si avvilirà mai al punto di consegnare o di chieder lettere a un Buccelli.» E con questa conclusione diminuisce alquanto il significato misterioso della premessa, e rende un po’ meno impenetrabile quel suo sorriso scettico, col quale condisce ogni discorso sulle lettere e sulla posta. Eppure.... devo confessarlo? se aspetto una lettera e non la vedo arrivare, principio ad avere in miglior concetto il Borsa, e a sorridere amaramente come lui; tanto è vero che nessuno ci par proprio uno sciocco, se ci accorgiamo d’avere qualche pensiero in comune con lui. Aldo a Bologna non avrà trovato il consigliere, e sarà ripartito senza scrivermi, parendogli di non aver nulla a dirmi. È il solito ragionamento di chi è lontano. A quest’ora Aldo sarà a Brescia, e forse nelle braccia di suo padre. Anche questa gli parrà una cosa così naturale, che troverà inutile lo scrivermela così subito. Capisco ch’io non sono un uomo fatto per aspettare, come pur troppo non sono neanche un uomo fatto per andare! Se dovessi dar retta alla mia impazienza, sarei già sulle mosse; ma poi, è sempre così, quando son lì per decidermi, ricasco sulla sedia. Questa volta però il meglio è che aspetti con pazienza, cercando sviare, quando capitano, le mie solite fantasticherie malinconiche, scarabocchiando su questi foglietti, passeggiando col Borsa, e cercando di penetrare nei suoi profondi disegni. Non vorrei però, a proposito di questi profondi disegni, come li chiama lui, vedermi un bel giorno messo in qualche garbuglio. Infatti, egli mi ha più volte confidato che vedeva venire da lontano, verso di me, il favore della pubblica opinione. «Quando sarà arrivato» gli ho risposto io.... «gli dica a mio nome che non sono in casa, che sono partito.» C’è un’altra cosa poi ch’egli vede venire; e credo un po’ meno da lontano, che vorrebbe dire e non dire, tanto gli conturba il pensiero e gli scotta la lingua. Egli sospetta possibile che il Garofani diventi sindaco di Borghignolo. È questo lo spettro ch’egli ha dinanzi giorno e notte, che lo segue dappertutto, e gli fa veder così nere le sorti de’ suoi conterranei. È questa la chiave dei suoi discorsi misteriosi, dei suoi sorrisi amari, dei suoi lunghi silenzi. «Eh! sicuro!» gli dissi io stamani «e lei ne dubita ancora, signor Borsa, le pare una cosa lontana? Tra poco il vecchio Consiglio sarà mandato a spasso, se ne farà uno nuovo, il Garofani sarà il sindaco, e gli consegneremo le chiavi della città!» «Ma sa lei...» cominciava il Borsa, con la voce strozzata. «Che il Garofani sarà sindaco di nome, e il Buccelli lo sarà di fatto» ripigliavo io. «Sicuro che lo so!» «Commesso postale, segretario, sindaco, priore della confraternita, tutto insomma!» disse in un sol fiato il Borsa, squarciando per un istante il velo d’una così lunga diplomazia. «E i popoli dovranno sopportare di queste cose! Tutto sul capo d’un solo!» continuava. «Per l’appunto, è proprio quello che piace ai popoli di tanto in tanto! Chi ha sempre dato i voti al Buccelli?... Ha letto lei le storie antiche, quelle per esempio degli imperatori romani?...» «Ne ho sentito parlare» disse il Borsa dopo una lunga pausa, «ma le confesso che non ci avrei mai creduto!» * * * 10 febbraio 1866. Ho mandato ad Aldo tre lettere anche stamani. Gliene diressi una a Brescia, una a Bologna, e una presso il suo battaglione. Le lettere che gli scrissi nei giorni passati, le mandai alla posta d’un paese a tre miglia da Borghignolo. Quelle d’oggi le feci portare dal fattore alla posta della città. Così, l’una dopo l’altra, io metto in pratica tutte le precauzioni del signor Borsa. Incomincio a credere anch’io ch’egli sia un grand’uomo. Siamo già in due di questo parere: lui ed io. Ma non c’è da dire. Domando io, se il non aver avuto più nè una riga, nè una nuova di Aldo, non sia una cosa strana, misteriosa, e da far credere a tutti i riflessi politici e sociali del Borsa? Il mio errore fu quello di non essere partito io stesso con Aldo; di aver affidata una ricerca così importante, e che poteva riuscire non facile, a un giovane senza esperienza e senza conoscenza di luoghi e di persone. Lo so ben io, quasi sempre, quello che andrebbe fatto, ma poi.... ma poi per andare bisogna moversi, per fare bisogna mettercisi, ed è allora che mi sento divenir greve come fossi di piombo, e quasi non posso più rizzarmi neanche dalla sedia. Quante cose non farei io, se le potessi fare col solo pensiero! A proposito di fare, che cosa fa in giro questo signor Garofani, che non è ancora ritornato in città? Giri pure fin che vuole, che gli è lo stesso. Non capirà e non imparerà mai niente! Che se ne ritornino una volta lui e lei a casa, che non sono roba da esportazione! — «Se ne stanno ancora nientemeno che in riva al mare» mi disse ieri il fattore il quale in Borghignolo ha sempre la riputazione d’uomo che vive all’infuori della politica; riputazione di cui mi approfitto per affidargli di tanto in tanto qualche incarico diplomatico. Poichè bisogna sapere che se io, per esempio, fossi andato al caffè a domandare ingenuamente al primo che capitava, se il signor Garofani era tornato in città, avrei messe tutte le fantasie di Borghignolo in movimento e molti animi in agitazione; la mia domanda avrebbe fatto subito il giro di tutte le bocche. A quest’ora i più timidi piglierebbero di nuovo la prima cantonata appena mi vedessero spuntare da lontano; i più torbidi se ne starebbero piantati in caffè, parecchi giorni, con le mani nei taschini del panciotto dicendo «vedremo;» ed io poi non sarei riuscito a sapere se il signor Garofani fosse o non fosse ritornato in città, perchè ciascuno, a buon conto, si sarebbe creduto in dovere di non dirmelo. * * * 15 febbraio 1866. Il Borsa, in uno stato di profondo abbattimento, venne ad annunziarmi che domani arriva in Borghignolo il nostro deputato, il direttore del _Vero Italiano_. È il Buccelli che lo fa venire, e gli darà alloggio in casa sua. Il Buccelli dunque ha fatto pace e alleanza con l’avversario, a cui aveva dato così fiera battaglia pochi mesi fa? Pare cosa, al signor Borsa, inaudita; e nel dire che in tutto questo c’è del buio, soggiunge poi che la cosa è chiara e lampante. Perocchè il Buccelli sospetta che i consiglieri comunali, dopo essersi lasciati menare per il naso, strapazzare e dar dell’asino tante volte da lui, possano avere il capriccio di fargli un tiro e metterlo all’uscio. Facendo venire in casa sua il deputato, che è quello nientemeno che scrive il _Vero Italiano_; che è quello che sa tutte le notizie di questo mondo; e che ha il coraggio di dire tutte le mattine ai ministri che sono dei bricconi, la cosa è fatta. Chi potrà avere d’ora in poi la temerità di pigliarsela col Buccelli? — «Il Buccelli, da domani, sarà il padrone del paese. L’autocrazia del Buccelli in Borghignolo farà impallidire quella degli Czar.... che dico?, quella dei Faraoni!» Così conchiude il signor Borsa il quale poi è d’opinione che la colpa di tutto questo sia del Governo, perchè il Governo vede e sa tutte queste sventure di Borghignolo, e non ci pone rimedio. Il Governo, secondo il signor Borsa è uno stranissimo mostro, il quale sa tutto e non sa niente: è onniscente a un tempo come Domeneddio, e analfabeta come il campanaro di Borghignolo. * * * 18 febbraio 1866. Borghignolo fu tutto in festa per l’arrivo del deputato, il quale scese d’un salto dalla diligenza che passa per Borghignolo, e fu ricevuto dal Buccelli, che a capo di quasi tutti i _ben pensanti_ del paese lo aspettava sull’uscio della botteguccia dove è l’ufficio della posta. Ci furono molti inchini e atti d’ammirazione da una parte, e saluti pieni d’affabilità dall’altra. La comitiva si ingrossò di tutti i curiosi che passavano, e ci fu qualche grido di _viva il vero deputato! viva il difensore del diritto dei popoli!_ Allora il deputato andò a far colazione, accompagnato sempre dal Buccelli e dagli intimi, lasciando che gli altri spiassero dietro l’uscio e le inferriate delle finestre per vedere come fanno i personaggi grandi a mangiare. Il Buccelli alloggiò il suo ospite nel castello, e nelle stanze di Giandomenico, ove per tutto quel primo giorno ci fu un lungo e secreto conclave, che aumentò di tanto la desolazione del Borsa da farmi quasi temere pe’ suoi giorni. Venuta la sera, quei quattro che nelle grandi occasioni soffiano in uno strumento da fiato, si recarono, seguiti da molta gente, sul piazzale del castello a sonare, in onore del deputato, per cinque o sei volte di seguito un valzer, che per ora è l’unico che si conosca in Borghignolo. Comparve subito dal portone il deputato con qualche altro a ricevere e ricambiare gli evviva, mentre il Buccelli, aiutato da due o tre della brigata, correva dalla casa al piazzale con boccali e fiaschi, dando da bere ai venuti, e vuotando l’ultimo bariletto del povero Giandomenico. Anch’io rimasi per qualche minuto testimonio di questa allegria al sereno. Passavo per di là, dopo aver fatto quattro passi sulla collina; nessuno mi aveva veduto; era buio, m’ero tenuto al largo, e poi la gente era tutta intenta al deputato e ai boccali. Ero per andarmene, quando a un tratto alcune voci gridarono _silenzio! silenzio!_ Mi fermai, tesi le orecchie, e tra i bisbigli della folla e il rumore dei carretti e di quelli che passavano canterellando per le stradette vicine, udii la voce del deputato imbarcatosi in un sermone al popolo di Borghignolo: «Alle forti.... e sapienti.... popolazioni di Borghignolo.... salute!» «Grazie!... Evviva!» «Da queste soglie.... calcate.... dalla boria feudale.... bagnate dai sudori....» «Evviva! Evviva!» «Chi vi parla? Io! Io che modestamente, ma con coscienza di missione, rappresento le vostre magnanime aspirazioni.... le vostre sublimi virtù. Io.... figlio adottivo di Borghignolo.» «Viva Borghignolo! Evviva! Evviva!» «Io che lasciai le mie cure private.... che tutto lasciai da banda per accettare il vostro mandato.... che lasciai da banda....» «Evviva la banda! Evviva il deputato!» «Cittadini di Borghignolo! Siate vigili custodi della fede e della coscienza dell’umanità..... siate estrinsecazione dell’aspirazione dei pensatori.... scacciate da voi i falsi profeti, gli avoltoi pasciuti del vostro cuore che è quello di Prometeo....» «Viva il Buccelli! Evviva! Viva il deputato!» Il Buccelli era comparso in quel momento con due gran fiaschi sotto il braccio. Il deputato continuava, e pareva gli si squarciasse la gola; ma intanto mi rasentava vicino un carretto, che col cigolar delle ruote e con lo scricchiolìo de’ ciottoli mi fece perdere il filo del discorso, e non mi lasciò giungere che qualche parola qua e là. «Le banche.... gli uomini del potere.... le consorterie.... la tassa del registro e bollo.... Galileo.... i giudici di mandamento.... Solone.... il dazio consumo.... il Consiglio comunale.... il segretario.... l’America.... evviva.... abbasso....» «Viva la _Merica_! Evviva!... Abbasso!» Passato il carretto, aguzzai le orecchie daccapo; ma a un tratto i sonatori, in isbaglio, ripigliarono il loro valzer, mentre il deputato era nel buono dell’aringa; nè ci fu modo di farli smettere, per quanto facessero a gesti, e a gridi, il Buccelli e il deputato. Ne venne una gran confusione, della quale alcuni giovanotti approfittarono per mettersi a ballare, ed io per andarmene senza che nessuno si avvedesse di me. Un tale però che evidentemente s’era tenuto in disparte anche esso, e che al pari di me se ne ritornava in quel momento a casa, ravvisandomi a mezzo, in quel buio, affrettò il passo, e mi si fece vicino. «Oh signor Borsa!» gli diss’io «era anche lei della comitiva?» Ma il Borsa non rispondeva. Quando fummo vicini a casa, tirò un gran sospiro, e nel salutarmi, mormorò: «Peccato, peccato!... parla pur bene quel signore!... ha un gran talento!... ah, se non fosse amico del Buccelli!...» Il mio fattore, per quanto facesse professione di vivere all’infuori della politica, quella sera fu trascinato anch’esso dalla corrente, e rimase sul piazzale del castello, e per le vie del paese finchè durarono i canti, la musica, la baldoria. La mattina seguente, cioè ieri mattina, mi disse anch’egli maraviglie del deputato, e concluse che talenti simili ce ne saranno, ma in Borghignolo non se n’erano veduti mai. Mi disse che il deputato aveva promesso di far passare presso il paese una di quelle strade ferrate che vanno diritte, e in un batter d’occhio, fino a Parigi, e se occorre a Mosca. Borghignolo diventerebbe allora una città; il giudice del mandamento sarebbe fatto consigliere di tribunale; il caffettiere avrebbe uno spaccio di duecento tazze di caffè al giorno; l’oste potrebbe vuotare tutte le cantine di quei del paese e dei paesi vicini; e soltanto a tenere delle galline e a vendere ova ci sarebbe da farsi ricco per chi si sia. Aveva poi promesso di aggiustare a dovere gli affari del comune; di mettere Borghignolo sulla via del progresso, e di riordinare la confraternita. Tutti erano contenti, allegri, e si aspettavano cose grandi. La prima cosa grande fu che, quando ieri radunato il Consiglio, per ordine del prefetto, perchè fosse una buona volta nominato il maestro stabile della scuola con l’assegno voluto dalla legge, perchè fossero presentati i conti dell’anno passato, e fossero nominati gli amministratori di certi lasciti pii, il deputato vi intervenne condottovi dal Buccelli, e, facendola da sindaco, presedette i consiglieri, parlò, strepitò, fece le proposte, e le fece votare. Su tutti gli argomenti fece votare per il _no_. Ai nostri consiglieri di Borghignolo, per i quali il _no_ è il solo voto che non ispiri diffidenza, parve di aver trovato finalmente il loro uomo. Furono unanimi in tutti i _no_ che loro propose il deputato, e, pieni di fiducia e di entusiasmo, credendo in fine di pronunciare un ultimo _no_, caddero in fallo in un _sì_. Votarono cioè un indirizzo di protesta al Governo contro quelle leggi d’amministrazione e quelle domande per le quali erano stati chiamati a deliberare. «Oh adesso sì che le cose andranno bene!» si disse in paese da tutti, appena si seppero queste novità; e il deputato approfittandosi di quest’aura così propizia, raccomandò a tutti calorosamente il suo amico Buccelli. Le cantonate e i muri del paese che nelle grandi occasioni non rimangono mai silenziosi, celebrarono subito questa bella giornata; e in un attimo vi si lesse, ad ogni passo, scritto col carbone_ — viva noi — viva i popoli tutti — abbasso i nemici di Borghignolo — viva il protettore del popolo_, che è il deputato, _abbasso don Michele_, che son io. Ciò vuol dire che il Buccelli è ritornato alla sua antica idea, e si metterà di nuovo a soffiare nella brace per farmi, se gli riesce, sgomberare il paese: tanto gli sono in uggia, sebbene egli non mi veda mai. Ah! Michele, il tuo _aratro_ ti vuol far sudare.... Una lettera d’Aldo! Eccola finalmente questa benedetta lettera che aspetto da un mese, e che mi cagionò tanta impazienza e tanti sospetti. Me la portò un merciaiolo che avevo pregato, andando lui alla città, di domandare se ci fosse una lettera _ferma in posta_ per me. La lettera c’era proprio, ed eccola qui. Ma cosa mi dice Aldo in questa lettera? Mi dice «che ha pigliato un brigante vivo.... che le balze scoscese dei monti, il mare, la luna gli innondano il cuore di poesia.... che ha perduto il borsellino, e che è rimasto senza un soldo....» mi dice tante altre belle cose; ma non mi dà nuove di suo padre. Risponde alle mie ultime lettere.... e le altre? Dice che è ansioso d’avere notizie da me.... spera ottenere un altro permesso.... Insomma, se io non gli avessi mandate le mie lettere da Borghignolo, e gli avessi scritto di mandarmi le sue in città, non ci sarebbe stato nulla di tutto questo mistero! È una cosa indegna, è una cosa da malandrini! Ma questa non la inghiotto.... oh la vedremo, la vedremo tra poco! * * * 20 febbraio 1866. La benefica visita del deputato, la gioia degli animi e la fiducia nell’avvenire finirono in una gran baruffa a pugni e a legnate; una dozzina d’individui andò a letto col naso rotto, e un’altra dozzina andrà a letto domani sotto la custodia del procuratore del re. Il Buccelli, con una brigata de’ suoi fidi, accompagnò alla diligenza il deputato che partiva, gridando e schiamazzando. Nel ritornare, si fermarono sulla piazza, sbeffeggiarono qualcuno, corsero delle villanie e delle busse. Quelli che ne toccarono fecero il loro complotto per non rimanere in debito, e alla sera ricomparvero più numerosi e col randello sotto il braccio. Ci fu un gran parapiglia in caffè. Andaron rotti chicchere e tavolini; andò rosolio per tutta la bottega. Il caffettiere, con uno sgabello in mano, picchiava sugli uni e sugli altri, per non far torto a nessuno. In complesso però, per dire il vero, gli amici del Buccelli picchiarono più degli altri, e rimasero, come si direbbe, padroni del campo e del paese. Il Borsa, che se ne stava tranquillo a casa sua, come seppe queste scene, fuggì, e non se ne sa più nulla. Il mio fattore, pieno di spavento, non mi voleva lasciare uscir di casa questa mattina, ma io uscii, e non vidi in giro anima viva. Vidi sulle cantonate un rinforzo di _evviva_ e di _morte_; lessi sul muro di casa mia un _non vogliamo forestieri in paese_, scritto a grandi lettere; vidi rotti i vetri del caffè; ma l’ordine, salvo sulle spalle e sulle facce dei combattenti che non ho vedute, mi pare dappertutto a quest’ora pienamente ristabilito. Il fattore non la pensa così; dice che devono seguire cose inaudite, e sta empiendo una vasca d’acqua perchè prevede un incendio. Io invece prevedo un drappello di carabinieri. * * * 24 febbraio 1866. Cose grosse! Il Consiglio comunale di Borghignolo è sciolto; c’è in paese un commissario regio, un uffiziale di pubblica sicurezza, un giudice, un drappello di carabinieri. Il Buccelli, che aveva messe a tempo le sue vedette, come seppe che i carabinieri entravano in paese da una parte, svignò dall’altra. L’uffiziale di pubblica sicurezza fece aprire la di lui casa; ci passò un’intera giornata, e ne uscì con un grosso fascio di carte. Il giudice ha iniziato un processo, e un paio di caporioni seguiti da tre o quattro gaglioffi furono già mandati al capoluogo. Il commissario se ne sta da mattina a sera nella sala comunale, e se vorrà venire a capo di qualcosa dovrà starci un pezzo. Ognuno se ne va pe’ fatti suoi lesto, lesto, e quasi non ardisce fiatare; il Borsa mi ha mandato a dire che, quando le cose si saranno fatte più tranquille, ritornerà in paese; ch’io intanto rimanga saldo al mio posto; che non abbia timore: che il nemico è un vile, e che a suo tempo gliela faremo vedere! La gente, che nei giorni passati era tutta ritornata al Buccelli, ora gli si è tutta ribellata di nuovo, e, quando essa ardisce aprir bocca, ne dice corna. Dice che ha fatte ruberie senza fine; che si mangiò un capitale del luogo pio; che portò via carte e documenti del comune; che metteva in tasca quei pochi quattrini che le madri gli consegnavano da mandare con la posta ai loro figlioli militari. A queste cose poi, che credo verissime, ne aggiungono delle altre a cui si dà molto maggior peso. Si dice che il Buccelli abbia comperato un palazzo in Francia; che abbia fatta fare una gran fossa in un bosco e ci abbia nascosto il tesoro; che abbia fatto nella confraternita delle cose eretiche, e che si intenda un po’ di stregoneria. Perchè queste cose non si dicevano prima? Perchè, fin che il Buccelli fu in paese, tutti gli facevan la corte? Perchè mai le stregonerie s’erano chiamate fino allora miracoli? Queste domande non le faccio che a me, tanto riuscirebbero stravaganti a chiunque le facessi in paese. E perchè nessuno rammenta, a proposito del Buccelli, il povero Giandomenico cacciato di casa, buttato sulla strada, prima che qualcuno potesse correre in suo aiuto? La storia di Giandomenico è cosa vecchia. È un pezzo che non si vede più; nessuno più lo ricorda, nessuno ne parla. Io solo lo ricordo, povero amico! Oh perchè non ho saputo conoscere meglio le sue disgrazie! Perchè non fui più sollecito nel correre in suo aiuto! E ora che ne sarà avvenuto; dove sarà? Quante disgrazie di meno si conterebbero a questo mondo, se i galantuomini fossero solleciti come i bricconi! * * * 1 marzo 1866. Mi sono giunte ancora due nuove lettere, che Aldo certo in distrazione, mi mandò direttamente a Borghignolo, e che mi furono consegnate dal caffettiere che, provvisoriamente, distribuisce le lettere. Da queste due lettere capisco meglio ancora, ch’egli me ne ha scritte delle altre che io non ho ricevute. Aldo aspetta da me notizie di suo padre, ed è impaziente di saper l’esito di certe ricerche che avrei dovuto far io, suggeritemi da lui, a quanto pare, in qualche lettera che non mi fu consegnata. A quest’ora però saprà che le sue lettere io non le ho avute, perchè glielo scrissi da parecchi giorni, e mi avrà detto da capo tutto quello che non so. Benedetto figliolo! Avrebbe potuto in queste due lettere dire qualche cosa di più e dar meno posto alla luna, ai tramonti, alle prime erbette che spuntano sul prato, alle onde del mare che si gonfiano e palpitano.... È lui che palpita, non le onde del mare!... Ma non diamogli sulla voce, povero figliolo, perchè anche noi, al nostro tempo, di lune e di erbette ne abbiamo avuto per il capo la nostra parte! Ma, e questi signori Garofani fanno il giro del mondo? Non c’è uno in tutto Borghignolo che sappia nè dove siano, nè quando tornino!... Il fattore mi annunzia, tutto confuso per il gran rispetto, la visita del signor commissario regio. Chiudiamo dunque lo scartafaccio. La visita non è stata breve. E non è stato breve, nè facile a scansare un certo assalto che mirava a tirarmi in trappola. Tutto a fin di bene, capisco, ma, e poi? Non è un balordo, questo signor commissario regio; è fine, discorre bene, vi lascia dire, vi dice sempre di sì, e intanto vi tesse tutto all’ingiro una ragnatela dentro cui vi piglia come un moscherino. Mi raccontò a lungo tutti i disordini che ha trovati nel comune, e mi disse che ce n’è da mandare in galera il Buccelli dieci volte. Me lo immaginavo, e non me ne feci stupore. Mi parlò del suo incarico di ricostituire l’amministrazione del comune, mi chiese de’ consigli, mi discorse di tutto il bene che si può fare, e del dovere che si ha di farlo. Mi disse che i comuni sono la base dello Stato; che quando la base è tarlata.... e che non aggiungeva di più, perchè sapeva di parlare a un uomo in cui l’amore del paese.... e così via. Mi disse che come sindaco del paese, io avrei potuto.... ma qui non lo lasciai finire; ed egli subito riprese che sapeva di non potere _sperar tanto_, ma che assolutamente io dovevo permettere che fossi proposto per il Consiglio comunale, dove di tanto in tanto, anche solo una volta all’anno, a un bisogno, avrei potuto buttar là una buona parola. Non risposi nè sì, nè no. Ne disse tante e tante, che non era facile ribatterle tutte. Però gira e rigira, non fu contento finchè non m’ebbe cavato di bocca un _insomma, faccia lei, vedremo_... Poi mi ripigliò le sue confidenze, e m’affogò in un mare di cortesie. _Faccia lei, vedremo_, non vuol dir troppo! Non credo con questo d’aver rinunziato ai miei propositi. Ma quel commissario regio però non è un balordo! * * * 5 marzo 1866. Il signor Garofani è arrivato in città ieri, e lo aspettano in Borghignolo, chiamatovi dalla catastrofe del Buccelli. La sua signora rimane in città, fedele al giuramento di non metter più piede in questo paese. Tali nuove le diede, al mio fattore, il casiere dei signori Garofani, il quale è già in faccende a spalancar finestre, a spazzare, a spolverare e dar la caccia ai topi. Anche il Borsa, che per il momento se ne sta nella casa d’un suo nipote in un villaggio qui vicino, mi mandò un foglio di carta, su cui è scritto: «Nuovi guai! Il signor Garofani, marito, giunge in Borghignolo! Non dico altro! Don Michele, coraggio! Appena i tempi saranno diventati meno procellosi, io sarò in Borghignolo! All’erta, don Michele! Non dico altro! «BORSA.» Il mio piano è fatto. Ho indugiato altre volte abbastanza; morto o non morto, ho ancora un dovere da compiere, e per essere più sicuro del fatto mio, partirò questa sera stessa. * * * Milano, 7 marzo 1866. Confesso d’aver riveduto con piacere le mie vecchie vie della città. Andai girellando pur volentieri! e mi sorpresi più d’una volta fermo sui due piedi a guardar la facciata d’una casa o le vetrine d’una bottega. Fin la troppa gente, nei luoghi più frequentati, non mi diede fastidio, e fin anche per gli spintoni mi sentii inclinato a una certa indulgenza. Il dottore, che corsi subito ad abbracciare, e che, nel fare quattro passi con me, s’avvide che il mio antico broncio s’era un po’ calmato, dice che le _assenze_ e le _lontananze_, non sono state finora in medicina studiate con la debita attenzione; che hanno un grande avvenire nella scienza; e ch’egli ne ha osservati degli effetti maravigliosi in certe malattie, in quelle, per esempio, di qualche marito e di qualche moglie. Comunque sia, per non dargliela tutta vinta, mi affrettai ad assicurarlo che Borghignolo è il primo paese del mondo, vedendo ch’egli mi scalzava per farmi uscir a confessare che n’ero annoiato. Ora importa ch’io vada subito in casa Garofani. Chi me lo avrebbe detto? Eppure è così. Voglio diventare l’amico, il confidente della signora Giuseppina. Vorrei anche poter mandare questa risoluzione d’oggi in domani; ma pure bisogna risolversi, chiudere gli occhi, e spiccare il salto. Domani sarà l’ultimo _domani_, definitivamente, senza misericordia, senza soprattieni; e si vedrà Michele bere a sorsi la cicuta, con la calma solenne d’un personaggio dell’antichità. Ma sono io poi sicuro che la signora Giuseppina non mi salti alla faccia come un gatto arrabbiato? Siamo stati, per alcuni giorni, amici svisceratissimi, ma dopo la catastrofe dell’elezione, e dopo le mille suggestioni del Buccelli, non è facile indovinare in quali acque mi trovi. Tanto più che la signora Giuseppina soleva dire: «tutto sta nel modo di pigliarmi; con un niente divento un pezzetto di sugo di regolizia; ma se sono stuzzicata, e se mi monta la mosca al naso, buona notte! divento un granello di pepe, e di che pepe! Lo diceva sempre il mio Baldassarre, buon’anima, e lo ripetono sempre anche adesso il Garofani e il signor Mosè.» * * * 12 marzo 1866. Salii le scale della signora Giuseppina, apparecchiato così alla regolizia come al pepe, con l’animo tranquillo e direi lieto. Trovai un uscio aperto, entrai in una prima stanza, dove un servitore in calzoni verdi e con l’abito di color cioccolata russava tranquillamente, sdraiato su una cassapanca. Quella cassapanca mi diede una prima stretta al cuore; ci avevo dormito sopra tante volte anch’io da bambino, quand’era in uno dei salotti di Giandomenico. Coraggio! dissi a me stesso; e rispettando quel sonno profondo, aprii un altro uscio, e andai innanzi. Dopo qualche sbaglio d’itinerario, dopo aver fatta sentire la mia voce, e aver udita quella della signora Giuseppina, mi trovai finalmente nella sala di ricevimento. La signora Giuseppina, appena mi vide, fece una grande esclamazione, saltò in piedi, mi venne incontro, e poco mancò che non mi desse un abbraccio. Eravamo alla regolizia. Quante cose non mi disse, e non mi domandò, senza riprender fiato! quante volte non esclamò: «Oh! che bella improvvisata! lei è proprio un don Michele dei fini!... che bella visita! ne avevo il presentimento! ho sognato l’altra notte di lei!» Poi m’invitò a sedere, presentandomi ad alcuni signori e signore che facevano circolo, e che s’erano tutti levati in piedi, guardandomi con molta curiosità. Con qualche curiosità anch’io guardai uno di loro, che sentii essere il signor Mosè; quel signor Mosè che avevo udito nominar tante volte, e che in casa Garofani era un’autorità. La signora Giuseppina, riattaccando la conversazione, incominciò col fare il mio elogio; mi dipinse come un gran personaggio, e ne disse tante che io finii col rimanerne imbarazzato; gli altri si misero in gran soggezione, e non aprirono più bocca. Appena potei sviare il discorso, mi feci a chiederle le nuove della famiglia; le dissi che le trovavo una cera ch’era una magnificenza, e feci perfino qualche allusione alla sua bellezza, senza però compromettermi con le date. «Quel caro don Michele è sempre lui! ma guardi che combinazione! Garofani è andato a Borghignolo. Se avesse potuto immaginarsi una così bella visita....» e si volgeva agli altri, quasi a richiederli del loro consenso «non si sarebbe mosso di certo. Glielo avevo detto io di mandar qualcuno! Ma signor no! Questi benedetti uomini sono tutti ostinati.... ad eccezione, voglio dire, di don Michele, non è vero?» I due o tre uomini presenti fecero un sorriso di adesione e di rassegnazione; il signor Mosè però rimase immobile. «Bel gusto l’andare a Borghignolo!» continuava la signora Giuseppina «un paese di mascalzoni e malcreati. Non lo dico per me, perchè io gli ho sempre lasciati cuocere nel loro brodo, e non avrei nulla a dire. Ma lo dico per tant’altri a cui furono fatti dei tiri da villani. Eppure, il mio Garofani ne andava pazzo! Adesso però l’ha capita; a Borghignolo metterà la filanda, e per noi acquisteremo una bella casa in riva al lago.... Non si può immaginare quanto appetito mi dia il moto della barca!.... come dicevo, Garofani ha voluto andare a Borghignolo, perchè bisogna sapere che noi ci tenevamo un agente, di quelli proprio co’ fiocchi; ma, probabilmente per invidia, quei villani del paese gliene fecero tante che, perduta la pazienza, il poveruomo volle andarsene ad ogni costo.» Gli astanti fecero un atto di sorpresa e di dispiacere. La signora Giuseppina mi lanciò un’occhiata d’intelligenza, per farmi capire che a quattr’occhi ne avremmo discorso diversamente, ma che intanto era bene dir così. Il signor Mosè, che forse era a parte del secreto, con un contegno ch’esprimeva una gran prudenza, rimaneva immobile più che mai. «Lei dunque ha fatto un gran viaggio!» presi a dir io, vedendo che c’era bisogno di mutar discorso. «Volevamo farlo» rispose la signora Giuseppina; «Si cominciò anzi dall’andare a Genova e a Nizza. Ma poi nacquero delle circostanze.... degli affari.... e Garofani dovette ritornare.» «Caspita! però....» soggiunse una delle signore, che fino allora aveva taciuto, «l’andare a Nizza e anche a Genova non è poco!» «Si voleva andare a Napoli, e fors’anche a Parigi, perchè mia figlia ama tanto la lingua francese...., ma poi, come dicevo.... sono sopravvenute certe cose.... insomma adesso chi sa quando ci si andrà.» «Anche Nizza però, a quanto si sente, per chi ama la lingua francese....» osservò un’altra, a cui passava la soggezione. «Altro che il francese» saltò su la signora Giuseppina «non si ferman lì! Bisogna sentire: chi parla coi denti stretti, chi parla come se avesse piena la bocca.... insomma a Nizza si sentono tanti linguaggi che la pare l’arca di Noè!» Voleva dire la torre di Babele. Qui ci fu una esclamazione generale, e poi una pausa, di cui parecchi approfittarono per rizzarsi, salutare svisceratamente la padrona di casa, e andarsene. «E la signora Adelina?» ripresi a dire «la sua bella figliola?... che nuove me ne dà?... Era il suo primo viaggio, se non isbaglio. Mi immagino....» «Mi immaginavo anch’io» continuò la signora Giuseppina, interrompendomi «ma poi.... basta così. Il medico s’era incaponito che si avesse a fare questo viaggio.... non già che mia figlia avesse bisogno del medico, perchè anzi i suoi piccoli incomodi provengono di solito dalla troppa salute: ma chi diceva che Adelina non aveva più parole, ch’era sempre sopra pensiero, ch’era pallida; chi ne diceva una, chi ne diceva un’altra; insomma tutti volevano metterci il naso. Allora Garofani ha perduto la pazienza. Ehi ci vuol altro dicevo io, la gente parla perchè ha la bocca. Anch’io da ragazza ne sentivo delle baie!» «La sua figliola studia troppo! ecco quello che ho sempre detto io» osservò uno de’ rimasti. «Oh questo poi sì! Mia figliola aveva ormai tutti i professori della città. E che professori! C’era bene chi mi diceva di prendere de’ professori di minore spesa che avrebbero spezzato meno gli orecchi ad Adelina; ma tant’è! io sono fatta così; e quando nelle cose mi ci metto, non le posso fare che in grande. Bisogna però dire che tutti questi gran professori, e tutti questi gran libri finissero col farle male. Cioè, male no, perchè, come dicevo, mia figlia della salute ne ha da vendere.... ma insomma le confusero la testa. Siamo partiti; abbiam fatto proprio un bel viaggio.... ma ci voleva altro! Basta, a questo mondo bisogna davvero aspettarsene d’ogni risma!» «Sicchè sua figlia sarà ritornata tutta in fiore!» soggiunse uno di questi ignoti del circolo, non so se per semplicità, o per dare spago alla signora Giuseppina. Ma in quel mentre il signor Mosè tirò una presa di tabacco, e la signora Giuseppina, voltando subito il discorso, mi chiese della mia salute, giacchè si discorreva di salute; poi passò a un raffreddore del Garofani, e a una tosse secca del suo primo marito, che essa aveva guarito col lichene. L’un dopo l’altro, i pochi rimasti se ne andarono, ad eccezione del signor Mosè. La signora Giuseppina ebbe un secondo assalto di tenerezza e di espansione per me. Fece nuove esclamazioni sulla bella improvvisata della mia visita, sull’onore che le facevo; mi fece promettere che mi lascerei vedere con frequenza, e mi fece capire che aveva molte cose a dirmi. Fors’anche bruciava della voglia di informarmi in un minuto di tutte le faccende di casa sua, ma la trattenne la presenza del signor Mosè, del quale parmi abbia una certa soggezione. Pensavo intanto a qualche complimentuccio da risponderle anch’io; ma essa aveva già mutato discorso, e s’era messa a farmi ammirare i mobili della sala, il dipinto della volta, il tappeto, la tappezzeria, tutta roba nuova appena messa in opera, d’invenzione d’un tale che sentivo nominare per la prima volta, e che la signora Giuseppina diceva suo amico e pittore; un pittore _straordinario_! Ammirai, ma stando in sulla vita, perchè la seggiola, al pari degli altri mobili, era così irta di spigoli che l’appoggiarsi alla spalliera m’avrebbe fatto veder le stelle. La signora Giuseppina, non contenta ancora, mi volle condurre di stanza in stanza e farmi ammirare tutto il lusso della casa e le invenzioni del pittore. Vidi una camera da letto in istile dell’Alhambra, e che poteva essere un salotto da caffè. La signora Giuseppina si affrettò a dirmi che non ci dormiva, perchè sarebbe stato proprio un peccato. Presso c’era uno stanzino gotico per la toeletta; ma la catinella, lo specchio e tutta la minuta suppellettile erano disposte in modo da volerci il collo della giraffa per servirsene. Ovunque fosse rimasta disponibile una spanna di muro, il pittore ci aveva prodigata l’arte sua. Si vedevano alla rinfusa pere, mele, teste di filosofi, cocomeri, uccelli che parevano fiori, fiori che parevano sassi, e una prodigiosa famiglia di puttini da cui si dipartivano braccia e gambe con la mirabile irregolarità dei rami d’un albero. Quei puttini avevano le guance rosse come brace: se era per la vergogna d’essere veduti, avevano ben ragione! Quante cose poi non rividi, di quelle che erano state del povero Giandomenico! Mi sentivo stringere il cuore, e il dispetto mi faceva già velo agli occhi; ma, rivolgendo la faccia, dicevo a me stesso: «abbi pazienza.» Quei quadri lunghi e stretti su cui erano le figure severe e annerite dei vecchi di Giandomenico, che avevo sempre veduti appesi al muro dell’atrio, o d’un salotto a terreno del castello, li rividi l’un dopo l’altro nelle stanze della signora Giuseppina. Il pittore _straordinario_ aveva dipinto su tutti uno stemma con un garofano nel mezzo, e al posto del vecchio nome del casato aveva scritto _Garophanus_. Spinsi il mio eroismo fino a proferire delle parole di ammirazione per tutto quello che vedevo via via. La signora Giuseppina se ne compiaceva moltissimo, ma lasciava travedere di tanto in tanto una certa inquietudine la quale voleva dire, per chi la conosce un po’, che aveva una gran volontà di raccontarmi qualcosa. Più d’una volta aveva mandato qualche lungo sospiro, e aveva detto a mezza voce: «Anche in mezzo a tutta questa bella roba, chi lo direbbe? ho anch’io i miei fastidi!... Ma, la è proprio così!... Bisognerebbe non pensarci!...» Io fingevo di non capire, per quanto sentissi crescere in me l’inquietudine. Ci fu un momento in cui la signora Giuseppina mi si piantò dinanzi in aria proprio di volermi dire qualcosa; ma eravamo già di ritorno, e sentimmo nella sala vicina un grande sternuto del signor Mosè. La signora Giuseppina non trovò più la parola, e rientrammo nella sala. Bisognerà dunque che mi faccia amico anche del signor Mosè. Dopo quattro chiacchiere di commiato, presi il mio cappello, promisi di gran cuore che sarei ritornato prestissimo, e di gran cuore accettai anche dal signor Mosè una presa di tabacco, che sprigionai subito dalle dita, lasciando cadere la polvere a terra, appena uscito dall’anticamera. * * * 17 marzo 1866. La signora Giuseppina ieri mi mandò a dire che, dolentissima ch’io non l’avessi trovata in casa il giorno prima, mi aspettava per quella sera stessa, e me ne faceva viva istanza, tanto più che ci doveva venire un amico di casa a sonare il fagotto. Misericordia! Ci andai un pochino sul tardi, pensando che gli ultimi pezzi di musica sarebbero stati un po’ meno lunghi dei primi. Ho troppa stima del fagotto, pensai tra me, per credere che voglia fare eccezione alle migliori regole. Bisogna dire che giungessi proprio l’ultimo, perchè non trovai anima viva sulle scale, e neppure nelle prime stanze d’ingresso. I servitori forse avevano già incominciato a servire le paste in sala, o a mangiarne gli avanzi in cucina. Sentendo a un tratto la voce arrabbiata d’un fagotto di cattivo umore, stetti in forse un momento, pensando se dovevo entrar subito od aspettare che la sonata finisse, e che il fagotto si fosse calmato, per non disturbare in un momento solenne la signora Giuseppina e i suoi convitati. Ero tra il sì e il no, quando a un tratto vidi aprirsi un uscio, non quello della sala, ed uscirne in fretta l’Adelina. Adelina, che il quel momento non si aspettava di imbattersi in alcuno, mandò un grido, subito represso, e fece atto di fuggire. Ma io, chiamandola per nome, la trattenni. Tutto ciò fu l’affare d’un momento. Le presi la mano; essa strinse vivamente la mia. Le dissi alcune parole, le feci qualche domanda, ed essa chinò gli occhi e non rispose. Non era più la vispa fanciulla di Borghignolo; era pallidissima, e in quel momento mi pareva fortemente commossa. Non ho mai potuto avvezzarmi a vedere la gente commossa od afflitta, bell’e vecchio come sono, e dopo averne veduta tanta! Mi si turbano le idee; in un attimo non capisco più da qual parte vengano i guai di cui si tratta, e mi par quasi d’averne la colpa io. Avrei dovuto far cuore all’Adelina, interrogarla, farla parlare; ma mi sentivo già imbarazzato io pure. Pensai al fare misterioso della signora Giuseppina; pensai che ci potesse essere qualche disgrazia; pensai che anche questa volta potevo essere giunto troppo tardi, e non trovai più una parola. Intanto un grande strepito e un gran battimano improvvisamente annunziarono che il fagotto aveva finito; si aprì l’uscio della sala; Adelina ritirò la sua mano che teneva stretta nelle mie, e fuggì. Io entrai in sala. Fortunatamente gli uditori del fagotto avevano tal voglia di muover le gambe, scacciare il sonno, e respirare, che potei rimanere per un po’ non veduto tra gli astanti, e aver tempo di ricompormi, prima di cadere nelle unghie della signora Giuseppina. Alla fine mi feci animo, mi feci largo, e, con inchini a dritta e a sinistra, incominciai ufficialmente il mio arrivo. La signora Giuseppina in un momento mi presentò a una dozzina di persone; mi fece bere tre bicchieri di acque di diverso colore; mi fece conoscere il sonatore del fagotto, e m’offrì non so quante fettine di torta, pan di Spagna, e pasticcini. Mi disse che per quelli di bon tono aveva fatto fare il _thè_, ma che per gli amici sinceri teneva in pronto un famoso bicchierino di _malaga vecchione_, proprio di quello che piaceva tanto a Baldassarre. Se la signora Giuseppina non se ne fosse scordata un minuto dopo, in quanto a me avrei bevuto e _thè_ e malaga tutto insieme, senza opporle la più piccola resistenza. Feci anche un saluto tenerissimo al signor Mosè, e gli partecipai tutta la mia soddisfazione di trovarmi in una così bella società. Il signor Mosè, che in quella sera aveva il collo e il mento ravvolti in una cravatta ancor più alta e doviziosa del solito, mi rispose con un risolino dì approvazione e di compiacenza, ma senza aprir bocca, s’intende. È stato appunto a furia di tacere per trenta o quarant’anni di seguito, che il signor Mosè si è acquistato una così gran fama, tra i pochi che hanno la fortuna di conoscerlo. La signora Giuseppina intanto, tutta rossa e affaccendata, correva di qua e di là, senza lasciar pace a nessuno. La sua vittima più compassionevole per quella sera fu quell’infelice del fagotto, il quale, per quanto fosse sfiatato, dovette ripigliare le sue _variazioni_, nelle quali però la noia di chi le sentiva non variava mai. Contro le mie speranze, anche quella sonata fu lunghissima, talchè alla fine parecchi s’erano addormentati, e altri facevano conversazione sottovoce col vicino. Seguendo anch’io questo esempio, avevo di tanto in tanto scambiata qualche parola colla signora Giuseppina, presso la quale ero seduto. «Insomma, se lo lasci dire, signora Giuseppina, non c’è nessuno che possa competere con lei nello spirito, nel brio e nel saper sempre dire a tutti una parolina proprio di quelle...» «Oh, se mi avesse conosciuta in altri tempi.... allora sì!» «Possibile? Ma non potrà dirmi che in altri tempi ella avesse l’animo più contento! La signora Giuseppina ha tutte le fortune. Gran bella cosa il non aver pensieri!...» «Non ho pensieri per il capo io?... Io? Questa volta don Michele la dice grossa! Oh se sapesse!...» «Eh lo so benissimo! I guai di Borghignolo.... il Buccelli che se ne è andato.... suo marito di cattivo umore.... Adelina....» «Adelina? Dica.... dica!» «Adelina che stasera ha il mal di capo....» «Eh, c’è ben altro!» «Adelina che s’è fatta un po’ malinconica, che dimagra, che da qualche tempo non ha troppa salute! Lo so; ma le son cose passeggiere, cose da nulla, inezie.» «Se le fossero tutte qui....!» «Se c’è altro, può aver ragione lei. Ma badi a non ingannarsi. Io non credo se non vedo! questa è la mia massima.» «Ne ho le prove!» «Le prove di che?» «Le prove.... insomma, so ben io! Ma a lei non posso tacer niente.... Le dirò.... oh se non ci fosse qui tutta questa gente! le domanderei anche un parere.» «Verrò domattina.» «Forse non siamo più in tempo!...» »Ma dunque c’è qualcosa di serio?» «Glielo dicevo io! Altro che serio! Se domani arriva una certa lettera, Adelina parte.» «E dove va?» «L’accompagna il signor Mosè, perchè nessuno deve saper niente....» «Ma parte per dove? Ma che cosa è accaduto?...» «Oh se sapesse!... se sapesse!» «Delle cose da dirle ne ho forse anch’io di molte!... E se intanto Adelina non partisse....» «Caspita! È un consiglio del signor Mosè!... Ma anche lei ha delle cose da dirmi? Per amor del cielo!... Dica, dica....» Il fagotto aveva finito. Tutti applaudono, tutti si risvegliano, e poi, in mezzo a una gran confusione di saluti, di scialli, di complimenti, di mantiglie, signore e signori si congedarono tutti; ed io pure me ne dovetti andare con l’animo agitato, e con la paura d’essere anche questa volta giunto troppo tardi. * * * 18 marzo 1866. Ero ancora a letto, perchè il levarmi di buon mattino fu sempre una delle molte aspirazioni disgraziate della mia esistenza, quando un servitore della signora Giuseppina venne a pregarmi che andassi subito, subito, in casa Garofani. Mi alzai in fretta e in furia, e feci la strada di corsa, spinto dall’ansietà in cui ero dopo le parole della signora Giuseppina, e dal timore che fosse sopraggiunto qualcosa di peggio ancora. Ma di nuovo e di peggio non era avvenuto nulla. La signora Giuseppina, temendo, come ella mi disse, che da un momento all’altro le potessero venire le convulsioni, aveva voluto sdebitarsi della promessa fattami, mentre capiva di avere ancora la testa seco. Stetti dunque ad ascoltarla con attenzione ansiosa, senza dir parola, lasciandola spaziare a suo piacere in digressioni e congetture d’ogni sorta; lasciandola trasecolare e spassionarsi in tutto quello che c’era di vero o di falso. Per quanto me ne aspettassi molte, le cose che sentii mi fecero colpo e mi rivoltarono, perchè le bricconate, ancorchè non si possa a meno di non aspettarsele dai bricconi, pure, quando arrivano, hanno sempre il loro tanto d’improvviso. La signora Giuseppina dunque mi narrò come il Buccelli avesse per tempo aperti gli occhi a lei e a suo marito su tutta la trama che c’era in Borghignolo contro di loro. Lo scopo della trama era di non lasciare metter radice al signor Garofani in Borghignolo, perchè, se caso mai ne fosse diventato sindaco, gli straordinari suoi talenti avrebbero avuto un disopra tale, avrebbero fatto un tal colpo, che presto avrebbe ecclissato e messi a dormire tutti quelli di Borghignolo, quelli dei paesi vicini, i ministri, e fors’anche il direttore del _Vero Italiano_. I fili misteriosi di questa trama, che partivano certamente dal ministero, facevano capo tutti in mano di Giandomenico. Il Buccelli, zelantissimo, aveva sulle prime messa la signora Giuseppina in diffidenza anche di me, che potevo essere un agente della trama. Ma la mia interlocutrice si affrettava a dirmi che, mentre tutto il resto era pur troppo vero, non sospettò mai ch’io c’entrassi, e che mi rendeva questa giustizia. Il Buccelli poi aveva le prove in mano che Giandomenico aveva ricevute dal Governo somme spropositate, e che mentre si fingeva fallito in Borghignolo, comperava terre a tutto potere in America, dove aveva spedito un tale alcuni anni prima. Con queste somme, Giandomenico aveva mandata a monte l’elezione del Garofani, e si preparava a fare qualche altro colpo, per diventare lui il sindaco, tener lontano il Garofani e rimaner padrone di Borghignolo. «Il Buccelli lo avea ben lui suggerito il modo di rimandare i pifferi di montagna» diceva la signora Giuseppina, ma il Garofani pur mettendocisi, era sulle prime andato troppo adagio, e aveva perduto tempo. Il Buccelli voleva che si fossero in fretta e in furia comperati tutti i diritti e le ragioni dei creditori di Giandomenico, e lo si fosse fatto sfrattare senza lasciargli il tempo di aggiungere nuovi fili alla trama. La cosa sarebbe riuscita a maraviglia, come s’è veduto dopo, perchè Giandomenico, non potendo lasciarsi scorgere d’avere i denari del Governo, bisognava che si rassegnasse a passare per fallito, e ad andarsene in fretta, tanto più che all’occorrenza si poteva anche farlo mettere in prigione. «Ma si era perduto tempo;» continuava la signora Giuseppina «quel caro signor conte aveva fatto il suo primo colpo, e il Garofani indispettito aveva piantati, lasciandoli cuocere nel loro brodo, quegli imbecilloni di Borghignolo. Il Buccelli però non voleva che la finisse così, e faceva di tutto perchè Garofani ritornasse in paese. Ma il conte briccone, che teneva i fili di tutto, seppe anche questo, e, per gettare sui Garofani tanta vergogna e tanta infamia che non gli permettessero più di lasciarsi vedere in Borghignolo, ne inventò una proprio infernale!...» Qui temetti che la signora Giuseppina fosse giunta a quel tal punto delle convulsioni. Le feci fare una pausa; la confortai, e le dissi che anch’io le avrei narrato a suo tempo certe cose, che in mezzo ai suoi dispiaceri le avrebbero sollevato l’animo non poco. «Bisogna sapere» ripigliò la signora Giuseppina «che, or son due anni, quando per la prima volta si andò ad abitare la casa di Borghignolo comperata da poco, tra quei primi di cui facemmo conoscenza, ci fu un ragazzotto, che non era neanche il diavolo, figlio di quel rusticone aristocratico d’un Giandomenico il quale non si è lasciato mai vedere. Buona, e al di là di buona come fui sempre, è il mio difetto, me lo lasciavo venir per casa, lo conducevo sempre in compagnia questo tal ragazzotto, che si chiamava _Aldo_, non so perchè, e che è quell’uffizialelto dei bersaglieri che lei deve conoscere. Si sarebbe detto, a vederlo, che mi facesse la corte; ma, come lei può ben credere, io ne ridevo a crepapelle, come si fa di questi civettini teneri. Un bel giorno finalmente dovette partire: lo rividi più tardi qualche volta in città; poi ripartì di nuovo, e ormai non mi ricordavo più neanche che ci fosse al mondo: quando a un tratto venni a sapere tutta una trama indiavolata. La trama era questa, nientemeno.... oh! ne ho le prove in mano!... e mi dirà, don Michele, se non è il caso di perdere la testa! Ma, tornando indietro d’un passo, bisogna sapere che da qualche tempo io andavo osservando, e l’osservavano tutti, che l’Adelina di giorno in giorno perdeva il suo colorito, il buon umore, le parole.... diventava sparuta, non era più lei. Studia troppo! sarà innamorata! la colpa è dei romanzi! Chi ne diceva una, chi ne diceva un’altra: insomma la gente parlava. Fin qui non ci sarebbe stato gran male, perchè quando sento delle chiacchiere, io rispondo sempre con una gran massima, e dico che la gente parla perchè ha la bocca. Ma l’importante era che queste cose, tra me e me le pensavo e le vedevo anch’io; anzi qualche volta ne avevo fatto parola con Garofani. Garofani però, che è l’uomo della flemma, rispondeva: staremo a vedere; e col suo _staremo a vedere_ non vedeva niente, e tirava per le lunghe anche gli affari di Borghignolo, mentre il Buccelli.... oh! quello sì è un uomo! adesso gli appongono delle colpe, l’hanno fatto uscire dal paese; ma non creda un bel niente, don Michele! è tutta una trama anche questa contro noi.... lo vedrà tra poco!... perchè bisogna saperle tutte le cose!... Dunque dicevo che il Buccelli tempestava ogni giorno con Garofani, perchè facesse in fretta; mandasse gli ordini a dovere, non la tirasse più in lungo con quell’impostore aristocratico d’un conte, il quale intanto sott’acqua ce ne avrebbe fatta qualcuna delle sue. Che, se lo si fosse cacciato da Borghignolo per tempo, non si correva neanche il rischio che s’è corso!... Insomma, per venire alle corte, s’era tramato che l’uffizialetto innamorasse Adelina, mia figlia!... quello spiantatello! quel resticciolo!... Come abbia fatto, non lo so; ma già noi donne, quando siam ragazze, siamo tanto sciocche!... In somma, bisogna dire che ci sia un po’ riuscito. Adelina vorrebbe dire di no; ma s’imbarazza, e queste cose io le capisco in un batter d’occhio. Ma, tornando a quei due bei soggetti, appena quel caro conte ebbe fatto fagotto, ecco che capita in paese il signor contino. Si ferma alcuni giorni, prende le sue informazioni, poi se ne va. C’era però qualcuno che aveva tenuto gli occhi aperti, e nel quale aveva dato il naso, senza avvedersene, quel mariolo novellino. Il quale, facendo l’impostore, aveva pigliato sotto il braccio questo _qualcuno_, e dicendogli tante cose tenere sul conto mio e di mio marito, aveva cercato prima di sapere dove noi fossimo, e poi il quando e il dove ce ne saremmo ritornati. Ma l’altro, ch’era una volpe vecchia e fine, gliene diede a bere parecchie, e lo rimandò con l’aver sapute per giunta certe cose che gli premeva di sapere. Poi questo tale stette all’erta giorno e notte, e a furia d’astuzia, di pazienza, di talento finì a scoprire tutto e a capire di che cosa si trattava. Una bagattella! Cose che fanno arricciare i capelli solo a pensarci! Cose da non credersi! Insomma si trattava nientemeno, che di rapire mia figlia.... ah briganti!...» Non so se a questo punto facessi una smorfia di sorpresa, di incredulità o di dispetto, per quanto mi fossi prefisso di rimanere sino alla fine calmo e silenzioso. «E ne ho le prove!» riprese la signora Giuseppina, riscaldandosi sempre più. «So tutto, e le ho in mano io tutte le fila che quei bricconi avevano preparate! Ci si voleva coprire d’infamia! Noi! proprio noi!... I Garofani! quei Garofani contro i quali neanche le male lingue non hanno mai potuto dire un ette, nè quando si aveva il negozio, nè dopo! E sì che, solo da parte mia, ne ho rimandati parecchi dei soggettacci scornati! Ma ci si voleva buttare l’infamia addosso questa volta, perchè non mettessimo più piede in Borghignolo.... ah canaglia! non ce lo metterete più voi altri, adesso, il piede in Borghignolo, dove volevate rimanere i padroni, per farla soli da bascià, come a quei tempi d’una volta! Sono donna; ma se si vuol cozzare con me, so rompere le corna a chicchessia! Sedurre mia figlia!... o farla fuggire!... fare uno scandalo in casa Garofani? Ah sì?... Avanti, signor uffizialetto, avanti....» e la signora Giuseppina in attitudine di sfida, appoggiava i pugni serrati sui fianchi, appuntando le gomita. «Bisogna dire» riprese la signora Giuseppina dopo una pausa «che questi diavoli si fossero accorti che c’era chi sapeva tutto, e ce ne teneva informati. Supposero che fosse il Buccelli, ed era proprio lui. Ma per carità, don Michele, lei faccia sempre le viste di non saperlo. Glielo dico come se fossimo in confessione, perchè Garofani m’ha fatto giurare che non l’avrei mai detto a nessuno.... ma io la considero come un secondo signor Mosè! Detto fatto, si mette in piedi una combriccola, si fa nascere un baccano; poi siccome questi tali hanno anche il Governo dalla loro, si accusa il Buccelli, si fa avviare un processo, e lo si fa scappare. Eccoli sul trono. E noi? Noi non siamo più sicuri nè in casa, nè fuori; siamo in mano dei briganti! Cosa si fa? Ci siamo guardati in faccia per un giorno intero io e il Garofani, appena ci giunsero queste notizie. Finalmente mi venne una buona ispirazione, e dissi a mio marito: bisogna ritornare subito a Milano e domandare un parere al signor Mosè. Si ritornò a precipizio, e il signor Mosè disse subito che le cose avrebbero potuto finir bene, ma che potevano anche finir male: che ci consigliava di star a vedere, e intanto di mettere Adelina al sicuro, e di mandarla lontano presso una di lui sorella, monaca in un collegio di Orsoline, senza lasciar sapere ad anima viva dove sia. Come si fa?... Il signor Mosè l’ha detto e bisogna far così! Adelina è rassegnata, piange, e non vuol dir niente.... ma già io capisco che quell’uffizialelto lo ha per il capo!... Ora è quasi combinata ogni cosa, e domani aspetto un’ultima lettera della monaca. Dopo domani forse Adelina partirà col signor Mosè.... me ne scoppia il cuore a pensarci.... ma come si fa? Intanto Garofani ha voluto andare a Borghignolo, nè ci fu modo di trattenerlo. Adesso sono sulle spine anche per lui. Capisco bene che non si possa lasciare tutto il fatto nostro in mano di nessuno, ora che il Buccelli non è più in paese; ma _prima c’è la pelle, e poi la roba!_ come diceva il mio primo marito, il povero Baldassarre, ed io non mi fiderei un bel niente di metter piede tra quella canaglia. Il Garofani invece è tutto spirito, ha un coraggio da leone. Ha portato con se due pistole cariche, e m’ha detto che, appena giunto, andava diviato dai carabinieri. Ora staremo a vedere. Ma intanto.... che ne dice, don Michele? Che disgrazia! Dica lei, sono o non sono da compiangere? e doveva proprio succedere in casa Garofani un romanzo di questa fatta? A lei ho detto tutto, ma per carità non lo sospetti neanche l’aria! Che succederà?... che succederà mai? Oh, mi dia un suo parere! Povera Giuseppina!...» Il rispondere subito alla signora Giuseppina, appunto perchè era la signora Giuseppina, era cosa più difficile di quello che essa si pensasse. Mi trovavo sopraffatto, come non lo ero stato mai. Capivo ch’era necessario pigliar tempo, parlar poco, non dire tutto quello che ne pensavo. Capivo che la strada diritta non era questa volta la più corta, ma lì su due piedi non sapevo poi bene quale, tra le vie fuor di mano, sarebbe stata la migliore. Scelsi per il momento quella che aveva già dato tanto credito al signor Mosè, e tacqui. Ma la signora Giuseppina, ricordandosi una mia parola, venne subito alla riscossa per sapere quali cose avessi io a dire, quale fosse il mio secreto. «Presto, prestissimo forse» le risposi io allora «la potrò informare anch’io di molte altre cose, che vengono tutte a proposito di questa spiacentissima storia. Oggi non lo posso. Aspetto io pure le mie prove, o, dirò meglio, alcune ultime prove. Ma per ora non le posso dire di più; per ora non ho a chiederle che un favore.... un favore grandissimo da cui può dipendere....» Non mi fu possibile di finire: la signora Giuseppina esclamò: «Anche lei ha delle prove! Oh che bricconi! Un favore? Ma dica, dica!» e poi non mi lasciava dire. Finalmente, a furia di pazienza, la condussi a due conclusioni. La prima fu che Adelina non sarebbe partita senza ch’io lo sapessi; e la seconda ch’io avrei vedute le famose prove che essa aveva in mano. Nè le aspettai molto, perchè la signora Giuseppina, che ne moriva di voglia, mi fece subito veder tutto. Ripigliai fiato, vedendo che il tutto consisteva in alcune lettere del Buccelli bugiarde e goffe, architettate con una certa malizia, ma senza alcuna di quelle prove apparenti che tante volte, per disgrazia, fanno parere corpi le ombre. Diceva bensì il Buccelli che, tra le molte cose che gli avevano fatto conoscere tutto il filo dell’intrigo, c’erano delle lettere d’Aldo, cadutegli in mano per combinazione; ma poi queste lettere non le aveva mandate. Briccone! pensavo tra me: ecco dove sono andate quelle lettere che io avevo aspettate con tanta angoscia. L’avessi sospettato prima!... e frattanto mi passava per la mente il Borsa, il quale è decisamente un grand’uomo. La signora Giuseppina con tanto d’occhi aveva cercato di seguire tutti i movimenti della mia faccia mentre leggevo le lettere del Buccelli, e mi parve che rimanesse alquanto sorpresa e scontenta nel vedermi più sereno di prima. Mi diede un nuovo assalto perchè le confidassi subito la mia parte di secreto, ma dovette tenersi tutta la sua curiosità, ancorchè gliel’avessi centuplicata. Mi feci ripetere le sue promesse, e le lasciai intravvedere cose nuove e vicine, sebbene in verità non sapessi in quel momento, e non mi sappia ancora mentre scrivo, quello che ne possa seguire e quello che io deva fare. Così lasciai la signora Giuseppina, la quale intanto s’era fatto portare un bicchierino di malaga, di quello di Baldassarre, s’intende, con un biscotto, per prevenire le convulsioni che dovevano capitare da un momento all’altro, se pure era tale la loro intenzione. * * * 19 maggio 1866. Dopo l’abboccamento d’ieri con la signora Giuseppina, me ne stetti un pezzo nella mia stanza col capo tra le mani, per vedere di spremerne qualcosa, chiamando a rassegna e riordinando le idee vecchie del mio piano, e le nuove che mi facevano ressa. Da cosa nasce cosa; e quando s’ha per le mani una matassa imbrogliata, la meglio è di pigliare il primo bandolo che capita, il quale può condurre a ritrovare il vero, se non lo è esso medesimo. Tra i fili che mandano fuori un capo, c’è il signor Mosè, il quale potrebbe essere benissimo un bandolo anch’esso. In questa supposizione, stamani uscii per tempo, e andai addirittura dal signor Mosè. Ma, che vado a fare? che vado a dirgli? pensavo tra me per istrada; e rallentavo il passo, perchè pure avevo bisogno di trovare il pretesto. Il signor Mosè era un antico amico di Baldassarre, primo marito della signora Giuseppina. Proprietario d’una piccola casa in città, che gli rendeva quel tanto necessario a vivere quieto e benino, se n’era accontentato per tempo, e non era andato a cercare nè impiego, nè moglie, nè fastidi. Siccome aveva sempre usato fare le sue provviste da sè, così era entrato in amicizia fin da quarant’anni fa con Baldassarre, nella cui bottega aveva poi passata la maggior parte della sua vita, discorrendo, la mattina, degli avventori e del vicinato, e leggendo, la sera, la gazzetta. Baldassarre gli faceva tutte le sue confidenze, ed aveva sempre riservate per il sig. Mosè le primizie dei suoi coloniali e dei suoi affetti, avendogli confidato, tra l’altre cose, il suo amore per la Giuseppina. Il signor Mosè poi aveva veduto nascere più tardi un altro amore, quello della Giuseppina per Garofani, il ministro del negozio. E siccome egli era grande amico e ammiratore di tutti e tre, così è probabile che da quel tempo egli sia entrato in quella via di raccoglimento e di silenzio, che a poco a poco gli accrebbe di tanto la fama d’uomo di proposito e di consiglio. È così che nella mente ho potuto compormi il signor Mosè, da quel poco che raccolsi qua e là nei discorsi della signora Giuseppina. Ora riandando queste cose, nel mandare innanzi lentamente un piede dopo l’altro, mi ricordai anche che il signor Mosè era famoso per fare i rosoli e le conserve. Avrei voluto che me ne fosse venuta in mente una migliore; ma tant’è, al momento non ne seppi raccapezzare altra. Ero già vicino alla sua casa: bisognava decidersi, e mi decisi per la conserva di lampone. La maraviglia del signor Mosè al primo vedermi fu grande; ma appena gliene dissi il motivo, cessò immediatamente. Avevo colpito giusto. Mi accorsi che il signor Mosè, a proposito di conserve, era consultatissimo, e che su questo argomento, contro il suo solito, parlava molto. «Piano! piano!» prese subito a dire il signor Mosè: «A lei non voglio fare questo torto, ma c’è della gente, e bisogna premetterlo, che confonde le conserve con gli altri preparati che più specialmente si chiamano _composte_, per tacere altri nomi che s’incontrano nel campo vastissimo delle diverse maniere con cui si preparano le frutte al sciloppo. Oh, di questi tali me ne capitarono parecchi! Ma io la prendo in parola sulle conserve, e per il momento le concedo di considerarle in sè, isolatamente, e non nei loro rapporti. Ma sa lei in quante subquestioni si divide la questione generale delle conserve? Ma restringiamo pure il campo fin che si vuole, teniamoci entro i confini angustissimi della sola conserva di lampone; non creda però che sui due piedi io gliene possa dare neanche una prima idea vaga, elementare. Perocchè, al primo passo che noi facciamo in una conserva qualsiasi, noi ci troviamo subito dinanzi alla questione della maturanza del frutto, e del modo di spremerne il sugo. Si figuri! ma andiamo innanzi. Eccoci, nientemeno, che in mezzo alla fermentazione! Una bagattella! Quindi la qualità del vaso, il locale, la temperatura, per non dire di tutto il resto. È nella fermentazione, signori miei, che la conserva riceve le prime impronte d’un avvenire dolce e fragrante, o contrae sciaguratamente i principii acetici d’una mala riuscita! Ma andiamo innanzi ancora: la conserva entra in una bottiglia a compiervi gli stadii ordinari della sua esistenza. Abbiamo subito dunque la questione delle bottiglie, e quella dei tappi, gravissime! per non dire di altre minori. Ma eccoci subito a una nuova bagattella, voglio dire la conservazione della conserva, sottoponendo a un’alta temperatura il vaso che la racchiude, in ragione della qualità dei sughi! Non le dico altro!...» * * * Chiudo per oggi, e forse per un pezzo, questo mio scartafaccio. Una lettera del fattore è venuta a farmi lasciar da parte il signor Mosè, e a farmi rifare la valigia. Domani sarò a Borghignolo. Ho voluto di nuovo vedere la signora Giuseppina e farle rinnovare le sue promesse. Mandai subito un telegramma ad Aldo. Eccomi da capo col diavolo addosso! Giungerò in tempo? (_Lettera del fattore_) «Signor padrone colendissimo! »Le mando Tonio per espresso unitamente a questa mia, per dirle che è venuto da me poco fa Bortolo, detto Bortolotto, famiglio del signor conte Giandomenico, il quale mi disse che vuole parlare subito con vostra signoria per una disgrazia, la quale sarebbe che il suo padrone è in vicinanza al paese, ma sta molto male. Con che ho fatto subito dar aria alle stanze e preparare il letto. Aspettando i suoi ordini, altro non avendo a dire, passo a riverirla con tutto il rispetto. E sono »Obbligatis. e Devotis. »GIACOMO.» * * * 5 aprile 1866. Vorrei che il cielo fosse oggi malinconico e grigio, l’aria cruda, la natura silenziosa e i fumaioli delle case mi dicessero che la gente è rinchiusa e accovacciata presso i focolari. Ma il cielo è splendido come di maggio; un insolito tepore mette tutti in festa, i contadini si spandono per le campagne, le donne si affaccendano negli orticelli, le galline in tutta furia beccano quel po’ che trovano per le strade, gli uccelletti a stormo, con un pigolio di cui riempiono l’aria, par che si raccontino tutti in una volta le vicende dell’invernata; i fiorellini fanno la loro prima comparsa sulla china del poggio e tra il bel verde dei prati. Possa questa scena lieta e ridente essere in armonia con l’animo di altri, se non può esserlo col mio. Non mi devo lamentare di questo bel cielo, che segna forse per altri uno de’ bei giorni della vita;... in quanto a me lo fuggo, e mi rinchiudo nella mia stanza. Il meglio per oggi è che riapra il quadernuccio delle mie confidenze, e vi deponga tutta la malinconica storia di questi quindici giorni. Cercherò di snebbiarla, perchè l’ho in mente ancora come se mi svegliassi in questo punto dopo un sogno affannoso. La mattina che partii per Borghignolo, a due miglia dal paese, trovai il mio fattore e il famiglio di Giandomenico che, un passo dopo l’altro, mi venivano incontro. Il famiglio mi accolse con un gesto e con una espressione della faccia che credetti volesse dirmi addirittura che il padrone era morto. Ma il mio fattore mi tranquillò; e quel buon uomo di Bortolo, che aveva gli occhi rossi e la voce tremante, appena lo potè, prese a rispondere alle domande che io gli avevo fatte tutte d’un fiato. Prese le mosse dal giorno in cui Giandomenico era improvvisamente scomparso. Il famiglio diceva di aver ben egli fatto tutto il possibile perchè il suo padrone domandasse a me un parere, o scrivesse una lettera a suo figlio, o andasse a cercar conto di qualche suo parente. Fu tutto inutile; Giandomenico rispondeva che se ne sarebbe andato tutto solo a nascondersi per i boschi, ed a morirvi in qualche buca, sicchè nessuno avrebbe mai saputo più nulla di lui. Quando gli si venne a dire che il giorno appresso si metteva all’incanto tutta la roba sua, aspettò che fosse calata la notte, che non ci fosse in giro anima viva, e senza pigliarsi neanche il tabarro, uscì, ed a gran passi s’avviò per un sentiero abbandonato della collina. Bortolo, che l’aveva veduto, gli era corso dietro. Qui il buon uomo, con gli occhi che gli si facevano gonfi ad ogni parola, mi raccontava come s’era buttato al collo del suo padrone, come avessero pianto insieme per un pezzo senza poter pronunziare una parola, e come più tardi, dopo molte preghiere, lo avesse indotto a seguirlo prima che l’alba li sorprendesse, e tutti e due fossero andati a riparare presso la Marta, una sorella del famiglio, vedova, che viveva in una sua casupola, presso un ceppo di cascine fuor di mano, a cinque miglia da Borghignolo. «Nella casuccia della Marta» riprese Bortolo dopo una pausa «c’è la cucina, uno stanzino, un po’ di fenile per metterci lo strame, e lo stabbiolo delle pecore e del maiale. Con un saccone e uno stramazzo Marta andò a dormire in cucina; diede lo stanzino, dove c’è ancora il letto lasciatole dal suo pover uomo, al padrone, ed io mi acconciai sul fenile. Ma ce ne vollero delle preghiere mie e della sorella per trattenere il povero signor conte, al quale di tanto in tanto pigliava la malinconia, e voleva fuggire, perchè diceva che ci rubava il pane. Gran che! Beveva un po’ di latte, mandava giù un boccone, poi non gliene passavano più; gli facevo cuocere qualche bel pezzo d’agnello che rubava gli occhi; ma sì, era tutt’uno, egli non ci guardava neanche. Una volta mi disse di mandare a Borghignolo qualcuno, senza dire dov’egli fosse, per vedere se alla posta c’era qualche lettera per lui. Mandai un ragazzotto, il quale ritornò alla sera con niente. Il povero padrone si fece ancora più cupo, e quella volta andò a dormire senza bere neanche il latte. Mandai quel ragazzotto a Borghignolo qualche volta ancora, senza neppur dirlo al padrone, ma delle lettere non ce n’erano mai. Intanto passa un mese, ne passano due, ne passano tre, e il signor conte diventava ogni giorno più malinconico, più taciturno, più macilento. Io cercavo di consolarlo e di dargli qualche parere alla buona. IL mio sentimento era di andare a Borghignolo, e di parlare con lei o col signor curato che, se vuole, sale in zucca ne ha. Ma che! Guai aprir bocca su questo argomento! il padrone saltava su a dire che, se anima viva lo venisse a cercare, egli fuggiva via subito. Nè gli ho mai potuto far capire ragione, neanche quando, vedendolo di tanto in tanto coi brividi della febbre indosso, lo pregavo di lasciarmi andare a prendere il medico o, meglio ancora, il semplicista. Oh sì! Guai! non mi lasciava aprir bocca. Così si tirò innanzi; ma tre giorni fa, gli pigliò un febbrone che gli tolse il sentimento, e temetti me lo mandasse al Creatore. Allora corsi subito a Borghignolo per il signor curato, intanto che Marta bruciava l’ulivo benedetto, perchè potessimo giungere in tempo. Il curato condusse il dottore; pensi come rimanessero a vedere il padrone in casa della Marta! Ma poi cominciarono tutti e due a crollare il capo, e così fanno da tre giorni. Si pensò di far venire il signor Aldo, ma come si fa? Allora mi è venuta l’ispirazione di parlarne con Giacomo, perchè lo dicesse a lei, al quale, si sa, sta bene la penna in mano; e siccome poi lei legge le gazzette, forse saprà dove sia il nostro signor Aldo. Povero figliolo!... quando saprà....» Lasciato il biroccio sulla strada, mentre Bortolo mi faceva la sua narrazione, con lui e col fattore pigliato un sentiero della collina, mi ero avviato, con l’anima piena d’angoscia, verso il tugurio ove giaceva il mio povero amico. Lo vidi in quel miserabile giaciglio, che non mi uscirà più dalla memoria; lo chiamai per nome, ma per tutto quel primo giorno e per vari altri non mi riconobbe, e non gli udii pronunziare che qualche tronca parola, ora di spavento, ora di speranza. Avrei voluto farlo subito trasportare in casa mia, ma la distanza era troppa, la malattia troppo grave, e il medico mi disse chiaro che non c’era neppur da pensarci. In pochi giorni si sparse la voce che il conte Giandomenico era stato ritrovato morente in casa della Marta, e presto in Borghignolo non si parlò più d’altro. Come avviene, ognuno ripeteva quello che aveva udito, e ci metteva qualche cosa del proprio per non parere di saperne meno degli altri. Così giravano di quelle storie stranissime, e che sembrano inconcepibili, quando non si pensa che non furono inventate da uno solo. E siccome anche nel pubblico di Borghignolo l’odio si avvicenda con l’amore, dopo quei dati periodi di tempo, la cui misura è sfuggita fin qui ai calcoli della scienza, così in tutti era scoppiato d’improvviso uno straordinario affetto per Giandomenico. Qualche raggio di questo affetto cadeva di riverbero anche su me, che ero conosciuto per amicissimo suo, e venuto questa volta in paese apposta per lui. Trovai in generale un’accoglienza migliore di prima; vidi levato qualche cappello, che di solito, al mio comparire, s’abbassava sulla fronte un dito di più; vidi perfino metter piede in casa mia qualcuno di quelli che sino allora non si sarebbero arrischiati neanche di passarci dinanzi, per il timore di compromettersi.... in che? non lo so, e non lo sapranno neppur essi. Ora mi si fa largo, mi si fa buona cera. Tanto meglio. Sono anch’io nel mio quarto di luna favorevole, ma non ci bado molto, perchè ho imparato a andarmene diritto per la mia strada, senza domandarmi se la luna mi guarda con tutta la sua faccia sorridente, o se mi volta le corna. Una sera, nel ritornare dalla capanna della Marta, m’incontrai nel signor Garofani, il quale era venuto a cercare di me per sapere le nuove di Giandomenico. Anche in lui era succeduta una gran rivoluzione. In otto giorni di studio, egli non era riuscito, con le polizze e gli scartafacci del Buccelli, a trovare qualche nesso tra il _dare_ e l’_avere_. Aveva la testa rintontita di rivelazioni e di accuse che gli venivano facendo contro il Buccelli quegli stessi, che fino allora lo avevano levato alle stelle, e non ne capiva più nulla. Anche in tutta quella sequela di raggiri coi quali il Buccelli era riuscito a spossessare di tutto Giandomenico, c’erano, a quanto se ne diceva, cose così impasticciate, da suscitare liti senza fine, se qualcuno avesse voluto andar al fondo. Il signor Garofani, a cui per la prima volta in vita sua, le cifre non parlavano chiaro, oppure dicevano delle cose ingrate, era in uno stato di abbattimento e di disinganno, come al guastarsi d’un primo amore. Con me naturalmente non tenne parola di tutto questo; ma un po’ ne avevo sentito da altri, e un po’ ne lessi sul suo viso e nelle sue parole, sebbene mi discorresse di tutt’altro. Quella sera mi accompagnò a casa, e passò meco più d’un’ora. Mi parve che avesse una gran voglia di parlare di Giandomenico, se appena gliene avessi dato l’appiccagnolo; ma per quella prima volta lasciai cadere il discorso. Alla fine mi annunziò che il giorno dopo sarebbe arrivata sua moglie, la quale faceva a Borghignolo una gita di pochi giorni per dare un’occhiata al giardino e ai suoi fiori: ossia per darne più d’una, a quanto mi disse poi il mio fattore, alle masserizie di casa, delle quali parecchie avevano seguito il Buccelli nell’esilio. Il giorno seguente seppi infatti che la signora Giuseppina era arrivata. Ma non la vidi così subito; per un paio di giorni la lasciai tutta intera all’ispezione degli armadi e della guardaroba, e poco mi staccai dal capezzale del povero Giandomenico. Aspettavo ansiosamente, di minuto in minuto, Aldo, che aveva risposto al mio telegramma e doveva essere in viaggio da più giorni. Che gli avrei annunziato? Giandomenico aveva di tanto in tanto riaperti gli occhi, ma non mi aveva ancora riconosciuto. Il medico del paese, che di solito capisce poco, e questa volta poi mi aveva l’aria di non capire niente affatto, era stato subito di parere, per fortuna, che si chiamasse in consulto dal capoluogo del mandamento un altro medico che, a quanto si dice, ha riaperto ancora qualche libro dopo l’ultimo esame dell’Università. Mi parve infatti un brav’uomo, e fui tanto più addolorato vedendolo allontanarsi dalla stanzuccia dell’ammalato con la faccia pensosa, e non trovando che poche parole per rispondere alle mie molte domande. Quando gli dissi che aspettavo Aldo: «Faccia in fretta, faccia in fretta!» mi rispose; poi dopo una pausa soggiunse: «non vedo un pericolo vicino.... si potrebbe dir anzi in tutta regola che c’è da sperare, ma che vuole?... sto con l’esperienza, e dico che questo ammalato non mi piace, e non mi piace!» Così con questa risposta, e si pensi con quale inquietudine, rimasi per più giorni ancora prima che Aldo arrivasse. Appena seppi che Aldo era poco lontano da Borghignolo, gli andai incontro perchè non giungesse al capezzale di suo padre tutto solo e senza che una parola amica fosse scesa prima nel suo animo vergine ancora alle forti commozioni della vita. Quale traccia non lasciano le prime commozioni del dolore, delle speranze, della gioia! Ma chi ci bada! L’educazione il più delle volte, come l’arte del verniciare, si mostra paga quando vede la superficie lucida e tersa. Povero Aldo! Se in mezzo a tutta la mestizia di questi giorni, non mi sento indosso quella cappa di piombo che da un pezzo mi rende così uggiosa la vita, è forse perchè mi pare di poter fare un po’ di bene a quel povero figliolo. Ci fu un momento in cui parve che tutti i sintomi del male fossero divenuti meno gravi, e vidi il povero ammalato aprire gli occhi. Giandomenico girò lo sguardo lento, fisso, pieno di stupore, come chi si sveglia dopo un lungo sonno, e non sa rendersi ragione ancora di tutto quello che lo circonda. Mi riconobbe, sorrise, e con la mano cercò nascondere i brandelli e le rappezzature del coltrone che lo copriva. Gli dissi ch’ero venuto a fargli da infermiere, appena avuta notizia che, pigliato da un forte malore per strada, l’avevano portato in quella capanna. Egli mi sorrise di nuovo, con una espressione più serena e piena di riconoscenza. Gli parlai di suo figlio, lo disposi a vederlo; e poco dopo, le sue braccia pallide e scarne stringevano Aldo, il quale, prima di ritrovare alcune di quelle parole di calma e di fiducia che gli avevo suggerite, pianse dirottamente sino a che ebbe lacrime. Sulla sera, una comitiva mesta e raccolta seguiva lentamente su per il sentiero della collina il curato, che veniva sul suo cavalluccio portando il viatico. Quale stretta non danno al cuore quei rintocchi del campanello, e quella nenia malinconica delle preghiere, quando si ripercotono e si perdono tra il frastuono indifferente delle vie d’una città! Ma quella sera, sotto il bel cielo sereno ove apparivano le prime stelle, tra il silenzio solenne e direi pio della natura, quelle preci, quella mesta comitiva, l’addio stesso alla vita, mi parvero cose meno desolate: l’anima le accoglieva con un fascino indicibile e nuovo. Era il fascino che la chiamava a confondersi tra quei vaghi misteri della natura e a varcare un confine che presente ed ignora. Per un giorno ancora Giandomenico parlò, strinse la mano ad Aldo, a me, alla Marta, al famiglio. Le sue parole, ora chiare, ora confuse, esprimevano dei pensieri che gli facevano ritorno con una penosa insistenza. I propositi e le preoccupazioni della vita si avvicendavano nelle sue parole ai ricordi e ai consigli di chi sa vicina la morte. Più che dell’avvenire di Aldo, a cui ripetè più volle «tu hai la tua spada e il tuo onore,» era preoccupato dell’avvenire del suo famiglio. «E tu, povero Bortolo, cosa farai?... Cosa sarà di questo pover’uomo?...» «Oh mio buon padrone!... mio caro signor padrone!... io son vecchio, e presto le terrò dietro» rispondeva Bortolo con la voce strozzata e la faccia piena di lacrime. Ma al cadere di quel giorno, Giandomenico non pronunziò più una parola; i suoi occhi rimasero socchiusi, e le sue braccia distese e rigide sopra il coltrone. Prima dell’alba, alla pallida luce della candela che ardeva presso il capezzale, vidi il volto di Giandomenico farsi bianco ed immobile: era spirato. Aldo svenne nelle mie braccia; il famiglio s’inginocchiò; la Marta aprì la finestra, e accese una candela benedetta. Quando uscii dalla capanna, conducendo con me Aldo, e con l’animo straziato da quella scena di dolore, il cielo illuminato dai primi raggi del sole era tutto splendido e ridente. Gli uccelletti a stormi ci volavano intorno, empiendo l’aria del loro pigolìo. Le campane d’un paesello vicino sonavano a festa. Alcuni gruppi di contadini e contadine, che si recavano a una sagra, ridendo e canterellando ci passavano innanzi, e senza quasi avvedersi di noi. Così è la vita! L’affetto per Giandomenico, che era scoppiato improvvisamente in Borghignolo a quella prima notizia che lo diceva ricoverato e morente nella casupola d’una povera donna, crebbe in proporzioni più grandi ancora, quando si sparse la voce della sua morte. Pochi mesi prima, io ero il solo che in Borghignolo avesse il coraggio civile di fargli una visita; il dirne male, l’odiarlo, il perseguitarlo era un dovere, era una prova quasi di _patriottismo_! Il perchè, chi lo sapeva? Ma si seguiva la corrente. Ora vien levato alle stelle, non si parla che delle sue virtù. Ma qui, per verità, bisogna confessare che questo fenomeno non è solo di Borghignolo. Il più delle volte, per trovare benevolenza e giustizia, bisogna morire. È il guaio di chi aspira a questo trionfo. Trionfo brevissimo per giunta, poichè presto nessuno si ricorda di lui, e l’ingiustizia o la benevolenza vanno in cerca di nuovi odii e di nuovi amori. Stamane il cadavere di Giandomenico fu portato nella chiesa di Borghignolo, e di là al Camposanto. Nessuno del paese mancò alla mesta cerimonia. Intorno a quel feretro vidi raccolti tutti, e gli amici e i nemici del poveretto; vidi levarsi il cappello quanti gli avevano negato prima il saluto, udii pronunziare parole di rimpianto e di lode da chi aveva detto male di lui. Quante meditazioni, quanti pensieri non si affollavano nella mia mente nel seguire il corteo e nel recinto di quel cimitero!; di qual luce diversa non paiono colorate le cose tutte della vita, quando passano a rassegna dinanzi a chi ha gli occhi fissi sopra una fossa! Con l’anima gonfia di tante cose che sentivo essere vere e sante, levando gli occhi su quella folla che mi stava intorno silenziosa e riverente, mi parve che ogni cuore dovesse battere come il mio,... che ognuno di quelli che vedevo dovesse avere più del solito l’animo buono, la mente elevata. Mi parve che una parola d’affetto, un proposito buono, seminato in quel momento, non sarebbero andati perduti, e avrebbero forse legati strettamente gli animi nostri. Mi parve.... non saprei ridire tutto quello che mi parve in quel momento, ma so che parlai a tutta quella buona gente; che parlai per un pezzo, e che poi mi trovai nelle braccia di molti che piangevano e mi baciavano. So che cento voci mi dissero «_lei ci può fare tanto bene! lei può essere la nostra provvidenza!_» e che queste parole mi scesero nell’anima ben profondamente e mi scossero tutto, come se fossi giovane ancora, senza disinganni, senza stanchezza.... come se fossi un altro insomma, od almeno quello di una volta. Io dunque posso ancora fare del bene? Sarà vero? Addio, mio povero amico! addio, povero Giandomenico! La sera, sul tramonto, quando per l’erta stradetta della collina seguo l’ultimo raggio di sole che monta, monta, e poi m’abbandona, vedrò, alla svolta da cui si presenta il modesto recinto del cimitero, una croce di più protendere lontano la sua ombra verso di me e rammentarmi mestamente un sacro dovere. Ogni buona nuova che avrò di Aldo la verrò a dire all’ombra della tua croce, e le ripeterò che Aldo non è rimasto solo, che Aldo sarà mio figliolo! come lo dissi a te, povero Giandomenico, quando i tuoi occhi cercavano sul mio viso, prima di chiudersi, una nuova speranza, la sola forse che non gli sarebbe fallita. * * * 9 aprile 1866. Il colpo è fatto: dopo averci tanto pensato e ripensato, senza che il piano mi paresse mai abbastanza maturato, e nessuna occasione abbastanza opportuna, un colpo tirato all’improvviso ha fatto scoprire tutte le mie batterie, ed eccomi ora in campagna rasa. Ritornavo, ieri sera, a casa, dopo aver condotto Aldo a prendere una boccata d’aria ed a svagarsi un poco, povero figliolo! quando eccomi capitare nel salotto, con quell’impeto che la furia dei pensieri le suol communicare alle gambe, la signora Giuseppina, non rossa in faccia, come quando è in furia, ma pallida, tremante, come chi è sopraffatto da improvviso spavento. E il rimescolo l’aveva avuto davvero. Nel ritornarsene un poco prima, non ricordo da dove, sola, per una stradicciola della campagna, così mi disse, era stata seguita per lungo tratto da alcuni, ch’essa non riconobbe perchè, la paura essendo stata maggiore della curiosità, aveva affrettato il passo, senza avere nè il tempo nè il cuore di sbirciare o da da una parte, o dall’altra. — In questo luogo qui, dopo l’avemmaria della sera — aveva preso a dire uno di essi — calano giù dalla collina le anime dei poveri morti che furono traditi in vita. Fanno un giro, e se incontrano il loro persecutore, gli susurrano una parola misteriosa, la quale non cessa più da quel momento di risonargli, come un’eco che non finisce mai; una parola che fa morire a poco a poco, come un lento veleno. — Lasciate che imbrunisca ancora di più — seguitava un altro — e il fruscìo della siepe ci direbbe che passa la buon’anima di quel povero galantuomo che abbiamo ieri accompagnato al Camposanto. Noi non lo vedremmo, perchè, grazie a Dio, non gli abbiamo mai fatto nulla di male; ma lo vedrebbe forse qualcuno che so ben io, qualcuno ch’egli cerca, qualcuno che sentirebbe poi rintronarsi quella tal parola.... — Ma questa tale parola — domandava un terzo — non c’è proprio nessuno che l’abbia ridetta mai? — Mai! a quanto si sa. Mi diceva un vecchio, il quale ne ha veduti morir parecchi di questo male, che la è una parola che attossica il sangue, e che quando viene sulle labbra, vi rimane lì come gelata, e che non può uscire. Non ti ricordi del barbiere? Quanto tempo ci ha messo per andarsene al mondo di là, dopo che ebbe buttata nella miseria e fatta morire allo spedale la cognata? Tre mesi, amico mio. Ma si sa che la cognata gli era venuta incontro, proprio la sera stessa che l’avevano portata al cimitero. — E sta bene! Così chi fa male, ne gode per poco. — E così l’andrà a finire anche di quelli che ora godono a tradimento la sostanza del povero conte Giandomenico! Farina del diavolo, che andrà tutta in crusca. Io non vorrei essere nei loro panni. — Nè avere i loro milioni, quando poi in poco tempo s’ha d’andare a casa del diavolo, o girare il mondo col botteghino al collo. — _Botteghino al collo_ il fondaco di Baldassarre! — esclamava qui interrompendosi la signora Giuseppina, a cui quest’ultima pareva la più grossa. — Ma ne conterò una bella — continuava poi la signora Giuseppina, riavendosi a poco a poco e ripigliando il dialogo di quegli sconosciuti. — Appena scappato il Buccelli, si scopersero nella sua casa tutte le carte con cui avevano spogliato del fatto suo il conte Giandomenico, e che erano documenti tutti falsi. — Tutti falsi? — Sicuro! e fu veduto una sera il giudice uscire dalla casa del Buccelli, con un fascio di carte sotto il braccio che poteva pesare un due o tre libbre. — Tre libbre di carte false! — Sicuro! — Ci eravamo cascati tutti, proprio da bestie, nelle mani di quel Buccelli. Già io l’ho sempre detto, con questi mezzi avvocati bisogna giocare alla larga. — Ma ce n’è un’altra! Don Michele si è condotto in casa il figliolo, e si dice che impianti a quei signori una causa, ma una di quelle cause che la simile non si è veduta mai! perchè lascino lì tutta la roba presa, e facciano fagotto per dove sono venuti. — Oh così sì! — E se don Michele ci si mette.... — Bravo don Michele! Benissimo! e crepino.... — Qui la signora Giuseppina si fermava, aggiungendo solo che, arrivata alle prime case del paese, aveva presa la prima cantonata, e quei tali che la seguivano, tirando diritto, le avevano lanciate alcune ingiurie, che non erano giunte tutte sino al suo orecchio. La signora Giuseppina, che aveva ripreso un poco di fiato nel discorrere, mi fissò per un pezzo con tanto d’occhi, come ebbe finito, aspettando che la rassicurassi del tutto e le promettessi il mio intervento. Ma non ne ero in vena in quel momento, e non risposi parola. «E se mandassi Garofani dal prefetto» saltò su a un tratto lei, dopo un lungo silenzio «pregandolo di far venire in Borghignolo una dozzina di carabinieri?» «Coi carabinieri, a questo mondo, si fa molto, quando si ha ragione» risposi secco secco; «ma non si fa nulla, quando si ha torto!» «Dunque avevano ragione quei tali? quei tali della strada? Dunque lei ci vuole promovere una lite.... dunque....» cominciò a gridare, ma si fermò subito. La mia faccia che doveva essere molto seria in quel momento, il pensiero di quanto le era intervenuto poco prima, e fors’anche il sospetto di quello spettro che le si poteva presentare da un minuto all’altro, le fecero a un tratto raccoglier le vele, e, lasciatasi cadere sul divano, cominciò a singhiozzare alla dirotta. «Si calmi, signora Giuseppina» presi io allora a dirle. «Io non so di che lite intenda parlare, non ho a far nulla con quegli sconosciuti che l’hanno seguita per via, e so che i poveri morti riposano in Dio, e pur troppo! non compaiono più. So però, signora, che in tutte queste faccende c’è qualcosa di molto serio! Non so se qui ci sia un debito d’onore, ma so che c’è una buona azione da fare! Lei ha avuta una ben felice ispirazione nel venire da me, e ne la ringrazio. Il figlio del povero Giandomenico, che lei non conosce che per le informazioni di un falsario che aveva interesse d’ingannarla, partirà tra pochi giorni, e lei non ha nulla a temere dalla nobiltà del suo carattere. Le citatorie di Aldo non verranno a turbarle i sonni, signora Giuseppina...; ma piuttosto potranno renderli inquieti queste voci di compassione, che si levano da ogni parte, per un povero vecchio cacciato un giorno senza misericordia di casa, e che sarebbe morto sulla strada se una buona donna non lo avesse raccolto nel suo tugurio. Non le lascerà l’animo tranquillo il dubbio d’essere stati, lei e suo marito, complici, senza forse saperlo, di un tristo, che in loro nome ha fatte tante cose ingiuste, forse inoneste, e certo inutilmente spietate. Capisco che un dubbio tale deve essere un gran cruccio, sino a che non venga la riparazione! Il far versare delle lacrime può essere una trista e passeggera soddisfazione della vendetta, ma è cosa che inaridisce tutto intorno a noi, e ci prepara la solitudine e l’abbandono. Il far del bene costa così poco, ed è cosa così serena e feconda!...» Io continuavo su questo tono, e la signora Giuseppina, tra confusa e contrita, mostrandosi mezzo vinta, di tanto in tanto cercava articolare qualche parola per difendersi e giustificarsi. A un certo punto, radunando tutte le sue forze per ottenere una capitolazione a migliori patti, ripescò nella memoria quel gran sospetto della macchinazione di Aldo per rapire Adelina, e saltò su a ricordarmelo, levandosi in piedi. Il colpo era partito. I miei piani non erano maturi, non tutte le fila erano ancora in mano mia, come dissi, ma in quel momento non mi potei trattenere, e giocai la mia ultima carta. Levai dallo scrittoio un plico, che alcuni giorni innanzi m’era stato consegnato dal delegato di questura, che l’aveva trovato tra le carte del Buccelli. In quel plico c’erano varie lettere che Aldo aveva scritte a me, quando era partito in traccia di suo padre. Erano quelle lettere che avevo aspettate così ansiosamente invano. Il Buccelli le aveva trattenute, le aveva lette, e su quelle aveva architettato il romanzo del rapimento. Diedi le lettere alla signora Giuseppina, e la pregai di leggerle tutte attentamente. In quelle lettere Aldo mi raccontava con dolore le indagini che faceva via via per rintracciare qualcuno di quei suoi parenti, e che tutte riuscivano inutili; alle sue sincere lacrime dell’amore filiale erano spesso mescolate, senza ch’egli se ne avvedesse, le lacrime di un altro amore. In alcune lettere poi mi parlava apertamente del suo amore per Adelina; me ne parlava con tutto l’ardore de’ suoi anni, ma con quella sincera disposizione al sacrificio che ha pure tanta parte nei sentimenti de’ giovani, che abbiano l’animo nobile e gentile. Mi diceva che sul volto di Adelina egli vedeva il paradiso; ma che avrebbe avuta la forza di fuggirla per sempre, di chiudere questo mistero nel proprio cuore, solo per sè, in modo che Adelina stessa non ne avrebbe mai saputo nulla. Aldo non sa ancora il proverbio, che _amore e tosse non si nascondono_. Dove poi non parlava di Adelina, parlava dei genitori di lei: era però sempre il cuore che dettava; e il signor Garofani e la signora Giuseppina, avvolti in un profumo di poesia che copriva quello del fondaco, parevano in quelle lettere due personaggi dell’età dell’oro. Questi punti devono aver toccato non poco il cuore alla signora Giuseppina. La signora Giuseppina da quella lettura rimase scossa, confusa, ora esaltata, ora agitata. Ora diceva cento cose in una volta, ora non sapeva più trovare una parola. E alla fine saltò su a dirmi: «Ebbene, cosa ne dice lei?» «Io le dico» risposi con calma e con serietà «che lei non vedrà più il color delle rose sul volto della sua Adelina, non ritroverà più la schietta allegria della famiglia, nè la tranquillità dell’anima, nè la pace e la benevolenza intorno a lei, sino a che non vedrà Aldo e l’Adelina riuniti sotto il medesimo tetto nel castello di Borghignolo!» Bisogna dire che questa conclusione, che ognuno si sarebbe aspettata da un pezzo, la signora Giuseppina non se l’aspettasse punto, perchè la sua esclamazione superò tutte le esclamazioni che si sarebbero potute fare in proposito. «Prima di scendere fino a un conte spiantato, non ho poi perduta ancora la speranza di trovarne uno che abbia del ben di Dio!» disse nel primo impeto. Poi capì anch’essa che quella stonatura doveva parermi un po’ forte; e cercando di balbettare dei _se_ e dei _ma_, si rifugiò dietro le spalle del marito, e cercò di mitigare, come poteva, quella prima esclamazione. «Oh! si capisce che il figliolo non è cattivo; in quelle lettere ci sono dei sentimenti che ho sempre avuti anch’io, tali e quali. Io non son quella di certo che saprebbe dire di no per un pezzo; sono di buona pasta, e mi lascio cucinar come vogliono. Ma il mio Garofani! Garofani è tremendo! Quando ha fisso il chiodo, non c’è barba d’uomo che lo possa smovere. Io, per me, non avrei tanta faccia di fargli una proposizione simile. Tanto più.... ah sicuro! lei non lo sa! non gliel’ho ancor detto! ma già a lei non posso tacer nulla: le farò dunque una confidenza.» Qui mi narrò alla distesa, come suo marito avesse messi gli occhi sul figlio d’un suo amico, un negoziante, non mi rammento se di droghe o di chiodi, ricchissimo, a quanto diceva lei, per farne uno sposo di sua figlia. Io lasciai dire, e quando alla fine mi parve che si aspettasse una risposta, con la serietà e con la calma di prima le dissi: «Lei avrà tutte le ragioni; dunque non se ne parli più.» Non c’è nulla di meglio che il dar ragione a certuni, in certe circostanze, per farli mutar subito di parere. La circostanza della paura indiavolata, che aveva la signora Giuseppina, le avrebbe voluto bensì far trovare un’uscita tale che io poi diventassi la sua guida e il suo protettore naturale; ma, per non darsi torto sul passato, essa avrebbe voluto esserci come costretta. Così tra me e lei cominciò qui una specie di lotta; lei voleva venire del mio parere, ed io avevo quasi l’aria di accomodarmi al suo. Infine essa conchiuse che bisognava convertire il signor Mosè, il quale aveva incominciato a metter le fila per il figliolo del negoziante, e che, senza il signor Mosè, non se ne sarebbe fatto nulla. Io non le risposi altro che pregandola a riflettere seriamente per qualche giorno a quanto le avevo detto, senza parlarne, s’intende, con alcuno. Intanto s’era fatto tardi. Per dare una prima e tacita prova della mia protezione futura alla signora Giuseppina, l’accompagnai, dandole il braccio, a casa; feci con lei e suo marito qualche partita a tarocchi, lasciando loro anche un po’ dei miei quattrini. La signora Giuseppina poi, con una smorfia ad ogni minuto, continuò tutta la sera a farmi capire di riposare tranquillo sulla sua secretezza. * * * 15 aprile 1866. Per quella prima notte, dopo aver aperto l’animo mio alla signora Giuseppina, non potei chiuder occhio sotto l’incubo di mille progetti che la fantasia andava mulinando nello scopo santissimo di poter riuscire io, in tutta questa faccenda, il più furbo di tutti. Ma non c’era modo. A riuscir furbi davvero, è una cosa difficilissima. Infine, quando vidi il primo chiarore dell’alba, raccapezzando tutto il mio lavoro notturno, non trovai da potere stringere che una sola idea; e questa era che ci voleva il signor Borsa per conquistare il signor Mosè. Mi parve buona, e feci finalmente un sonnellino. Mi alzai dunque col progetto di scrivere una lettera al Borsa, che non è ancora rientrato in paese, per indurlo a venire subito, trattandosi di rendermi un grosso servizio. Prendo la penna, e in quella eccomi il fattore con una lettera.... di chi? appunto del Borsa! che è questa: * * * «Pregiat. signor don Michele, »Non vedendomi ancora di ritorno, lei avrà forse già a quest’ora arguito che io perduro nella mia assenza. Pur troppo è così! All’erta, don Michele! Ci sono cose che per la loro speciale natura, quando le vedo continuare, mi convinco che non sono finite! Non so se mi spiego! Con lei però non mi occorre forse aggiungere altro. »Nuove disgrazie sovrastano a Borghignolo! Non si perda d’animo, don Michele. La patria spera molto in lei; quella patria, per così dire, che in questi giorni ha letto con orgoglio il suo nome tra quelli degli eletti di cui si compone il nuovo Consiglio comunale. Ma siccome potrebbe venire un giorno in cui tutti gli argini fossero spezzati, ed occorressero, per esprimermi in metafora, nuove forze, in quel giorno, don Michele, calcoli sopra di me. L’orizzonte della _Posta_ non è così sereno come pare. Quando in _alto_ c’è il contrasto dei venti, in _basso_ c’è la procella. La giustizia, parlando in confidenza, è diventata una vana parola! Quell’uomo, che ho giurato di non nominare mai più, il Buccelli, sta per diventare nuovamente il tiranno di Borghignolo!... »Mi comandi in quel che posso; non più per lettera, s’intende, ma col mezzo di persona fidata. »Non solo per me, ma per tutti, la _Posta_ sarà ancora, tra pochi giorni, un disinganno di più nella vita. »_Suo devot._ BORSA.» Credetti sulle prime che questa lettera fosse una della solite ubbie del Borsa, ma in quel giorno stesso ho dovuto accorgermi, alle voci che correvano in paese, che ci doveva essere qualcosa di vero. Il giorno dopo, quelle voci andavan crescendo, e l’allarme era grande. Lettere e persone capitate in paese avevano portata la nuova del ritorno del Buccelli; in caffè gli avventori c’erano tutti, e in piazza si vedeva la gente in crocchi. Si diceva che il Buccelli era andato diritto dal deputato, il quale l’aveva condotto a far colazione dal ministro, e che lì, tra un boccone e l’altro, si era aggiustato ogni cosa. Si diceva che il Buccelli era in viaggio con in tasca un decreto del ministro, che lo rinominava commesso della posta e priore perpetuo della confraternita, in barba de’ confratelli. Chi diceva che il Buccelli era già arrivato; chi pretendeva che fosse stato veduto a suggellare i plichi nell’ufficio; chi parlava delle somme che s’erano spese dal deputato e dal Buccelli; chi faceva i pronostici di quello che avrebbe potuto accadere. Qualcuno si pentiva già di avergli volte le spalle così presto; qualche altro incominciava a dire che il Buccelli, in fin de’ conti, a saperlo pigliare, non era un cattivo uomo. I più onesti si preparavano a rinchiudersi in casa; i birbaccioni, dopo averne detto cose di fuoco, pensavano già ad accomodarsi con lui. A far qualcosa di bene, ad impedire del male, se davvero ce ne fosse la minaccia, non c’era nessuno che ci pensasse. Tra quelli che avevano fatto i bauli c’erano il signor Garofani e sua moglie, che tutti sgomenti erano venuti a raccomandarmi le cose loro _in extremis_, e ad invocare la mia protezione. L’accordai subito, rallegrandomi moltissimo nel vedermi, in casa Garofani, vicino a diventare un secondo signor Mosè. Due mesi fa, ridendo di questa nuova burrasca che si annunzia nel bicchier d’acqua, l’avrei aspettata tranquillamente, senza pigliarmi verun incomodo. Ma oggi, con la mia idea fissa in capo, e fors’anche riflettendo che di simili bicchieri d’acqua è composto il pelago in cui navighiamo, volli provarmi a fare il faccendone e a spuntarne una anch’io. Mi feci vedere per le vie di Borghignolo col piglio risoluto e battagliero. Sfidai pubblicamente tutti i Buccelli dell’universo; dissi anch’io cose da chiodi, e fui largo di protezione a chi ne chiedeva e a chi non ne chiedeva. Non mi sono mai divertito tanto; ma al tempo stesso imparai che anche per fare il bene, la via nella quale si è più facilmente seguìti dalla folla, è quella stessa dell’_audacia_, di cui si servono i tristi per fare il male. Nelle ciarle di Borghignolo ci doveva pur essere qualche briciolo di vero. Pensai questa volta di non perder tempo, e, senza badare alla noia, andai diviato dal prefetto, succhiandomi non poche ore di biroccio e di diligenza. «Il signor prefetto è partito per Firenze l’altroieri e non sarà di ritorno che in fine della settimana.» Tale fu la risposta che m’ebbi appena arrivato. Benissimo! dissi tra me: il mio destino è proprio quello di arrivare sempre il giorno dopo. Rimasi per qualche momento senza dire una parola, ed aspettando sui due piedi non so cosa, quando quel brav’uomo a cui m’ero rivolto, e che doveva essere un impiegato, credette bene, prima di congedarmi, di aggiungere alla notizia che mi aveva dato qualche osservazione di suo. «Lei dunque non se l’era immaginato che il signor prefetto potesse essere partito?» «No, davvero!» «Ebbene, io l’avevo prevista questa partenza due giorni innanzi che ce ne venisse a un tratto la notizia. Si parla di cose grosse. Si dice che possano essere chiamati i contingenti.... si parla di guerra.... si parla d’una alleanza colla Prussia. Ci crede lei?... Se qualcuno gliene domanda, dica pure a nome d’un Tizio, il quale se ne intende, che son chiacchiere! E questo Tizio sa lei chi è?... Sono io!» Nello scendere le scale della prefettura e nel rifare la strada di Borghignolo, non m’ebbi più altro dinanzi che quella parola _chiamata dei contingenti_, come se quel buon uomo me l’avesse inchiodata in mezzo alla testa. La qual testa, non essendo a partito da parecchi giorni, non aveva avuto il tempo di pensare a’ giornali, o a qualche vecchio amico, di quelli rimasti nella politica, per informarsi degli avvenimenti pubblici. Quella parola, entratami negli orecchi di punto in bianco, andò diritta nel fondo dell’anima a ripescarvi quel mio antico entusiasmo, a cui credevo di aver fatto da un pezzo le esequie, e che ritrovai ancora florido e pieno di vita come era a’ miei vent’anni. Poi il pensiero corse subito ad Aldo a cui ho preso a voler bene come se fosse un mio figliolo; e allora per la prima volta capii che grande e santa cosa sia l’amore di patria nei padri e nelle madri che hanno i figli sui campi di battaglia! Giunto a casa, strinsi Aldo nelle mie braccia con un affetto che mi pareva ancora più prezioso, perchè incominciava a costarmi una trepidazione che sino allora non avevo conosciuta. Però nè ad Aldo, nè ad altri, non feci molto di quella grave parola presa a frullo tra le ciarle dell’impiegato, e penso di continuare diritto per la strada incominciata. Ritornerò dal prefetto, e non lascerò mancare il fuoco alla pentola, entro cui ho messo a bollire tante cose. Al Borsa, a cui voglio parlare a ogni costo, ho scritto stamani nel suo stile, dicendogli «che prima di ritornare in Borghignolo, il nuovo Faraone avrebbe trovato un mar Rosso dove meno se lo pensava; che presto si sarebbe veduto svanire quella nube che pareva volesse offuscare di nuovo _il sole della posta_; che avevo molti progetti e molti secreti da comunicargli; che confidavo nella sua prudenza....» Poi gli ho dato appuntamento presso un cascinale, fuori di Borghignolo, e fuori di mano, in un luogo che sente un po’ del misterioso, e che per ciò deve essere di tutto suo gusto. * * * 20 aprile 1866. L’aver fatte io, in questi ultimi pochi giorni, tante strade, l’essere andato due volte al capoluogo della provincia, e l’essere da mattina a sera col cappello in testa e per le strade del paese senza essermi buscato nessun malanno, neanche un raffreddore, è una novità, un mistero, un problema, che manderò scritto al mio dottore per la posta, perchè ne cavi fuori lui qualcosa, se è capace. Egli mi risponderà, come già fece un’altra volta, raccontandomi la vecchia storia di quel signore che avendo la gotta, e domandando al suo medico cosa dovesse fare per guarirne, il medico gli disse: «spendete per mangiare venti soldi al giorno, e guadagnateveli!» Ma anche questa volta io gli potrei replicare che al suo ragionamento manca la base, perchè io non ho la gotta. Però, se ciò fosse, i _venti soldi_ questa volta sarebbero stati il Borsa, il Buccelli, il deputato e il prefetto della provincia. Sono stati questi quattro signori che mi hanno fatto galoppare e sudare tutta la settimana, ed è a loro che dovrò i miei ringraziamenti, se ci lascerò la pelle; perchè ci sono certi malanni traditori, che saltano fuori un pezzo dopo, e quando meno ci si pensa. Il Borsa venne al ritrovo. Lo tranquillizzai alla meglio tanto sul Buccelli, che sulle intenzioni della Russia nel caso di una guerra. Rasserenatosi su questi due punti, accolse con entusiasmo i miei progetti, ed accettò la missione presso il signor Mosè. Disse però di non volere ancora che si parlasse _ufficialmente_ del suo ritorno in Borghignolo; che in casa Garofani, per discorrere col signor Mosè, egli non si sarebbe lasciato vedere che la sera; che avrebbe sempre avuto un paio di pistole in tasca per mettere a partito qualsiasi bell’umore; e che se mi capitasse di parlare di lui con qualcuno, dovessi sempre dire: «quel Borsa che si ostina a non voler metter piede in Borghignolo.» Eppure io ho una gran fede nei ragionamenti che farà il Borsa, molto più che ne’ miei, per quanto mi possano parere belli e buoni. Credo che molte volte l’arte del pigliare il mondo la ci paia cosa più difficile di quello che non sia, perchè ci ostiniamo a lavorare con le pinzette, anche quando bastano ed anzi valgon meglio le dita. Il prefetto, con cento belle maniere e con un mare di parole bellissime, mi trattenne a lungo, e mi disse tante cose, che non sono ancora riuscito a raccapezzarle tutte. Egli impiegò non meno di due ore per riuscire a provare, certamente contro ogni sua intenzione, che egli ha una gran paura di tre cose: del deputato, del giornale _Il Vero italiano_, e delle proprie opinioni. Procurai ben io di fargli capire di tanto in tanto, ch’io non sono un malcontento di professione, che io non cerco impieghi, e che col governo nazionale e colla libertà sono un uomo dell’ordine. Ma chi sa mai! Un briciolo di opposizione anche in un prefetto può far bene, e ad ogni modo non fa male. Lasciandomi poi travedere un certo malcontento, quantunque egli sia l’uomo più contento di questo mondo, il prefetto mi voleva far nascere la persuasione che dei concetti superlativi egli ne avrebbe a bizzeffe, ma che non se ne poteva veder niente perchè il ministro gli impediva di sciogliere il sacco. Quanto al Buccelli, io dovevo capire facilmente, diceva il prefetto, che questione difficilissima fosse questa per lui. Perocchè non trattavasi solamente delle truffe e delle altre cose di questo genere, che riguardavano il lato secondario della questione, ma di quel tanto di politica che c’era immischiato, e che faceva per l’appunto diventar grossa e seria la faccenda. «Questo Buccelli» continuava il prefetto «professa delle opinioni politiche che, pei tempi, sono forse un poco premature; volgarmente passa per nemico del Governo. Il Governo dunque, per un alto sentimento di imparzialità, gli deve la sua maggior protezione. Egli è onorato dall’amicizia d’uno degli egregi deputati della nostra provincia. Pare che l’onorevole deputato abbia richiamata la vigile attenzione del ministro sopra i fatti di Borghignolo, sottoponendogli l’oculato sospetto che i suoi avversarii politici abbiano calunniato il Buccelli, per allontanare dal paese un suo fautore ed amico. Se ne commosse il ministro, com’era naturale; furono fatte indagini minutissime, scrupolosissime, e si spera di poter dare al deputato delle assicurazioni che lo possano tranquillare sul rispetto alla libera manifestazione del pensiero; rispetto a cui non cessò mai d’essere informata la popolazione di Borghignolo.» A parlare pressappoco così, il prefetto ci pigliava tanto gusto, evidentemente, che a non lasciarlo dire per un pezzo, sarebbe stata una vera crudeltà. Quando venne alla fine la mia volta di parlare, io gli spiattellai alla libera una filza di verità grosse e crude, senza smussarne gli angoli e senza la menoma diplomazia, tanto sul conto del Buccelli, quanto di tutte le altre faccenduole del paese. Di tanto in tanto il prefetto mi interrompeva con quel sorriso che ammette e non ammette, e con qualche bella frase rotonda che aveva tutte le virgole a posto. Io ripigliavo con le mie ragioni alla buona, cosa che mi conciliava non poco il mio interlocutore e me lo rendeva pieno di benevolenza nell’ascoltarmi, perchè intanto egli pensava quanto dovesse spiccare ai miei occhi tutta la sua superiorità di parlatore diplomatico e d’uomo di governo. Capii frattanto, che a tutta questa politica del prefetto aveva già messo fine il procuratore regio, il quale gli aveva tolto ogni scrupolo ed ogni motivo d’affaccendarsi, dichiarandogli netto che l’affare del Buccelli era affar suo, affare cioè di processo, di tribunale e di prigione. Rimaneva però la questione del commesso postale in Borghignolo, e qui ritornava in scena la politica. Al qual proposito, essendo io uscito a dire innocentemente che avrei avuto l’uomo da proporre, l’uomo che sarebbe stato la perla dei commessi, il prefetto, col suo star sempre in agguato, vide passare il merlo, e tirò la rete. «La si accerti» disse interrompendomi «che in così delicate questioni il potere esecutivo, innanzi di compire un atto, cerca le soluzioni più felici del grande problema che il pubblico funzionario sia a un tempo, quel medesimo che meglio risponda alle supreme necessità dell’amministrazione ed alle maggiori aspirazioni della pubblica opinione. Il sindaco, noti bene! oh! il sindaco, nella sua duplice qualità di eletto dal suffragio e dal Governo, magistrato in sè perfettissimo, ha una grande autorità sull’animo mio, quando sono chiamato a consiglio dal Governo in quelle non facili questioni. Quanto al commesso postale di Borghignolo, lei mi accorderà, nella sua cortesia, ch’io mantenga qualche riserbo tuttora; ma.... ma in somma, in via non _ufficiale_, ma _ufficiosa_, le posso dire che io non manderò al governo nessun mio avviso in proposito, senza avere prima discorso col sindaco di Borghignolo.» Queste ultime parole le disse con un fare distratto e come se avesse dimenticato in quel momento che a Borghignolo, in fatto di sindaco c’era sede vacante. Poi passò d’un colpo alle novità della giornata, e mi confidò, con la solita diplomazia, la quarta parte delle cose che corrono sulle bocche di tutti. Nel dirmi che il paese poteva essere chiamato alle armi e che forse si giocava tra poco l’ultima partita, capì che sul vecchio violino fesso e scheggiato c’era ancora una corda sonora, e che egli ci aveva proprio messo il dito. Allora prese l’archetto, e glielo strisciò sopra senza misericordia. Quando gli parve che fossi a tiro, aprì un cassetto, levò una bella carta lucida piegata a rotolo, legata con un bel nastro di seta, e me la porse con un certo sorriso tra l’amabile e l’interrogativo, dal quale capii subito che non si trattava d’un regalo. Per quell’istinto naturale che ci fa tante volte presentire i pericoli, al comparire di quella carta feci fare un passo indietro alla sedia su cui ero seduto, ma ci sarebbe voluto altro. Il prefetto aveva già ripreso il suo discorso, e la carta fatale era nelle mie mani. Quando sciolsi il bel nastro e lessi la mia sentenza, il prefetto mi aveva già provato che, se durante una guerra, che poteva farsi europea, io non ero sindaco in Borghignolo, egli non mi poteva più garantire niente dei destini d’Italia. Dopo ciò, senza aspettare una mia risposta, volle subito sapere il nome del mio candidato per la posta; si sbottonò un po’ meglio a proposito del Buccelli; mi fece mille promesse, e mi assicurò che da mattina a sera non avrebbe pensato ad altro che alle cose che gli avevo dette io. Poi ci lasciammo come due amici sviscerati.... ma intanto quella carta m’è rimasta in mano. La fu un po’ la storia dei pifferi di montagna. Ritornato in paese, scrissi due righe al Borsa. Gli dissi che avevo parlato a lungo col _primo funzionario_ della provincia; che quel tale, ch’egli aveva giurato di non più nominare, non sarebbe più visto in Borghignolo nè da noi nè dai nostri figli; che _l’orizzonte della Posta si rischiarava_; che per il momento si voleva che fossi io il sindaco del paese, e che aspettavo tutto da lui per il noto affare. Dodici ore dopo, cioè fin da questa mattina per tempo, non si discorre d’altro in paese che della mia nomina. Si dice che io sono più forte del Buccelli e della gazzetta _Il Vero Italiano_. Ho già ricevute molte visite, e mi accorgo che incomincio anch’io a parlare come il prefetto. Il signor Mosè, che ha un gran rispetto per le autorità costituite, è venuto anch’egli a farmi i suoi omaggi e ad annunziarmi una visita del signor Garofani e di sua moglie. Il signor Mosè aveva un paio di guanti bianchi a maglia e uno spillone di diamanti allo sparo della camicia. * * * 25 aprile 1866. Quale non fu, ier l’altro, la mia maraviglia nel sentirmi dire dal fattore, il quale ha sempre le primizie di tutte le novità, che la figlia del signor Garofani si maritava, e che era sposa a un conte. Gli dissi ch’era matto, e mi sono anche un poco inquietato. Ma il buon uomo mi rispose di averlo inteso da una donna che porta le ova alla signora Giuseppina, alla qual donna lo aveva per l’appunto confidato la signora Giuseppina in persona. Ma chi è questo conte? Nè il fattore, nè la donna delle ova non lo sapevano; siccome però ne andava già intorno la voce nel paese, così il fattore mi garantiva che per il giorno dopo mi avrebbe saputo dire proprio com’erano andate le cose. Io ero lì lì per andare diviato dalla signora Giuseppina, quand’eccomi un messo con una lettera. Era il Borsa che per rendermi conto della sua missione, mi voleva in tutta fretta fuori del paese; egli mi sarebbe venuto incontro per una certa stradicciola, lungo la quale non era facile imbattersi in alcuno, perchè in quelle ore, diceva, non c’era un fil d’ombra. Presi il cappello e l’ombrello, e mi avviai incontro al Borsa. Il Borsa aveva in questi pochi giorni parlato a lungo e a più riprese col signor Mosè. Come due emigranti d’uno stesso paese, che per caso s’incontrano in mezzo a gente nuova e lontana, ben presto essi avevano stretta la più cordiale amicizia; i loro animi si erano versati l’uno nell’altro; s’erano capiti a vicenda, ed era nata tra loro una sincera e reciproca ammirazione. Il Borsa mi trattenne per quasi due ore, dopo che l’ebbi tirato all’ombra, sui discorsi fatti col signor Mosè, sulle prime avvisaglie, sulla propria finezza nel trattare le cose delicate, e sulla grandezza d’animo del suo nuovo amico. Il Borsa ne aveva dette delle belle. Confesso che io non sarei arrivato a pensarne tante, e che, se le avessi pensate, mi sarebbero parse le peggiori di questo mondo. Quanto è difficile il trovare gli uomini che sieno al giusto livello delle cose! Il Borsa aveva fatto pernio dei suoi ragionamenti col signor Mosè, l’illustre casato di Aldo e il suo titolo di conte. Gli aveva dimostrato all’evidenza tutto il lustro e tutti i vantaggi che questo titolo avrebbe recato alla sposa, ai signori Garofani, e agli amici di casa. Gli aveva narrato che nella famiglia d’Aldo osservavasi da dugent’anni che ad ogni terza generazione nasceva un vescovo; e siccome nelle ultime due generazioni questo caso non s’era verificato, così era evidente che ai nuovi sposi era serbato l’onore di continuare un tanto lustro della famiglia. Per questo fatto, e per tanti altri di simil genere che il ricordare sarebbe un po’ lungo, dal matrimonio d’Adelina con Aldo doveva venire di riverbero un grande splendore; e che in conseguenza si sarebbe veduta presto qualche insegna di ordine cavalleresco sul petto del signor Garofani, e fors’anche di taluno di quelli che fanno con lui ogni sera la partita a tarocchi. Poi, da una tanta beatitudine, il Borsa era disceso bruscamente, all’ipotesi contraria che in buona fede gli faceva dirizzare i capelli in testa. Se per avventura, un giorno, Aldo o qualcuno per lui avesse levato il velo che copriva le nefandità del Buccelli, sarebbe nato un cataclisma, dopo il quale si sarebbero veduti i Garofani in fondo a un abisso. Toccata la corda del Buccelli, il Borsa non l’avrà lasciata così subito, e scommetterei che col signor Mosè, in questo argomento, sarà stato di gran lunga più espansivo che non sia di solito con me. Anche sul mio conto deve averne dette non poche. A ogni tratto, nella narrazione, saltava fuori il mio nome, seguito subito da una reticenza. Tra gli articoli di fede del Borsa c’è anche quello ch’io sia un uomo che sa tutto e che può tutto. Egli deplora grandemente che io lasci inerte la mia onnipotenza, ma credo che verrà la volta nella quale mi scoterò e che farò movere il mondo a mio modo. Egli dunque avrà cercato di far passare questa credenza nel suo nuovo amico, il quale non è terreno ingrato per queste cose. Il signor Mosè rimase colpito dalla grandiosità dei pensieri e delle combinazioni del Borsa, a quanto me ne disse questi, che non voleva render monca la storia per ubbidire troppo alla modestia. Non volendo parere da meno, il signor Mosè gli aveva confidato in ricambio l’affare del matrimonio d’Adelina col figlio d’un mercante, che era una combinazione profonda anch’essa e tutta sua. Però, in considerazione dei nuovi casi avvenuti, egli non esitava di associarsi alle viste del Borsa, e si faceva garante di guidare la barca in porto felicemente: ma bisognava lasciarlo solo al timone, perchè, diceva «le cose grandi non si menano a fine da tutti.» Bisogna però dire che le vie del signor Mosè non conducessero in paesi molto reconditi e lontani, se ventiquattr’ore dopo ci si era imbattuta anche la donna delle ova. Egli infatti cominciò col pigliare subito la signora Giuseppina, perchè, come si sa, la moglie è il ponte che conduce nella cittadella delle risoluzioni d’un marito. La signora Giuseppina in cinque minuti disse di no, disse di sì, e pigliò tanto fuoco, che ora non sa star più nella pelle. Ma siccome ha giurato di non dir niente sinchè durano i lavori di approccio intorno a suo marito, intrapresi con calma e ponderazione dal signor Mosè, così è tutta accesa in faccia, non può star seduta due minuti, va e viene di qua e di là, e tiene chiusa la bocca per timore che le sfugga il secreto. Ma quelle mezze confidenze, che vanno già in giro per il paese, le deve aver fatte tutte lei a furia di tacere. Siccome poi «quando si promette un silenzio proprio assoluto» diceva lei «non si può parlare che con una sola persona» così, dopo essermi stata un poco intorno come la farfalla al lume, la signora Giuseppina aveva finito anche questa volta per scegliermi a confidente delle sue gioie e dei suoi nuovi progetti. Essa dunque capitò da me per poterla discorrere con comodo, col cuore in mano, e lontana dagli occhi dei _seccatori_, come chiamava in quel momento gli amici di casa. Questo mio pensiero d’un matrimonio tra Aldo e Adelina era stato, diceva la signora Giuseppina, «l’ispirazione d’un Dio.» Le pareva impossibile che una simile idea non fosse venuta a lei: «però, soggiungeva, c’era mancato poco.» Ora poi lei vedeva tali combinazioni nell’avvenire, che sfidava chi si sia a vederne altrettante; e infilava il discorso su questo tèma con una serie di variazioni sulle corde più acute del suo entusiasmo, eseguite con la celerità di un maestro concertista. Per un po’ le tenni dietro; ma mi passò dinanzi, tutto a un tratto, un nuvolone che venne a gettare molta ombra sul mio orizzonte, e a farmi cambiare strada, per modo che la voce della signora Giuseppina presto non mi giunse che come la voce confusa d’una persona che parla da lontano. Alla fine venne a richiamarmi una fermata improvvisa, seguìta da un cambiamento di tono. La signora Giuseppina, accorgendosi forse che m’ero fatto serio, s’era messa sul serio anche lei, e aveva cominciato a dire che non c’è rosa senza spine, come diceva Baldassarre, suo primo marito, uomo di gran peso; e che le spine, ossia i pensieri e le difficoltà, sarebbero questa volta toccate tutte a lei. «Non parliamo di tutto il resto» continuava essa «parliamo solo della biancheria!... Il pensare a tutta la biancheria che ci vorrà per una contessa, crede lei che la sia cosa da niente?... che ci sia da canzonare?... Nel castello, lei lo sa, adesso ci ballano i topi, e a rifare una casa, sia detto tra noi, così spiantata, ce ne vorrà, denari a parte, dei pensieri e dei fastidi! E poi, e poi, me la vedo, avrò due case sulle spalle. So che cosa sono queste contessine!... Anche mia figlia la dovrò chiamare la signora contessina smorfiosa!» Con quale compiacenza l’avrebbe chiamata così, non lo diceva, ma si capiva da un risolino che spuntava anticipatamente. «Intanto» riprese la signora Giuseppina dopo una pausa «bisognerà che pensi a preparare Adelina, perchè una novità di questa fatta, lei mi capisce, sentita così su due piedi....» «Mi scusi» saltai su allora io con vivacità «lei non ne dirà nulla ad Adelina per il momento. Qui la mi deve permettere che comandi ancor io per un poco, e questa sarà l’ultima volta!» «Oh, lasci fare, so ben io come le si prendono queste cose! Ci vuole tutta la delicatezza... oh diavolo! non ho preso marito due volte per niente!» «Sta bene, ma il momento di parlarne con Adelina non è ancor giunto. Abbia pazienza, lo dirò io....» «Ma se, tornata a casa, io trovassi per esempio il signor Mosè, il quale mi dicesse che mio marito ha dato il consenso. Ma!... allora io corro da Adelina....» «Ah, è così che lei dà le nuove a poco a poco?» La signora Giuseppina cercò di ripigliarsi alla meglio, ma intanto io continuai e col tono più serio del solito le feci promettere di non far parola di nulla ad Adelina senza ch’io lo sapessi. Come l’ebbe promesso, e come si accorse che per il momento non poteva scovare di più, se ne andò, ma con la faccia un po’ lunga e con l’aria d’essere poco persuasa. Rimasto solo, quella nube che poco prima era venuta a offuscare il mio bell’orizzonte ritornò. Mi lasciai cadere sulla mia poltrona, e chiusi gli occhi. Mi pareva allora di veder giungere un messo con una lettera che chiamava Aldo al battaglione:... poi da lontano, tra un nuvolìo di polvere, vedevo correre, dove era più fitta la battaglia, le artiglierie, i battaglioni, Aldo.... Saltai in piedi, presi il cappello, ed uscii a respirare la brezza della collina, perchè in quel momento m’erano venuti addosso tutti i miei malanni d’una volta. * * * 28 aprile 1866. Sono proprio il sindaco di Borghignolo, non c’è rimedio! Quella carta col nastro di seta che mi lasciò nelle mani il prefetto, chiedeva ed ebbe una vittima. Pochi giorni dopo, ho dovuto ubbidire e comandare, alzar la voce, scarabocchiar carta in fretta, dissuggellare i pieghi, fare insomma quello che fanno dal più al meno tutti i potenti della terra. Io però mi son detto: _che bestia!_ quando sono salito al potere, mentre essi piuttosto se lo dicono quando discendono. Ma mi prometto di togliere questa differenza e di rinnegare la mia esclamazione, se alla fine potrò dire di aver fatto un po’ di bene. Intanto dovrò dare l’addio a queste pagine, e glielo do con dolore, a cui vo confidando da un anno tutto quello che mi passa per la mente e per il cuore. L’ozio che ci voleva per fantasticare, per tormentarmi, per scrivere, ora se ne è andato. D’ora innanzi i miei pensieri non li confiderò più che alla _carta bollata_. Sarà meglio?... Sarà peggio?... Mi è ritornato, non so come, un po’ di vita; dunque tiriamo innanzi, e cansiamoci dalle ricadute. Pure, prima di chiudere, forse per sempre, questo scartafaccio, vorrei scriverci ancora un’ultima pagina; l’ultima pagina della semplice ed intima storia che a poco a poco è venuta formandosi, compagna giorno per giorno dei miei pensieri. La fine è vicina, molto vicina. Ma quale sarà? Vedrò io crescere presso di me una lieta famigliola, che sarà il porto felice ne’ miei ultimi anni, o dovrò vivere ancora più triste e solitario di prima, col cuore spezzato da una nuova disgrazia?... Da un capo all’altro d’Italia si aspetta che il Re ci dica: «il tempo di riprender l’armi è venuto.» Domani stesso, anche sulle cantonate di Borghignolo, potrebbe essere affissa la chiamata dei contingenti. Domani stesso il Borsa, che finalmente siede trionfante nell’ufficio della posta, mi potrebbe dare la lettera che chiama Aldo al suo battaglione. E poi?... E poi aspetterò, lo so io con quale trepidazione, la fine della mia storia per chiudere questo quadernuccio al quale, comunque la vada, non avrò dopo più nulla da aggiungere. Oggi ho ancora una pagina lieta. Spero che non sarà l’ultima, ma mi affretto a scriverla. Il signor Mosè ha trionfato; è entrato nella cittadella, e ne è uscito con l’alleanza e con la pace perpetua. Il Garofani diede incarico a lui di portarmi il _sì_; poi venne con solennità a confermarmelo in persona. Mentre io mi disponevo a preparare Aldo a una nuova di questa fatta, la signora Giuseppina, ad onta di tutte le sue belle promesse, corse nelle braccia di sua figlia, e in un sol fiato le disse ogni cosa. Poi corse in cerca di Aldo, fece altrettanto, ed io li trovai abbracciati che ridevano e piangevano come due matti. Il primo giorno fu un carnovale. La signora Giuseppina era in giro per il paese a mettere a parte delle sue gioie quanti passavano per strada; Aldo non sapeva più quello che si diceva; il Garofani e il signor Mosè facevano piani e progetti, consultandosi a vicenda; il Borsa tonava in caffè contro i tiranni e contro i timidi. Tutta questa brava gente poi, non faceva che rincorrersi, cercando l’uno dell’altro. Quando si trovavano, era un riprendere le congratulazioni, abbracciandosi e baciandosi. Il signor Mosè, nell’entusiasmo, pigliava di tanto in tanto certe pose che pareva si preparasse a ballare. Insomma si sarebbe detto che a capire tanta allegria non bastasse il mondo intero, sebbene in quel momento io lo lasciassi tutto per loro. Avendo ben altro per il capo, io rimanevo intanto senza parole e sopra pensiero, nè c’era modo che mi potessi togliere di dosso una certa malinconia. Fortunatamente nessuno badò a me, perchè avevano altro a fare. Il giorno dopo ci fu un improvviso cambiamento di scena. Com’era naturale, Adelina, dopo un’emozione così forte e venuta così bruscamente, fu presa da qualche accesso convulso, e bisognò mandare per il medico. La signora Giuseppina diede subito in pianti e in smanie, e dietro lei, tutti gli amici di casa rimasero con la faccia lunga e senza parole, come se fosse accaduta una disgrazia senza rimedio. Io, che prevedo giorni ben più agitati e pieni di pericoli davvero, cominciai questa volta ad alzar la voce per acquietarli, e a dar loro un po’ di animo con lo strapazzarli dal primo all’ultimo. Adelina finalmente principiò a riaversi, e la baldoria in casa Garofani è ricominciata. La signora Giuseppina vuol festeggiare insieme gli sponsali e la guarigione della _contessina_, come dice lei, con un gran pranzo, e stamani la trovai in una discussione burrascosa col cuoco; discussione in cui non mi pareva che i contendenti avrebbero finito così presto con l’intendersi. Alla discussione per il pranzo prendevano una parte animatissima anche il Garofani, il Borsa e il signor Mosè. Questi però discutevano sugl’inviti, perchè, riguardo ai piatti, la signora Giuseppina aveva troncato ogni discorso, dichiarando ch’era affar suo, e che altri non doveva metterci il naso. Ma anche sugl’inviti non pareva che la discussione fosse per finire troppo presto. Il Garofani propendeva per una politica di conciliazione, e voleva invitar tutti, per chiudere con un pranzo quest’ultimo capitolo delle gare civili di Borghignolo. Il Borsa diceva ch’egli non avrebbe mai avuta la debolezza di consigliare simili transazioni. Diceva che gl’inviti andavano fatti con una mano di ferro, e ricordava i tempi della sua prima adolescenza, quelli di Napoleone I; tempi felici, in cui nessuno osava alzar gli occhi, e tutti tremavano come foglie. Il signor Mosè teneva strette le labbra, e accennando col capo, così al Garofani come al Borsa, di non esser lontano dal loro avviso, andava cercando il giusto mezzo tra le due opinioni. Di tanto in tanto ci buttava dentro qualche parola il cuoco, il quale propendeva evidentemente per delle esclusioni. Dietro il cuoco veniva per necessità la signora Giuseppina, ma essa sosteneva con calore che si facevano gl’inviti per fare festa agli sposi, e non per il bel muso degli invitati; che non si doveva dunque guardare troppo pel sottile; che più gente ci fosse, maggiore sarebbe l’allegria; e che, pur d’esserci il posto, un _piffero_ di più non guastava. Intanto Aldo e Adelina discorrevano tra loro in un canto della sala, arrossendo ogni volta che si guardavano in viso. Essi non si accorgevano di tutto il rumore che si faceva intorno a loro. Ne erano così lontani!... Erano in paradiso!... Ed io vedendoli in quell’estasi di felicità, pensavo alla chiamata dei contingenti, e mi sentivo stringere il cuore, per quanto non lo volessi e ne fossi stizzito contro me stesso. * * * 15 maggio 1866. La chiamata di Aldo al suo battaglione e quella dei contingenti, giunsero l’una dietro l’altra e ben presto, come me l’ero immaginato. Il mondo è pieno di dolori, ma la natura umana è così pronta a contrapporgli i suoi ripieghi, che il male non riesce mai così grave come si prevede. Io tremavo, pensando al momento in cui Aldo avrebbe dovuto staccarsi da Adelina e dalla sua nuova famiglia, e partire per la guerra. Avrei voluto darlo io a poco a poco questo annunzio, prima che arrivasse bruscamente; ma, nel pensarci, mi sentivo raccapricciare. Son così poco fatto io per essere messaggero di notizie che fanno piangere! Intanto i giornali e la voce che andava intorno non parlavano che di guerra, e si fissava anche il giorno preciso in cui sarebbe incominciata. Il signor Garofani sulle prime aveva accolte queste voci con un sorriso d’incredulità, e aveva l’aria di dire: «come volete mai che ci sia la guerra, mentre io non ne so niente?» Ma una bella mattina gli arrivarono lettere de’ suoi corrispondenti, e queste mutarono tutta la scena in un tratto. Entrando in casa Garofani, li trovai tutti allegri, e in mezzo a grandi novità: finalmente le notizie vere si sapevano: il Garofani con la scorta delle sue lettere, e parecchi del paese, venuti a far circolo, con la scorta d’una furberia tanto antica e sempre nuova, avevano combinato tutto un sistema di politica, che lasciava indietro di gran lunga quello che i governi volevano dar ad intendere. «Però» diceva uno della brigata «bisogna convenire che il governo fa bene a salvare le apparenze. Ma tra di noi, a quattr’occhi.... eh, eh, le si vedono le cose! Don Michele tace, ma scommetto che sa tutto da un pezzo!» Io che non ne sapevo proprio niente, a buon conto tacqui, rifugiandomi in quel sorriso col quale si piglia tempo, e che ognuno interpreta come gli torna. Tutti mi furono addosso, in un batter d’occhio, perchè votassi anch’io il mio sacco delle novità. «Piano, piano» presi allora a dire» mi dicano prima quel che sanno loro, e poi vedremo se siamo d’accordo.» Prima, uno alla volta, poi tutti insieme, facendo a chi ne metteva fuori di più furbe, mi condussero a traverso a una politica così fine, che qualche volta non era molto facile l’intenderla. Tra pochi giorni dunque, dicevano, sarebbe incominciata la guerra; ma non bisognava credere che le potenze volessero picchiarsi di buono. Eh, se fossero pazze! La cosa era già tutta combinata, o almeno ci mancava ben poco. La Prussia faceva finta di fare alleanza con l’Italia, per togliere il Veneto all’Austria, la quale faceva finta di far la guerra a tutte e due per salvare l’onor delle armi; e ammettevano che non aveva tutti i torti. La Francia e la Russia facevano finta di restar neutrali, per poi pigliarsi ciascuna qualche buon boccone, sul quale erano già d’accordo. Le ova erano belle e aggiustate nel paniere, ma naturalmente nessuno lo doveva sapere, e si faceva finta di fare una gran guerra per salvare le apparenze. Qualcuno poi, volendo spiegar troppo, inciampava in qualche punto oscuro, ma a ciò nessuno badava per non disturbare la simmetria delle combinazioni. E forse per questa stessa ragione, nessuno aveva voluto domandare a chi poi si trattasse di darla ad intendere, dal momento che tutti erano d’accordo! In fine poi si invidiava a una voce Aldo che, parendo di partir per la guerra, avrebbe passato una quindicina di giorni tra le feste e l’allegria, per poi tornarsene in Borghignolo a sposar l’Adelina. «Eh lei sorride!» saltarono su in parecchi; «lo dicevamo noi che lei sapeva ogni cosa già da un pezzo! Don Michele è sempre stato un gran diplomatico! Ci ha forse avuto anche lei una mano in questi affari: Eh! lei non lo dirà mai, ma ci sarebbe da scommettere! È fine don Michele!...» Confesso che in quel momento mi sentii come strascinato a prender parte alla comune allegria, sperando che la Provvidenza, la quale ci aveva pensato così bene sino a quel punto, ci avrebbe pensato anche poi. Il giorno dopo, eravamo tutti in piazza a far festa ai contingenti che partivano. S’era messo assieme dei quattrini, e si fece un po’ di borsello a ciascun soldato. Poi vennero de’ fiaschi di vino di cui la Giunta municipale fu molto larga, pensando che ne avrebbero bevuto anche i consiglieri. Erano ventisette i nostri soldati di Borghignolo a cui tutta la gente del paese era venuta a dare il saluto della partenza, tra gli evviva, le strette di mano, e anche qualche lacrima che una madre, una sorella, una sposa non sapesse trattenere, pure forzandosi di dividere l’allegria comune. Da ogni parte era un gridare, un chiamarsi a nome, un rispondere; chi intonava una canzone di reggimento, e chi una alle ragazze del paese; chi gridava viva l’Italia, e chi viva la Marianna o la Teresina! Nessuno era malinconico davvero, e anzi ognuno voleva parere un poco più allegro di quello che non fosse realmente. Quando poi s’era dato sfogo a qualche evviva in comune, i vecchi e le mamme si tiravano i loro figlioli a sè, e si vedeva la gente divisa in gruppi, intorno al soldato, a cui si dava una benedizione, un consiglio, o si chiedeva una promessa, un abbraccio, mentre gli si aiutava a infilare le cigne dello zaino, ad arrotolare il cappotto, o ad assestarsi il cinturone. Io non potevo levar gli occhi da quello spettacolo, e guardavo quella buona gente con una commozione profonda. Pensavo qual triste domani poteva venire per loro, dopo una giornata di battaglia. Pensavo al gran sacrificio che sarebbe rimasto ignorato, così di quelli che potevan morire, come di quelli che li avrebbero pianti! Tra questi pensieri, mi ritornavano alla mente i miei sogni giovanili, di quando, più che trent’anni prima, pensavo pieno di entusiasmo al giorno in cui da ogni parte d’Italia sarebbero accorsi i mille e i mille guerrieri per finire l’antica contesa. Adesso quel giorno era venuto. La scena era più semplice di quella che la fantasia mi aveva dipinta; ma il cuore ne era ancor più commosso, e gli occhi a stento trattenevano le lacrime. «Prodi guerrieri!» gridava il Borsa, salito su un mastello capovolto, nel quale poco prima s’era portato il vino, «ricordatevi di non lasciar partire lo straniero senza avergli fatto mordere la polve!... quella polve di quella terra, la quale.... sì! giuriamo che nessuno di noi ritornerà dalle Termopili!... giuriamolo in Pontida!... e quando saremo morti per la patria....» «Crepi l’astrologo!» saltò su a gridar uno; ma il Borsa non lo intese, e tirò innanzi con eguale enfasi, tra gli evviva che andavano crescendo in ragione inversa della chiarezza e della logica del discorso. Finchè un ultimo evviva dell’oratore ad Alessandro Magno mise il colmo all’entusiasmo. Poco distante dal Borsa, la signora Giuseppina, in mezzo a un crocchio di donne, stava spiegando la politica della Prussia. Delle quali donne, quelle che non avevano nè figli, nè fratelli, nè sposi che partissero per la guerra, ascoltavano la signora Giuseppina con ammirazione, e ogni tanto accennavano col capo di essere proprio del suo parere; ma le altre avevano l’aria di essere un po’ meno persuase, e prendevano quel fare mogio, mogio della gente di campagna, che lascia pur trasparire un tantino di diffidenza sotto il velo della rassegnazione. «Pazienza» diceva una di queste donne «se, come dicono, la fosse l’ultima guerra!...» «E dopo ci lasceranno i nostri figlioli per sempre?» domandava un’altra. «Quando a un figliolo tocca d’andar soldato e partire, la è una gran disgrazia, ma è sempre stato così, e ci vuol pazienza. Ma la guerra! Non sapete, Maria, che in guerra possono morire anche i giovanotti più sani e più robusti!» «Basta, intanto ci vuol pazienza» diceva sospirando la Maria. «Dicono che questa volta partono anche i signori, anche quelli che hanno pagato; tutti insomma, perchè deve essere l’ultima. Dicono che si tratta proprio della patria; che l’andrà bene, e che la Provvidenza ci penserà per tutti!» La rassegnazione di quelle donne incominciava a farsi meno malinconica, quando la Maddalena, il cui figliolo partito un giorno non era ritornato più, fattasi innanzi, esclamò singhiozzando: «Voi siete ancora fortunate, potessi anch’io oggi vederlo partire il mio Luigi coi vostri!» Le altre donne le si fecero allora tutte d’intorno, compassionandola e piangendo con lei. La signora Giuseppina si allontanò; e vedendomi a pochi passi, si volse a me per dirmi: «È inutile! non arrivano a capire come questa volta la sia una cosa tutta combinata. Ed è così chiara! così semplice! ma son tutti a un modo. Questi villani non capiscono mai niente!» Sulla bass’ora, in quello stesso giorno in cui partirono i contingenti, partì anche Aldo. Egli abbracciò tutti; poi strinse la mano di Adelina, con un’espressione di calma e di serietà, che vedevo in lui per la prima volta, e che mi resterà sempre fissa e viva sino a che non lo vedrò ritornato tra noi. Il Borsa fece per indirizzargli un discorso, ma, non essendogli più rimasto un fil di voce, dopo due parole si fermò. Anche la politica del Garofani trovò in quell’ultimo momento un intoppo; e tanto lui che la signora Giuseppina, dinanzi a quella serietà di Aldo, rimasero senza parole. Io mi feci vicino all’Adelina, vedendola farsi in viso bianca come un cadavere, e la presi sotto braccio. Volevo dire cento cose ancora ad Aldo, ma intanto il legno partì. Prima che giungesse alla cantonata, vedemmo sporgere ancora una volta la mano di Aldo che ci salutava; gli rispondemmo facendo sventolare la pezzuola, chè nessuno di noi aveva forza di salutar con la voce. Oggi tutto è quieto in Borghignolo. La speranza, sia benedetto chi l’ha inventata! asciugò le lacrime delle buone donne e dei poveri vecchi, che dicono in cuor loro: «Sarò proprio io quello a cui deve capitare una disgrazia? L’andrà magra con le faccende di casa ora che sono lontane le braccia più robuste, ma ci vuol pazienza; quando i figlioli saranno ritornati, ci aiuteranno a pagare i debiti.» E la è proprio così! Quando si domandano sacrifici al paese, è sulle braccia di questi poveri campagnoli che ne pesa la parte più grave e la più ignorata. Prima, la mitraglia, e dopo, i debiti. E il loro nome sulle gazzette non ci va nè prima nè dopo. Anche in casa Garofani le acque sono ritornate alla bonaccia. Tra quanti ci vanno c’è una specie di patto secreto di mostrarsi tutti d’una gran serenità d’animo. La signora Giuseppina è sempre occupata a fare e disfare, mentalmente, la casa degli sposi, senza essere ancora riuscita a trovare il posto adattato per una seggiola. Il Garofani, dopo aver taciuto per delle ore, a un tratto esclama con una fregatina di mani: «Speriamo! speriamo!» senza che nessuno gli domandi mai di cosa si tratti. In mezzo a tutto questo, la povera Adelina, che vorrebbe essere lieta anch’essa come gli altri, tiene fissi sopra di me i suoi due grandi occhi celesti, che paiono volermi domandare se siano da cacciare indietro quelle lacrime che vorrebbero sgorgare per forza. Allora io tento di sorridere e, accostandomi a lei, le principio qualche discorso, a proposito del bel tempo, o del figurino delle mode, e che finisce sempre con una lunga chiacchierata sul nostro Alduccio. Adelina ne rimane rasserenata, e anch’io mi sento un altro. Le parole di Adelina, piene di amore e di innocenza, mi ridestano nel cuore la memoria di quelle prime sensazioni giovanili, che dischiudono il bel fiore una volta sola in tutta la vita. Io le ascolto quelle parole col fascino col quale si ascolta una cara e nota melodia; e allora la mia mente richiama, con un dolore che non è senza piacere, quei giorni che non tornano più. * * * 24 giugno 1866. Da parecchi giorni siamo senza nuove di Aldo. Finora, dacchè è partito, e sono due lunghissimi mesi, non passò giorno senza una sua letteruccia, o scritta a tavolino, o dietro una siepe, che ci manteneva allegri, e ci faceva pensare a null’altro che alla gioia del rivederlo presto. Sulle prime qualche timore, qualche ansietà s’era provata anche in casa Garofani; ma, respinte con risoluzione, non ricomparvero più. I ragionamenti più strani e inconcepibili diventavano chiari come il sole, purchè concludessero con la fiducia e con l’allegria; così l’una e l’altra stabilirono il loro regno senza contesa, e si tirò via a maraviglia fin qui. Io poi m’ebbi sulle braccia tante piccole faccende, per essere il primo magistrato di Borghignolo, che potei sempre nascondere sotto l’aspetto severo del sindaco ogni cura malinconica del cuore, cosicchè nessuno se ne avvedesse. Di più, c’è la fortuna che la signora Giuseppina pretende da qualche tempo di avere scoperto ch’io sono un poco poeta, cosa molto comoda in casa Garofani, e che mi permette di non prender parte a tutto quello che vi si fa, di non risponder sempre, e di rimanermene a mia voglia sopra pensiero, senza che nessuno se n’abbia a male, perchè la colpa va tutta a carico della poesia. Se la profonda commozione dell’animo, che mi teneva tutto assorto e taciturno in mezzo alle chiassose conversazioni di casa Garofani era poesia, la signora Giuseppina si era ben apposta: tra lo scambio dei rimbrotti di chi giocava a tarocchi e le emozioni della tombola, sprofondato in una poltrona, io ripensavo alle cospirazioni, alle speranze, ai disinganni d’un tempo; rifacevo passo passo quel cammino angoscioso che mi conduceva oggi negli accampamenti, e sulle rive del Po, del Mincio e del Garda, a vedervi le schiere di quattrocento mila soldati del regno d’Italia. Ripensavo con voluttà ai giorni nei quali la parola d’un prigioniero o d’un esule giungeva senza eco tra un popolo servo e muto, ora che non v’ha tugurio, per quanto remoto, da cui non sia uscito un soldato o un volontario della libertà.... Tutti i ragazzi di quindici anni sono scappati di casa fino a uno, in Borghignolo, per arrolarsi nei battaglioni dei volontarii!; ed ora le mamme incominciano a chiudere sotto chiave quelli di dodici anni, perchè è già un affar serio il trattenere anche questi. Chi per trent’anni di fila l’ha aspettato giorno per giorno quello che vediamo oggi, ne racconti gli episodi, l’emozione, la gioia, se può! In quanto a me, da due mesi non ho potuto che tacere e lasciar crescere la muffa sul calamaio. Se oggi ripiglio la penna, è perchè un’ansia secreta del cuore è venuta a risvegliarmi dalla mia estasi. L’essere da più giorni senza nuove di Aldo ha rimesso i miei pensieri per una via malinconica, severa, che pure dovevo attendermi, ma dalla quale finora avevo saputo cansarmi. Siamo alla vigilia delle fucilate. Tutto me lo dice, e il silenzio di Aldo me lo conferma. Per cento e cento famiglie oggi forse è l’ultimo giorno della speranza; domani può essere il primo giorno delle angosce o della desolazione. Anche quel sogno di quiete e di felicità a cui avevo rivolto da qualche tempo tutti i miei pensieri, quella famigliola, che mi compiaccio tanto nel chiamarla dei miei figli, vicino a cui vorrei passare gli ultimi anni della mia vita, i miei progetti le mie nuove speranze, tutto può domani svanire dietro il fumo d’una fucilata. Ho sofferto e lottato assai nella mia vita. Ho passati de’ giorni di sfiducia, ed ebbi torto. Ho imparato, a questa mia tarda età, che per scotere la fede d’un patriota c’è qualcosa che è più forte delle prigioni e degli esilii: c’è la calunnia, o l’ingratitudine, o il poco senno de’ propri concittadini. Ma il soldato che abbandona la bandiera quando i disagi si fanno più duri e la mischia si fa più sanguinosa, distrugge in un giorno l’onore intero della sua vita. Se le mie forze sono indebolite, io proseguirò nella via del mio dovere, in questo cantuccio di paese, poichè del bene da fare ce n’è dappertutto e per tutti. La mia logora nave getterà l’áncora in questo porto che ho cercato con tanta fatica, e qui terrò alta, fino alla fine, la mia vecchia bandiera. Questo porto sospirato l’ho quasi raggiunto.... ma una disgrazia improvvisa può ricacciarmene lontano e per sempre. Allora il destino avrà vinto il vecchio marinaio; egli però ripeterà morendo la sua antica parola di guerra, e qualcuno la raccoglierà. * * * 26 giugno 1866. Avevo scritto ier l’altro al prefetto, pregandolo di mandarmi un espresso quando gli giungesse qualche nuova d’importanza. Stamani mi giunse un messo con queste poche righe: «Carissimo signore, «Un telegramma del ministero, giuntomi ieri sera e che vedrà nei giornali, annunzia una mossa tentata dalle nostre truppe e non riuscita. Le espressioni del telegramma lasciano nella maggiore perplessità. Chiesi nuove informazioni a un collega, prefetto in una città vicina ai luoghi ove è avvenuto lo scontro. Questi mi telegrafa ora le seguenti parole: _Impossibile oggi valutare gravità e conseguenze dello scontro avvenuto. Nostre truppe ripassano Mincio. Giungono da ogni parte feriti e sbandati. Gran confusione e allarme. Nessuna notizia sulle mosse del nemico._ La prevengo però che il mio collega, eccellente persona, è uomo che facilmente vede nero. Speriamo che presto ci giungano migliori notizie.» Oh! no! non m’illudo! questo è il primo annunzio d’una sventura!... Io dovrei fin d’ora prepararvi gli animi in paese, ma ci è così poco preparato l’animo mio, che se mi provassi a dire una parola di speranza o di conforto, darei in uno scoppio di pianto. Sono rimasto chiuso tutto il giorno nella mia stanza facendo dire che sono occupatissimo. Ho la testa che scotta e la mano fredda e tremante. Domani la sarà in paese una ben trista giornata. E poi?... * * * 30 giugno 1866. L’agitazione, il dolore, lo sconforto, di cui toccarono a me le amare primizie, sono oggi nell’animo di tutti i miei compaesani. Da mattina a sera, la piazzetta del paese è sparsa di crocchi e di gente che discorre animata, con l’espressione della sorpresa e del dolore. Nessuno ha testa per le proprie incumbenze e per le faccende di casa; è un discendere a ogni minuto in istrada; un andare e venire, facendosi incontro a quanti passano, per udire e ripetere cento volte le stesse cose. Da ogni parte si discute, si grida, si impreca. Ognuno vuole aver preveduti gli avvenimenti da un pezzo; pretende saperne la cagion vera, e vuole spiegare ogni fatto che si capisce poco, con ragioni che si capiscono ancora meno. Il dolore de’ miei compaesani non è calmo e severo, come dovrebb’essere, ma è profondo; si manifesta come può, e bisogna pigliarlo come viene. I discorsi incominciati con l’imprecare a quei nomi di personaggi, che si leggono più spesso ne’ giornali, finiscono per lo più con ingiurie e litigi tra gli interlocutori. Volendosi mettere a carico di qualcuno le colpe di tutti quelli che possono averne commesse, e meglio ancora volendosi aver sott’occhio il colpevole, il più delle volte la colpa delle nostre disgrazie vien gettata a qualche innocente galantuomo di Borghignolo. All’ora del corriere, tutta questa gente si affolla nello stanzino della posta, dove sta il Borsa. Il Borsa, che per essere quello che distribuisce i giornali si crede un poco responsabile di ogni notizia che vi si trova stampata, grida alla sua volta più di tutti; commenta, spiega, e conclude che le cose sono precisamente il rovescio di quello che appaiono. Con una faccia bianca come un panno lavato, bandisce i propositi più eroici, e vorrebbe farsi saltare in aria in compagnia di tutti i suoi compatriotti, nel mentre prova che le cose camminano a maraviglia e non potrebbero essere di color più roseo. Ai gruppi della piazza e ai discorsi del caffè, questa volta si associano contadini e contadine che, sentendo parlare di cattive nuove, si fanno innanzi a domandare con angoscia dei loro figlioli. Ma nessuno gliene sa dir nulla, e allora quella buona gente viene da me. Nascondendo l’agitazione e il dolore che ho nell’anima, io cerco di mostrarmi a tutti pieno di calma e di fiducia. Con quelli che sono più facili alla speranza, vado in traccia di qualche ragione pacata che possa tranquillare loro e me. Con gli altri, pigliando un fare burbero e sicuro, tronco le querimonie, le accuse, le parole di sfiducia. In casa Garofani, ove sono tutti mezzo tramortiti, cerco di tener ritti quegli argini dietro i quali avevano finora difeso essi stessi la loro serenità. Guai se cominciasse a filtrarci qualche dubbio! Tutti quei ragionamenti che avevano servito fino a ieri per rigonfiare la loro tesi, servirebbero oggi, dal primo all’ultimo, per provare tutto il contrario. Nell’udire le mie parole così franche e risolute, essi rimangono in una certa soggezione, e forse sospettano ch’io sappia qualcosa di secreto che nessun altro sa. Sola, Adelina, alza di tanto in tanto gli occhi incerti verso di me, e pare domandi se questo mio fare insolito sia di buono o di cattivo augurio. Povera figliola! Vorrei tenerle tutt’altro linguaggio, ma che cosa le posso dire fino a che non ho una nuova di Aldo?... Ho scritto al prefetto, pregandolo di fare tutte le indagini possibili, e di sapermi dire dove pressappoco si possa trovare il battaglione di Aldo. * * * 8 luglio 1866. I miei poveri argini sono rovesciati, ed ormai sarebbe inutile che cercassi di nascondere agli occhi altrui l’agitazione, i sospetti, lo sgomento che ho nell’anima. Sono passati quattordici giorni, dopo quella funesta battaglia, di cui non posso ancora pronunziare il nome senza sentirmi serrare il cuore, e non c’è ancora nuove di Aldo. Nei giorni delle lunghe marce e delle rapide mosse, sempre, sempre egli aveva trovato un minuto per mandarci nuova di sè. Ora in paese sono giunte lettere di quasi tutti i nostri soldati.... ma di lui, nulla! Di quasi tutti, ho detto, perchè uno di quei poveretti è morto: lo scrisse un suo compagno, che lo ha veduto cadere. Due o tre altri sono feriti. Di Aldo e di altri due, nulla! Ma si sa, pur troppo! che il battaglione di Aldo fu nel forte della mischia, e lasciò su quelle sgraziate colline molti e molti dei suoi. Queste cose le ripetono tutti, e il prefetto me le ha scritte e confermate più d’una volta. Ho cercato fin qui delle parole di speranza, perchè i neri presentimenti che leggo in viso a tutti non avessero ad uccidere la povera Adelina. Ma ormai non so più se la speranza sia un beneficio o una crudeltà. Io non so più che opporre alle querimonie e allo scoramento del Garofani e di sua moglie. Quegli amici che popolavano la loro casa sono scomparsi; ed io, dinanzi a quelle lacrime, rimango con gli occhi fissi al suolo, e mi par d’essere un accusato. Non rimaneva che un partito da prendere, e lo presi. Andrò io stesso a cercar Aldo. Lo cercherò tra le file diradate dei suoi compagni; negli spedali, nelle chiese, ne’ casolari, ove saprò che ci sia raccolto un ferito; andrò a cercare di lui su quegli altipiani,... tra i solchi recenti del cannone o lo sterro d’una vanga pietosa. * * * Presso Villafranca, 18 luglio 1866. C’è de’ momenti in cui spero, stropicciando gli occhi e spalancandoli, che questi giorni io non gli abbia attraversati davvero; spero di aver avuta una grossa febbre, e di aver veduto, vaneggiando, passare tutta questa fantasmagoria dolorosa che mi accompagna dopo che ho lascialo Borghignolo.... Ma il passo grave d’un gendarme, o lo scalpitare de’ cavalli d’una pattuglia d’ulani, mi dicono di tanto in tanto che non ho sognato per nulla: mi ripetono dove sono, come ci venni, e che aspetto. Come ci venni? In verità non ho testa per raccapezzare tutta la storia minuta di questi giorni, e mi basterà richiamare alcuna delle tappe dolorose che mi condussero fin qui, tanto per chiudere questi ultimi fogli del mio scartafaccio, e ingannare qualcuna di queste ore, così lunghe per chi aspetta. Quando, dopo tre giorni di viaggio, potei raggiungere quel battaglione di bersaglieri di cui ero in cerca, avevo già saputo che non ci avrei trovato Aldo. Il Maggiore, a cui mi presentai, mi prese la mano, me la strinse vigorosamente, e col fare semplice e severo mi interruppe dopo le prime parole, dicendomi così: «Non l’ho più nelle mie file; ho sperato assai.... ma ora.... non ne so ancor nulla. Lo vidi correre alla carica più volte; lo vidi ritornare illeso e ripartire. Quando ci fu ordinato di ritirarci, il suo capitano e molti, molti altri!, erano caduti; ma Aldo lo rividi ancora. Nella ritirata, a ogni passo dovevamo far fronte di nuovo e ripetere le cariche. Più volte ci trovammo confusi tra centinaia di sbandati che venivano da ogni parte, e tra le file di nuovi battaglioni dei nostri che sopraggiungevano. All’appello della sera, Aldo non rispose. Nessuno seppe darne notizia. Il giorno dopo, un ferito che raggiunse il battaglione, disse di averlo veduto zoppicare, sforzandosi di tener dietro alla compagnia, ma perdendo terreno a ogni passo. Non ne seppi altro. Feci delle ricerche, ma furono inutili.... Così è la guerra!... però egli si è meritata la medaglia al valor militare.... o lui, o i suoi l’avranno!» Mi strinse di nuovo la mano, mi guardò commosso, e mi lasciò. Io avevo cento cose a domandargli, ma in quel momento le dimenticai tutte. Due ore dopo, il battaglione partiva, e lo vedevo sfilare dinanzi a me. Il Maggiore aveva ripreso il suo aspetto fiero e sereno; i soldati cantarellavano o si motteggiavano a vicenda.... Io li guardai in volto a uno a uno, tutti, ma Aldo non c’era proprio più! Seguii con gli occhi il battaglione, finchè non vidi altro che un lontano polverio e non udii più il suono delle trombe. Allora, asciugandomi le lacrime, mi tolsi di là, e ripresi il mio doloroso pellegrinaggio. Visitai gli spedali delle città e delle borgate, le chiese, i casolari ove sapevo di trovare un ferito. Chiesi dappertutto del mio uffiziale dei bersaglieri, ma nessuno me ne seppe dir nulla. Mi trovai presto compagno e amico di altri che una stessa angoscia traeva per le medesime strade. Ci ricambiavamo le stesse parole di speranza, gli stessi consigli, e l’uno mandava l’altro ora di qua ora di là, dietro le medesime lusinghe che erano a lui riuscite vane. Ma anche quella mesta comitiva si diradava ogni giorno. Ne vidi più d’uno partire con una fatale certezza; altri, senza nuove e senza speranze. Ormai incominciavo a invidiare quelli che avevo lasciati al capezzale d’un morente. A Brescia ho fatto conoscenza con un uomo generoso, il padrone di questa casa, il mio ospite, che pieno di cuore e di amore di patria si è tutto dato, non badando a pericoli e fatiche, a cercare e condurre in salvo qualche povero soldato ferito, a dar nuove dei prigionieri, a riconoscere i morti, a mettere un segno sulle loro sepolture. Questo signore rianimò le mie speranze; mi disse che in qualche casolare al di là del Mincio c’erano ancora dei feriti nascosti; mi disse ch’egli poteva penetrare in Verona, visitarvi gli spedali e saper notizie dei prigionieri. Mi domandò come stessi a gambe e a risolutezza. Gli risposi che ero un antico cospiratore; allora mi strinse la mano, e m’invitò a seguirlo. Ora eccomi qui. Come ci sia giunto, passando il Mincio, a traverso a sentinelle e pattuglie nemiche, non so raccapezzarmene nemmen io. Camminai una notte per cinque ore, dietro i passi lunghi, inesorabili del mio duce, senza dir parola e senza quasi riavere il flato. Allo spuntare dell’alba giungemmo a questa casa: casa grande, vecchia, cadente, in cui non abita che il mio ospite e una sua vecchia fantesca. Io ero mezzo morto dalla stanchezza, ma il mio ospite, mangiato un boccone, si rimise in strada, e questa volta senza di me, per cercarmi il mio figliolo, come diceva lui, dietro il filo delle notizie e delle indicazioni ch’io gli avevo date. Ritornò a sera; mi disse che tra i pochi feriti, tuttora nascosti nei casolari, Aldo non c’era; che sarebbe andato il giorno dopo a Verona, ma prima voleva condurmi certi contadini che avevano degli oggetti trovati sopra soldati morti e da loro seppelliti. Vidi anche quella trista raccolta. Ebbi un momento di indicibile trepidazione; non riconobbi nulla! e un violento batticuore mi fece accorto che ritornavo alla vita. Vidi una spada spezzata; un elegante elmetto d’uffiziale pesto e tagliato da un fendente; un abitino della Madonna; una medaglia al valor militare; tuniche, cappotti, brandelli d’uniformi forati dalle palle, laceri, insanguinati; un portafoglio in cui era il ritratto d’una donna non più giovane, atteggiata di serietà e di dolcezza, il ritratto d’una madre... Di quante lacrime e di quanto lutto erano simbolo quei poveri avanzi! Il mio ospite appena si accorse che non avevo riconosciuto nulla, interruppe le mie meditazioni; mi fece animo, ravvivò le mie speranze, mi disse ch’egli partiva subito per Verona, che m’avrebbe mandate nuove di là, e m’ingiunse di aspettarlo senza uscire di questa casa. Lo volevo ringraziare, gli volevo rammentare cento cose, ma intanto egli era già partito. È partito da ventiquattr’ore. Quante ore da sperare mi rimarranno ancora?... E quelle spoglie che ho vedute ieri! Le ho sempre dinanzi agli occhi, le ritrovo in ogni pensiero. Quei poveri oggetti erano un giorno cari a qualcuno!; saranno stati a qualcuno compagni della vita, testimoni delle gioie, delle speranze!... Ed ora sono reliquie perdute, infrante, disperse, forse desiderate invano. Si direbbero cadaveri anch’esse; si direbbe che è mancato anche in loro il soffio della vita! Qui tutte le campagne ne erano coperte. Molte e molte saranno a quest’ora bagnate di lacrime; molte ne coprirà la terra, e nessuno le potrà rintracciare! Queste non saranno più reliquie domestiche.... serviranno un giorno all’agricoltore che le avrà trovate;... saranno curiosità vecchie, se l’Italia avrà cancellata questa sua pagina nefasta; saranno simboli di dolore, se sventuratamente ne avrà scritte di più nefaste ancora! Ed io che m’ero confortato nel non riconoscere nulla tra quei pochi avanzi che avevo veduti!... Non ho forse che a dilungarmi d’un passo fuori di questa casa, per trovarne altri, e riconoscerne più d’uno!..... . . . . . . . Oh!... è arrivato un messo del mio ospite che mi chiama a Verona. Mi manda un salvacondotto e una lettera di quattro facce, che incomincia: «Il suo figliolo è vivo, leggermente ferito....» Lo sapevo ben io! Eh! n’ero sicuro!... Non ho potuto leggere il resto, volendo partir subito. Ma il messo dice che il cavallo ora mangia la biada. Oggi poi gli occhi non mi dicono il vero.... in grazia del sole e della polvere;... anche i cristalli degli occhiali mi paiono deboli, deboli.... Mando a Brescia un telegramma per Borghignolo. Ripiego lo scartafaccio!... e vado a dire al cavallo che mi faccia il favore di spicciarsi questa volta con la biada più che può! L’AVVOCATO MASSIMO E IL SUO IMPIEGO. I. Sulla piazza principale, se pur ce n’è altre, di Castelrenico, una cinquantina di persone se ne stava in crocchi, in un giorno annebbiato d’autunno, ora discorrendo con calore, ora guardando con attenzione, proprio come se ci accadesse qualcosa di grosso. C’era de’ proprietari, de’ negozianti, il sindaco, qualche canonico, qualche impiegato, delle donne, de’ ragazzi, de’ contadini, quanto insomma può rappresentare Castelrenico, borgata di quattro mila anime, se i geografi me la passano. Che cos’era poi l’avvenimento? Due facchini andavano e venivano portando mobili e masserizie che deponevano nel mezzo della piazza, e due altri le andavano caricando su un carrettone. E per così poco gli ottimati, il clero e il popolo di Castelrenico passano il loro tempo in piazza? Quei di Castelrenico son fior di gente, rispondiamo noi, gente che all’occorrenza saprebbe occuparsi anche di quelle cose più importanti che succedono nelle città: ma se queste cose, dove son loro, non succedono, che colpa ne hanno essi? Del resto, chi legge vedrà che anche l’affare del carrettone, se non era proprio un affare di Stato, non era neanche una cosa che potesse passare con tutta indifferenza. Sulle prime il carrettiere, per far presto, aveva caricato più di mezzo carrettone senza pensare alla fragilità delle cose umane, e senza badare alla tutela del debole in una società di mobili in viaggio. Qua e là, quando proprio le regole del mestiere parlavan chiaro, per difendere uno spigolo dalle strette un poco violenti di una corda, ci aveva cacciato in mezzo un guanciale del letto o quello d’un sofà. Bel rimedio! E poi, mentre il cielo si andava rannuvolando, e bastava interrogare chi se ne intende per sapere che «forse la si passava senza pioggia, ma forse potevan venire quattro gocce,» il carrettiere non aveva pensato a disporre la roba in modo che le imbottiture rimanessero, in ogni caso, all’asciutto. Voleva mettere le materasse in alto «sapendo di non doverci dormir sopra lui se veniva un acquazzone,» come era andato a dire di crocchio in crocchio un tale che stava a vedere, e a cui era venuta in mente questa riflessione che gli era, a quanto pare, piaciuta molto. Insomma la voleva andar male per quei poveri mobili se dovevano far quaranta miglia a quel modo, per arrivare alla loro destinazione, ch’era Milano. Anche oggi, quando in Castelrenico se ne parla, e se ne parla spesso quantunque sieno passati parecchi anni, non c’è uno che non dica, che se non capitava Martino a fare quello strepito che fece, e a far ricaricare tutto da capo, quel carrettone avrebbe seminato mobili per tutta la strada, e lo avrebbero veduto arrivare pieno di gambe rotte, come un carro di poveri feriti. La circostanza più grave che giustificava in quel giorno, non direi l’ozio, ma quell’occupazione che poteva parere poco necessaria, dei cinquanta spettatori della piazza di Castelrenico, era che i mobili appartenevano a Massimo, al signor avvocato Massimo; il quale era nativo proprio di Castelrenico, come dicevano sempre i suoi compaesani, soggiungendo che, in quanto a talento, sarebbe stato sempre il primo anche in una città. Ora, il trasloco di que’ mobili voleva dire (quei del paese però lo sapevano da un mese) che l’avvocato Massimo partiva; che partiva il capo della gioventù del paese, perchè il nostro avvocato aveva soli trentacinque anni; che partiva quel tale insomma che, volessero o no certi barbassori, era il personaggio più importante di Castelrenico. Siccome però, anche noi, proprio come i suoi mobili, dobbiamo seguire l’avvocato Massimo e lasciar Castelrenico, per non farci che qualche scappatina di tanto in tanto, così prima di prender le mosse cercheremo di chiarire meglio quelle poche circostanze che ci sono già scappate fuori, ma solo in iscorcio, dalla penna. E poichè siamo in piazza, e in piazza, come abbiam veduto, la gente discorre a crocchi torno torno ai mobili e al carrettone, non avremo che a gironzare qua e là per aver la chiave degli avvenimenti. È inutile! le cose, per saperle davvero, bisogna sentirle raccontare dai testimoni oculari: e così faremo noi. Che se i discorsi della piazza non bastassero, perchè di certe cose, tanto eran note, non se ne discorreva più, cercheremo di riempire noi le lacune con la memoria di quel tanto che ne sappiamo. «Quello che non arriverò mai a capire» diceva il salumaio in un crocchio dove c’erano, tra gli altri, un vetturale e il cursore del Comune «è come si vada a prendere un carrettiere fuor di paese!...» «Ve lo dico subito io» prese a dire il cursore. «No, no!» continuò il salumaio «questa non la capirò mai! Pazienza farlo venire da lontano; ma andarlo proprio a pigliare in un paese vicino perchè tutti abbiano a dire che a Castelrenico bisogna ricorrere ai forestieri!... no, no! Questa, se lo lasci dire il signor Massimo, è grossa!» «Ma lasciatemi parlare! sentirete....» «No, no!... E infatti cos’è successo? Se non c’era Martin matto, ce la voleva far vedere la bella frittata con que’ mobili, lui.... il signor carrettiere forestiero!... e dopo cinquanta passi!... capite?... Ve lo dico io, senza essere strologo. Ma il signor Massimo se la sarebbe meritata....» «E in quanto a me avrei detto: ben fatto! perchè in queste cose ci vuole un esempio!» interruppe il vetturale. «Che se il signor Massimo faceva il contratto col nostro Checco....» continuava il salumaio. «È qui che vi volevo! Ma se non mi lasciate parlare....» «Io già so che tutte le volte che Checco ha caricato dei mobili, e in due anni, dal 59 a quest’oggi, ne abbiamo veduti degli impiegati e dei carrettoni andare e venire! ebbene....» «Ebbene, se mi lascerete parlare vi dirò....» prese a dire questa volta con maggior forza il cursore «che appunto Checco, avendo fatto anche lui una frittata coi mobili del delegato della Questura partito tre mesi fa, quel delegato mandò carta bianca all’avvocato Massimo per farsene risarcire; e adesso Checco, che naturalmente vede il signor Massimo di mal occhio, appena s’è trattato di trasportargli a Milano i mobili, gli ha detto un bel no! L’avete capita ora?...». «Io però vi dico che della roba n’ho fatta venir tanta anch’io.... casse di sapone, otri di olio, prosciutti di prima qualità.... e Checco non m’ha rotto mai niente! La cosa è che anche il signor Massimo, dopo che se l’intese col Governo per questo grande impiego di cui si parla, non è più l’uomo d’una volta. Rispetto ancora il suo talento.... ma questa è la mia opinione!» In un altro gruppo poco lontano da questo, c’era chi pretendeva sapere che l’avvocato Massimo prendeva moglie. «Quanto all’impiego non c’è che dire, perchè quand’uno si porta con sè fin la granata, vuol dire che costui, un impiego, e di quei grossi, se l’è buscato. Ma quanto alla moglie poi....» «Una moglie, vi dico, e con delle mila lire parecchie!» «Eh, per bacco! le mila lire poi non fioccano neanche a Milano! Massimo è un buon giovanotto, ne convengo, ma poi....» «Ma poi, diciamola chiara,» prese a dire un terzo «da che è tornato da Milano, m’ha preso anche lui un certo fare da aristocratico.... A buon conto non è più venuto a berne con la compagnia neanche un bicchiere....» «Vedete quella cesta.... quella che ha portata il carrettiere.... la vedete? Ecco, ne cava fuori tre cazzarole.... un pentolino.... una caffettiera.... e un’altra cazzarola.... siete persuasi adesso? Tutta roba nuova, capite? roba fatta fare apposta! Ecco se l’avvocato prende moglie o no!» «Sarà roba vecchia fatta stagnare, e lustrata dalla serva!» «Volete scommetterne una bottiglia!» «Eh, eh, non facciamo grandezzate!» «Scommettiamone mezzo litro....» «Dite pure un boccale, che mi ci trovo meglio.» «Come volete voi. Andiamo dal magnano e sentirete.» «Andiamo pure.» Intanto l’attenzione degli altri spettatori s’era rivolta improvvisamente a qualcosa di nuovo, e siccome una voce gridava «largo, figlioli!... largo, signori!... largo, di grazia!...» così tutti, per vedere cos’era, si spingevano l’un l’altro addosso a quel pover uomo che domandava precisamente il contrario. Questi era Martino, che con gran fatica e precauzione attraversava la piazza portando sulle spalle una lastra di marmo. «Povero martire!» diceva un contadino a un artigiano. «Povero asino! dite piuttosto; faticare a quel modo per uno che non lo guarda neanche in viso!» «Avrà fatto, come e qualmente, il suo bravo contratto....» «Contratto? Scommetto che non gli dà neanche da bagnare il becco!» «È vero che Martino è uomo da non averne bisogno, perchè se la passa bene, sapete. Adesso ha preso anche qualcosa dell’eredità.» «Sì, sì, ma ne ha fatte delle vite quel pover uomo! e di tanto in tanto ne ha patita della fame! Ebbene, il suo gran gusto è quello di farsi in quattro per il signor Massimo....» «Non lo chiamano Martin _matto_ per niente.» «E credete voi che il signor Massimo gli abbia detto una volta: — ehi, Martino, venite a berne un bicchiere in compagnia? — Mai, capite! Lasciatele dire a me certe cose, che le so!... E pensare che son parenti!... Perchè poi le nostre giacchette abbian da fare tanta paura alle cacciatore di velluto, e anche solo di frustagno, non lo saprei!» «È perchè le nostre son fatte in casa dalle donne, e le altre le fa quel nano che beve il caffè, seduto a tavolino, sulla porta della bottiglieria insieme ai signori!...» «La sarà così!» Un nuovo rumore interruppe anche il dialogo di questi due, i quali mossero con la maggior parte degli spettatori verso il carrettone dove era ricominciato un alterco tra Martino e il carrettiere. «Credete voi che una lastra, perch’è di marmo, non vada in quattro se riceve un colpo?» gridava Martino. «Ve l’avevo detto io, o no, dove la si doveva mettere?... Via questo cassetto.... svelto!... via questa roba.... Che non si possa andarsene un momento.... Eh per bacco! s’è fatto così scarso il sale in zucca alla gente! Quand’uno fa un mestiere, dovrebbe almeno averlo imparato!...» «Oh, sapete che ne son pieno! che un rompistivali come voi bisogna farlo fare apposta! Credete d’esser voi il padrone?» gridava alla sua volta il carrettiere. «Credete, perchè fate il legnaiolo, d’esser voi quello che ha inventato il tagliere della polenta?» Qui gli spettatori diedero in una grande sghignazzata; e Martino senza badarci continuava intanto il suo lavoro. «Non c’è più corda? Animo, Tonino,» diceva a un suo figliolo;» corri a casa e fatti dare dalla mamma una bella corda lunga.... la casa di Martino non fallirà per questo!» Dalla porta del caffè, che chiamano il caffè della _Fratellanza_, dove stavano a crocchio dieci o dodici persone, ora discorrendola con qualcuno ch’era seduto in bottega a legger le gazzette, ora facendo da spettatori anch’essi della mobilia e del carrettone, si erano mossi due o tre al rumore di quella nuova bega, per meglio goderla da vicino. Ma finito il primo scroscio, quei due o tre eran ritornati nel crocchio a raccontare quel poco che abbiam sentilo anche noi, e a ripigliare il discorso di prima. Il discorso, anche lì, era quello della giornata: Massimo, i suoi mobili e il suo impiego; discorso che, allungato e frammischiato da mille divagazioni, interrotto e ripreso dall’andare e dal venire degli interlocutori, era cominciato nelle prime ore della mattina e si avviava a continuare fino al tramonto. Dei discorsi che si facevano in bottega, succedeva press’a poco come del caffè che bolliva in una gran caffettiera su un fornello dietro il banco. La caffettiera, piegandosi ora da un lato, ora dall’altro, stava sul fornello da mattina a sera. Ogni tanto capitava il padrone a levarne una chicchera, a rimetterci dell’acqua, o a darci una rimescolata; ma il fondo, poco su poco giù, nelle ventiqualtr’ore era sempre il medesimo. Di avventori ce n’era d’ogni sorta, perchè dopo una sbevazzata all’osteria, per finirla con un bicchierino di liquore, o con una chicchera di caffè, ci capitavano in via straordinaria anche de’ carrettieri, degli operai, de’ contadini. Gli avventori ordinari però, quelli dei discorsi di lunga durata, erano persone di maggior conto; eran quelli insomma che per avere qualcosa, per esercitare una professione, o per il loro far niente, formavano il ceto più ragguardevole del paese. Questi tutti erano amici dell’avvocato Massimo, compagni antichi di scuola, o compagni recenti di partite al bigliardo e di cene all’osteria; erano suoi clienti o suoi ammiratori; gente tutta avvezza, fino allora, ad avere Massimo in gran concetto, a non far nulla senza di lui, e a riconoscergli, in Castelrenico, il posto più alto nelle sfere della popolarità. Abbiam detto _fino allora_, perchè a udire in quel momento le ciarle del caffè, c’era da scommettere che neanche la popolarità dell’avvocato Massimo potesse durar sempre; cosa che solo pochi mesi prima avrebbe giurata chiunque. Povero Massimo! «Dicevano che Martino volesse litigare con Massimo per l’affare dell’eredità, ma mi paiono amici meglio di prima! Che ne dite? Non se la piglierebbe così calda Martino stamani!...» «Io dico che tra un mese vediamo diventar ministro, questore o ambasciatore anche Martin _matto_!» soggiunse un tale che passava le sue giornate sulla porta del caffè, seduto su una panchetta, con una pipa di gesso in bocca e coi gomiti che, a memoria d’uomo, uscivan dalle maniche. «Sicuro!... Ci sarebbe da scommettere! Avete ragione! Dite bene, voi!» risposero in coro gli altri. «Per gli impieghi» continuò quello della pipa «l’importante sta nel saper trovare la vena giusta. Trovata la vena, c’è impieghi per chi ne vuole!» Anche questa volta ci fu un «benissimo» su tutte le bocche. Quando parla quello della pipa, che ha la lingua più lunga di quanti ce n’è in Castelrenico, tutti s’ammazzano per dargli ragione. «E si sa cosa sia questo grande impiego?» «Ma non è tutto! Si dice che a Milano ha trovata anche una moglie.... e una moglie con de’ quattrini!» «Ci credete voi?» «Eh! se manda a Milano fino i mobili, vuol ben dire che o impiego, o moglie, o qualcosa di simile ci deve essere!» «Io, a buon conto, non ne credo un’acca!» «E così resterete con un palmo di naso.» «Ho capito! Son diventati tutti diplomatici come Massimo! Siete forse lì lì anche voi per buscarvi un impiego?» «Se me lo date voi!... Eh sì! noi siamo tagliati alla buona, e gli impieghi se li pigliano i furbi, quelli che conoscono la politica!...» «Non per fargli torto, che anzi sono suo amico, ma per giustizia, domando io che cosa ha fatto questo Massimo per aver dal Governo un impiego? Perchè proprio lui e non un altro? Oh per bacco! che Castelrenico finisca con l’illustrissimo signor Massimo?» «Ha trovato la vena, come dice l’amico, non la volete capire, voi!» «Ma insomma si può sapere una volta che impiego è?» ripigliava con maggior forza uno del crocchio che non era ancor riuscito a farsi rispondere. «Ma è appunto questo che non si sa! E quindi è chiaro che si tratta di qualcosa di grosso! Intanto però io ne so già abbastanza per poter supporre, e in modo positivo, da qual parte venga la protezione.... la vena, come dice l’amico....» «Oh! alla buon’ora! Sentiamo, dite su!» «In primo luogo, si dice che ci sia un signore, un pesce grosso, il quale voglia mandar suo figlio avvocato in Castelrenico....» «In Castelrenico?... un forestiero?...» «Avvocato, dicevo, in Castelrenico. Dunque bisognava fargli il posto, e per farglielo buono bisognava mandar via Massimo, che è quello appunto che guadagna più degli altri!» «Un forestiero?... in Castelrenico?» «Mentre in paese siamo almeno dieci, tutti avvocati e notai, che siam qua tutto il santo giorno sul caffè a star a vedere se ci capita un miserabile posto!...» «Oh! se viene un forestiero vi prometto io che se ne sentiranno delle belle!» «Ma credete forse di pigliarlo voi altri il posto di Massimo?» saltò su quello della pipa. «Siamo troppo onesti noi! lo dice anche il foglio. Anch’io, se avessi voluto farmi l’amico dei potenti, ne avrei a quest’ora degli impieghi a bizzeffe!» «Sicuro! sicuro!» ripetè il coro. «Che l’impiego venisse da quel tale che abbiamo nominato noi, proprio noi, deputato?» domandò uno con tanto d’occhi fuori. «Probabilissimo!» «Eh sicuro! gli impieghi sono dati dal Parlamento.... dunque.... oh! adesso la si vede chiara!...» «Questo però ci servirà di norma per un’altra volta!» «Avete ragione!... Il mio voto non lo piglierà una seconda volta quel signor deputato!... non per altro, ma perchè nelle cose ci vuol giustizia! Il nostro voto non vale forse tanto quanto il voto del signor Massimo? Ma signor no! a Massimo un fior d’impiego, e a noi un fico!» «Proprio così! In questa faccenda degli impieghi, io dico: o a tutti o a nessuno! Ed è un pezzo che io la vado dicendo questa cosa!» «Fiato buttato via!» «Ma ditemi un poco, cosa sarebbe per il Governo il dare un impiego, anche piccolissimo se volete, a tutti quelli che in un paese hanno una certa capacità? La sarebbe una inezia! Si potrebbe far economia in tutt’altro, e si accontenterebbero tutti!» «Voi volete dirizzar le gambe ai cani! Trovate la protezione e troverete l’impiego! Fate come Massimo....» «Vi confesso che io avevo una grande opinione di Massimo, e che una cosa simile non me la sarei aspettata mai! Domandare un impiego tutto per sè, piantare gli amici, e non dir niente a nessuno.... Oh! dico il vero, di queste non me ne aspettavo proprio da Massimo!.........» «Oh! ecco il nostro Massimo!» «Qua, qua, ma insomma gli è mill’anni che non ci vediamo!» «Adesso poi non ci scappi! Non sia mai detto che si lasci partire il nostro Massimo da Castelrenico, senza che se ne beva una bottiglia alla sua salute!» «Bene, benissimo! Si faccia un pranzo!» «Un pranzo! Ecco la parola d’un uomo di talento!...» Era stata, come si vede, l’improvvisa comparsa di Massimo la causa di quel subito cambiamento di discorso. L’avvocato Massimo, che s’avviava verso il carrettone a vedere qual sorte era toccata a’ suoi mobili, dopo che li aveva mano mano consegnati ai facchini, non avrebbe veramente voluto imbattersi negli amici in quel momento. In altri tempi avrebbe detto loro: «oggi non posso badare a voi,» e avrebbe tirato diritto, sicuro che una sua risposta, più aveva l’aria d’esser burbera, e più sarebbe stata presa in buona parte. Ma questa volta si sentì come impacciato; si sentì come debitore, d’un impiego almeno, verso tutti quegli amici; non ritrovò la solita disinvoltura; e per quanto gli premessero i mobili, rimase inchiodato lì sulla porta del caffè. «Al vino ci penso io. Sarà un vino che farà perdere la diplomazia anche al nostro Massimo«! Oh, questa volta il nostro Massimo lo facciamo cantare!» «Che volete che canti?» rispose Massimo «con gli amici non ho segreti.. Mi pare d’averlo detto tante volte.» «Sicuro! e i mobili si mandano a fare un viaggetto a Milano, non per altro, che per far veder loro la città e il ballo nuovo della Scala.... eh, la è chiara!» «Insomma, caro Massimo, dobbiamo proprio aspettare che ce lo dica il giornale che cos’è questo impiego? Scommetto che hai la nomina in tasca! fuori dunque! falla vedere agli amici!... » «La nomina in tasca non l’ho davvero....» «L’avrai in casa.» «Neanche.» «In una cassetta dei mobili, là.... sul carrettone, o in una valigia!» «Ma se vi dico di no!... Potrebb’essere in viaggio, non lo nego, ma non è arrivata.» «E l’impiego è?...» «Ah, questo poi non lo so!» «Come? Non lasci in Castelrenico neanche la trappola dei sorci, e mi vorrai dire che non sai che cosa vai a fare laggiù?» «Eppure è così!... lo so e non lo so!...» «Sarà un impiego grosso.... e non lo si potrà dir tutto in una volta.» «Dunque lo sapremo a poco a poco....» «Lo saprete, ve lo prometto. Sarete i primi a saperlo.... abbiate pazienza....» La comparsa improvvisa di un nuovo personaggio che, in quel momento passando davanti al caffè, rivolse la parola a Massimo, venne a troncare quel dialogo ostinato che minacciava di continuare un pezzo, con poco frutto di quelli che interrogavano, e con nessun gusto di chi doveva rispondere. Però Massimo avrebbe preferito d’essere salvato in altro modo. Il nuovo personaggio, di cui faremo conoscenza più tardi, era il marchese Renica, il quale dopo aver salutato l’avvocato Massimo, gli ricordò che tra mezz’ora l’aspettava a pranzo. L’avvocato rispose con un gran saluto e con qualche parola di complimento un po’ biascicata; poi si accomiatò dagli amici dicendo di voler dare un’ultima occhiata a’ suoi mobili. Egli capì che quel pranzo in casa del marchese non sarebbe piaciuto agli amici, e che il pranzo e l’impiego li avrebbe forse potuti giustificare separatamente, ma non tutti e due in una volta. «Avete veduto?» «Sicuro!» «Avete sentito?» «Avete veduto che Massimo s’è fatto tutto rosso in viso?» «Avete sentito?... Massimo va a pranzare in casa del marchese!... Oh! adesso si capisce tutto!» «Sicuro!» «Massimo che pranza in casa del marchese!» «Oh, adesso la cosa è chiara!» «Chiarissima!» «Chi l’avrebbe detto!» «Oh! adesso si capisce tutto.... tutto si capisce!...» E ripetendo tutti, a buon conto, che avevan capito ogni cosa, quei del crocchio se ne andarono mano mano pei fatti loro, non essendoci altro per quel giorno nè da scoprire nè da capire. L’avvocato Massimo, data un’occhiata ai suoi mobili e fatte quattro parole col carrettiere, se ne ritornava in fretta verso casa per levarsi la cacciatora e mettersi il soprabito. Anche Martino, assicuratosi che tutto era in ordine, e che le corde non si sarebbero allentate, seguiva una sua bambina venuta a dirgli che la minestra era scodellata. Noi li seguiremo tutti e due, prima Massimo, poi Martino, perchè oramai cala la notte, la piazza si vuota, e non c’è più nulla da vedere. È comparso, è vero, un lampione a una cantonata, ma siccome questo lampione ha l’incarico, per cumulo d’impieghi, di rischiarare a un tempo la piazza, un crocicchio di tre vie, e la finestra del segretario comunale, così non si può pretendere che ci lasci vedere gran cosa. II. Non si creda però che a vuotare le stanze dell’avvocato Massimo bastasse quella sola carrata di mobili che abbiam veduta sulla piazza. Massimo se l’avrebbe a male di certo se qualcuno sospettasse una cosa simile, e per ciò soggiungiamo che il carrettiere dovette fare un secondo viaggio e ripartire con un carico poco minore del primo. Infatti, noi troviamo ora Massimo nella sua camera, in cui c’è pure, oltre il letto, un cassettone, un candeliere, e uno specchio appeso all’intelaiatura dei vetri della finestra. Peccato che non ci sia anche un tavolino!... Massimo non avendo preveduto il caso di doversi mettere quella sera una cravatta allo specchio e al lume della candela, non aveva pensato a tenersi in casa un qualche arnese da posarvi su un candeliere. Così anche questo problema era venuto ad aggiungersi a parecchi altri, che in quel momento confondevano la testa di Massimo, e gli mettevano addosso un’impazienza vicina a dare in uno scoppio di furia. Aveva finito col posare il candeliere sul mattonato; aveva sciupato due solini l’un dopo l’altro nel metterseli in fretta e quasi all’oscuro, e non aveva ancor deciso a quale cravatta e a qual panciotto dovesse dare la preferenza. Intanto i minuti, che erano contati, passarono, e a Massimo pareva già di arrivare in casa del marchese a minestra finita. Un altro problema ancor più grave, a cui aveva pensato tutto il giorno e che credeva d’avere sciolto, gli ricompariva adesso dinanzi con tutte le sue difficoltà ad imbrogliarlo anche in quel po’ di nodo alla cravatta, per il quale avrebbe tanto desiderato una certa tranquillità d’animo. Era un dubbio, un’alternativa, da cui, come vedremo, credeva d’essere uscito. Si pensi dunque la sua impazienza nel vedersi tornare ancora dinanzi quel punto interrogativo, nel sentirsi ancora domandare una risposta! Così, chi lo crederebbe? mentre faceva di tutto per cacciar via la tentazione di que’ dubbi, avrebbe voluto che gli si staccasse un bottone dal colletto della camicia, e avere così un minuto ancora per discutere e per risolvere. Massimo, in Castelrenico, se l’era sempre passata benone: con un po’ di bonomia e di furberia aveva saputo essere l’amico di tutti; tutti l’avevano in gran conto: si trattasse di politica o di merende, il capo era sempre lui. Aveva qualcosellina del suo; come avvocato guadagnava discretamente, e da ultimo aveva avuto anche una piccola eredità. Si sarebbe detto insomma che non gli mancava nulla: ma, venuto il 59, un diavolo tentatore cominciò a fargli sapere di qualche suo compagno dell’Università che s’era buscato di colpo un grosso impiego; e poi mano mano gli fece passare nelle vene un certo filtro che non gli dètte più pace; gli empì di fumi la testa, e non gli lasciò veder altro che onori, cariche, e un futuro Massimo di grande importanza. Massimo sulle prime non disse nulla in paese, ma fece il suo disegno. Sotto vari pretesti lasciava Castelrenico a ogni tratto, e scendeva a Milano a riannodare delle conoscenze vecchie o a farne delle nuove che potessero dar colore ai suoi disegni. Trovò un deputato per Castelrenico, e se lo fece suo: trovò speranze e promesse per l’impiego che sognava fin che ne volle; e quando proprio gli parve d’essere a tiro, fece partire i mobili, e ne fece anche una più grossa, come vedremo a suo tempo. Però, quando vide i mobili uscire di casa, Massimo cominciò a riflettere più seriamente di quello che non avesse fatto fino allora, che l’impiego doveva, è vero, venire, ma non era ancora venuto. Fu allora che pensò di preparare un piano di riserva per il caso che i piani principali andassero falliti, e cominciò a discutere tra sè, se dovesse raccomandarsi al marchese Renica, il quale aveva di certo chi sa quante di quelle conoscenze in alto, di cui una sola basta, come pensava Massimo, per ottenere tutto quello che si vuole. Ma gli si presentavano due cose rincrescevoli: la prima era quella di dover confessare che quel tale impiego, di cui tutto il paese parlava e per il quale andava accettando le congratulazioni, non era finora che una speranza; e la seconda era quella di dover pregare il marchese, personaggio di colore aristocratico, e col quale, com’egli aveva detto tante volte con gli amici, poteva tutto al più dividere un pranzo, ma non una sola delle opinioni politiche. Massimo dunque aveva dubitato tutto il giorno; ma di mano in mano che vedeva uscire un mobile di casa, anche i dubbi gli diminuivano, e alla fine s’era deciso di raccomandarsi al marchese e di parlargli dell’affar suo quella sera stessa, subito dopo il pranzo. Ma, come abbiamo veduto, i dubbi nella scelta della cravatta gli avevano ridestati tutti i dubbi di quella giornata, e per discutere ancora, andava tirando i bottoni per assicurarsi che fossero saldi. Lo erano; e in quel punto sonavano le sei. Massimo allora, fatti gli scalini a quattro per volta, infilò le strade di corsa, e come fu al portone del palazzo Renica non pensò più ad altro che a cercare il modo migliore per confidarsi col marchese e domandargli la sua protezione. A proposito di questa protezione gli amici avrebbero potuto dirne molte, e a proposito del marchese egli ne aveva dette, altre volte, moltissime; ma in quel momento al suo pensiero non si presentò nulla di tutto questo: tante sono le cose che si dimenticano quando si chiede un servigio!: e dopo poi, quando il servigio è stato reso, se ne dimenticano ancora di più. Il cameriere del marchese Renica, nell’annunziare il signor Massimo Della Valle, annunziò anche ch’era in tavola. Il marchese, data a Massimo una stretta di mano, andò a porgere il braccio a sua nuora, e s’avviò verso la sala da pranzo seguito dai commensali. Oltre al marchese Antonio Renica, sedettero a tavola il maggiore de’ suoi due figli il marchese Giorgio, la moglie di lui la marchesa Giulia, il curato, il signor Mevio ingegnere della casa, il signor Rocca consigliere di tribunale in pensione, il nostro Massimo, e don Gilberto. Don Gilberto, di professione uomo elegante, possidente, celibatario, e che aveva passati, non si sapeva da quando, i cinquant’anni, dopo essere stato il compagno indivisibile di tutte le scappate giovanili del marchese Antonio, gli era ora il collega fedele d’ogni sera a’ tarocchi, togliendosi per un’ora al bel mondo al quale non aveva mai rinunziato. Don Gilberto era appunto venuto in quel giorno da Milano, e s’era trovato per istrada col signor Mevio e col signor Rocca. Durante quei primi momenti di silenzio che cominciano con la minestra, Massimo, dopo aver aggiunto a’ suoi piani, lì su’ due piedi, anche quello di non fare le sue confidenze al marchese che dopo il pranzo e a quattr’occhi, se ne stava già tutto con l’animo sospeso per timore che, durante la tavola, qualcuno scappasse fuori a parlare del suo impiego, e così gli mancasse poi l’occasione o il coraggio di riparlarne col marchese in un momento più favorevole. Ma con sua gran consolazione si cominciò a parlar di tutt’altro. Don Gilberto, seduto vicino alla marchesa Giulia, aveva subito preso a raccontare una filza di storielle campagnole e cittadine raccolte di fresco, e tutte nuove per i suoi ospiti. La marchesa, che pareva rinascere, interrompeva a ogni tratto con domande don Gilberto, e nel lasciare mano mano l’aria svogliata e troppo rassegnata che aveva di solito a Castelrenico, si faceva bella ancora per un momento come fosse in città. Il marchese Giorgio, giovane marito, rideva; rideva fin troppo, perchè certe cose è prudenza ascoltarle come argomenti di studi, lasciando da parte le risate. Il marchese Antonio si divertiva anche lui, e il suo gusto era quello di compiere le frasi quando don Gilberto si fermava e ne ravvolgeva la fine in qualche velo elegante. Gli altri commensali di tanto in tanto fingevano di prender parte anch’essi a quei discorsi e di divertirsene, benchè non ne capissero nulla; circostanza di cui don Gilberto non pareva curarsi molto. L’ingegnere Mevio, in qualche momento d’intervallo, aveva cercato di far ripetere al curato, per la centesima volta, una vecchia storia di certe orecchie d’asino scambiate da lui, andando a caccia, per le orecchie della lepre; e il curato, facendo il sordo, aveva cercato deviare l’attenzione dalle sghignazzate dell’ingegnere voltandosi verso Massimo con un «dunque, signor avvocato, quand’è che si va a Milano?» Ma l’avvocato facendo il sordo anche lui, s’era voltato verso il marchese e verso don Gilberto, e raccogliendo qualche loro parola s’era fatto animo a domandare la spiegazione di qualcosa, ripetendo poi in tono d’approvazione qualche sentenza udita nei loro discorsi. Questi minuti d’agitazione tanto per il curato che per Massimo s’erano ripetuti più d’una volta, ma erano durati poco, perchè don Gilberto non era uomo da tacere un pezzo, e a proposito d’un discorso finito ne incominciava subito un altro che non ci aveva nulla a che fare. A questo modo il nostro Massimo attraversò il desinare abbastanza felicemente, e giunse nel porto delle frutte proprio secondo i suoi disegni. Alle frutte s’era deciso a parlare anche il consigliere Rocca, e aveva avuta l’ispirazione infelice di lanciare una parola di malumore contro l’attuale _legislatore_, come diceva lui, a proposito di un’ultima storiella campagnola raccontata da don Gilberto, in cui c’era un’avventura galante d’un giudice di mandamento. Il marchese Antonio aveva preso fuoco contro il consigliere in difesa del _legislatore_; e il consigliere, che non pareva in vena di cedere, rinforzava i suoi argomenti, richiamando soprattutto le cose stesse che il marchese soleva dire ogni momento. Il marchese continuava la sua tirata senza ascoltare il consigliere; così e l’uno e l’altro andavano innanzi a una voce col loro soliloquio, scostandosi mano mano dall’argomento e affannandosi a rispondere a quello che il loro interlocutore non s’era mai sognato di dire. Il marchese Antonio non aveva avuto dalla natura il dono di vedere anche quel tanto di buono che ci può essere nelle cose di questo mondo, frammisto pure a tutto il male possibile; del qual male bisognava sempre convenire con lui, per non dargli un dispiacere troppo forte. Egli vedeva ogni cosa in colori neri; prevedeva male di tutto; e l’esito, secondo lui, gli dava sempre ragione. Questa disposizione d’animo non lo rendeva troppo amico delle molte novità che vedeva da qualche anno, e finora non ce n’era stata una sola di cui non avesse trovato da dire o da pronosticar male. Ma a dirne male poi voleva essere solo. Anche in questo i tempi non gli erano favorevoli. Le censure e le opposizioni alle cose nuove, in cui trovava un seguito facile e numeroso, sia che gli paressero un segno di concordia, cosa in cui diceva di non credere, sia che lo toccassero su di una corda giovanile che forse vibrava più di quello che egli volesse ammettere, lo stizzivano presto, e quelli che credevano di fargli coro, se lo trovavano a un tratto di contro oppositore e battagliero, con loro grande maraviglia. La corda giovanile era stata quella di una grande avversione al dominio straniero. Era stato tra i più attivi finchè s’era trovato sulla breccia in compagnia di pochi; ma poi, quando aveva veduto crescere le file, s’era tirato in disparte, come se gli avesse dato noia anche in questo la troppa compagnia. Un certo sorriso ironico che gli sfiorava le labbra al solo udire il nome di cose nuove o di uomini nuovi, e le sue tirate a proposito d’ogni più piccola novità, gli avevano procurata la riputazione d’uomo retrivo, e di fautore dell’assolutismo. Quelli però che l’avevano in questo concetto non sapevano che il marchese Renica era troppo aristocratico per volere al disopra di sè de’ padroni assoluti. A Castelrenico si credeva quello che credevano i più, e non si andava poi a guardar troppo per il sottile. Il consigliere aveva appena finito di rispondere a una parte della sfuriata del marchese Antonio, quando questi levandosi da tavola e porgendo di nuovo il braccio alla nuora s’era avviato verso la sala. Lo seguirono i suoi commensali, alcuno dei quali non prevedendo una conclusione così brusca, e sicuri che la discussione li avrebbe lasciati assaporare in pace un bonissimo _marsala_, dovettero abbandonare sulla tavola il bicchiere pieno; ad eccezione però dell’ingegnere che, essendo in maggior confidenza con la casa, si levò per l’ultimo, e lo vuotò. Ma il consigliere, che aveva ancora da rivedere il conto al _legislatore_, aveva ripreso in sala un punto della discussione per mettere al muro il marchese, intanto che un cameriere e un servitore erano entrati col caffè. La marchesa Giulia, suo marito e don Gilberto erano andati a sedere presso un tavolino da lavoro, in uno degli angoli della sala, e avevano ripreso a mezza voce i loro discorsi. Gli altri erano rimasti in piedi in giro al marchese, e andavano sciogliendo lo zucchero nelle tazze col cucchiaino, intanto che il consigliere cercava di sciogliere contemporaneamente quel tal suo punto. «Le chiacchiere sono chiacchiere, e io torno alla mia conclusione,» disse il marchese deponendo la sua chicchera.... «Se tutti, dal primo all’ultimo, devono comandare, tocca a voi, caro consigliere, a fabbricarmi quel tale che dovrà ubbidire!...» «Non è questa la questione, vi ripeto, perchè quando io critico il nuovo legislatore, è quando lo considero obbiettivamente. Dio mi guardi dal portare attentato, soggettivamente, all’autorità del legislatore. Se non mi fate questa distinzione, non ci intenderemo più. Io voglio indiscutibile e venerata l’autorità del legislatore soggettivo; ma, obbiettivamente parlando, posso dire che il legislatore mi fa delle corbellerie, senza punto contraddirmi, perchè è molto chiaro che....» Ma era molto bollente anche il caffè, e il consigliere che aveva voluto berne un sorso in quel momento, dovette troncare di nuovo la sua tesi, e con una smorfia che non ci aveva nulla a che fare. «Finchè le faccio io queste critiche,» ripigliò il marchese, «e finchè le fate voi per conto vostro, vi dirò: va benissimo. Ma quando me ne fate una teoria, allora vi dico: guardatevi attorno! guardate il bell’effetto della vostra teoria! Tutti gl’imbecilli sono diventati tanti commentatori di codici, e il vostro legislatore riveritissimo può fin d’ora domandare un posto d’usciere al suo lustrascarpe!» «Voi dite _hoc post hoc, ergo propter hoc_,» continuò il consigliere a cui era passata la scottatura. «Ci vuol altro che gli _hoc_, caro consigliere: negatemi il fatto se potete.» «Cioè, anche qui bisogna distinguere. Se voi mi dite _oppressi sumus_ non solo dalle opinioni del volgo, ma _etiam_ dalle opinioni _hominum leviter eruditorum_, come diceva Cicerone, allora siamo d’accordo. Ma se poi dobbiamo considerare nella sua natura e nelle sue conseguenze il nuovo diritto pubblico, quello voglio dire del regime libero....» «Oh! ecco la gran parola! mi congratulo di sentirla anche da voi! Il regime libero! La libertà! Sicuro che io la voglio la libertà! Anzi quel tale che mi deve avere per suo servitore umilissimo non è mai nato, e non ha neanche l’intenzione di nascere, ch’io mi sappia. Sicuro che io la voglio la libertà! Ma la voglio per me, per voi se la vi garba, e per quelli che sanno che cosa sia e che cosa voglia dire! Ma oggi si vuol far credere che la libertà sia una cosa fatta per tutti quelli che passano per strada, e così vi domando io che succede poi della mia libertà e della vostra?» «Sono lontano anch’io, caro marchese, lontanissimo dall’essere fautore della libertà come la s’intende in oggi, e se i tempi non consigliassero una certa prudenza, vorrei proclamare ciò pubblicamente, senza soggezione di nessuno. Sicuro che di questo passo, rotte le dighe d’ogni stabile autorità, andiamo diviato verso quella tal società dei pesci, di cui parla l’Eineccio, _ubi major devorat minorem_. Ma è appunto per ciò ch’io criticavo il legislatore. Lasciatemi dunque ritornare al punto principale della questione....» Il curato che, per mostrare di seguir con interesse la discussione, avrebbe voluto metterci qualche parola del suo, e che fino allora non aveva trovato il punto opportuno, si approfittò della società dei pesci per esclamare un «benissimo» accompagnato da una risata e da una fregatina di mani. Massimo taceva. Si poteva pensare, e forse lo pensava il curato, che il silenzio di Massimo fosse un silenzio di disapprovazione all’indirizzo delle cose che dicevano il marchese e il consigliere. «Questa volta però mandale giù!» diceva fors’anche tra sè il curato; ma in verità questa volta Massimo era occupato di tutt’altro. Le sue opinioni politiche erano in quel momento l’ultimo de’ suoi pensieri; ma piuttosto andava pensando che una discussione messa per quella via, e a quel modo, poteva anche durare tutta la sera; che il marchese si faceva sempre un tantino più aspro e intollerante; e che a lui intanto sarebbe mancata l’occasione, o l’animo, di porgere in bel modo, e con buon successo, quella tal parlatina per il suo impiego. Così, nella sua mente, egli aveva già perduti di vista i due che discorrevano, e aveva sostituito un nuovo piano, quello di andarsene al più presto e di ritornare l’indomani, spiando il momento di potersi trovare a quattr’occhi col marchese. Il piano era deliberato, e già gli era data un’ultima mano, quando la discussione del consigliere e del marchese, la quale a furia di logica faceva le più lunghe strade in pochi minuti, era venuta a minacciar Massimo da vicino, senza che egli se ne avvedesse, in un modo spaventoso. Dal _legislatore_ si era venuti al _tempio della giustizia_ e alla _maestà del magistrato_. Il _tempio della giustizia_ aveva messo di nuovo sossopra il marchese, e il _magistrato_ poi lo aveva fatto scattare del tutto. Per calmare il suo avversario, il consigliere aveva cercato di abbandonargli, come vittime espiatorie, gli impiegati amministrativi; ma con ciò s’era creduto tanto più in diritto di non transigere d’un punto quanto a quelli della magistratura giudiziaria; e s’era piantato sui due piedi, e con le mani in tasca, col piglio d’un uomo risoluto a non cedere d’un passo. Il marchese non voleva distinguere neanche questa volta, e siccome tra la molta gente che non gli andava a genio c’erano pure gl’impiegati, e ci avevano anzi uno dei primi posti, così metteva in un medesimo fascio anche quelli del _tempio della giustizia_, con grande sorpresa dell’antico consigliere. Il curato, che non aveva tenuto dietro bene alla questione, ma che spiava sempre il momento di venir fuori anche lui con una parola del suo, sorpreso a un tratto da una pausa che si fece nella discussione, si credette arrivato al punto buono; e poichè aveva udite tante esclamazioni a proposito di impiegati e d’impieghi, esclamò anch’egli: «Un bell’impiego e, a quanto si dice, un impiego in grande, è toccato qui al nostro avvocato! Non so se il signor marchese lo sappia?...» Si pensi che cattivo scossone fossero quelle parole per Massimo, il quale stava appunto mettendosi in salvo mentalmente. Tanto più che le parole del curato furono subito afferrate dal consigliere, il quale, avendo a che fare con un avversario più ostinato di lui, fu lieto di vedersi aperta improvvisamente una porta, e di poter così uscire senza arrendersi, e senza consegnare il _tempio_. Allora cominciò una tempesta di domande e di congratulazioni del consigliere e del curato al povero Massimo, il quale s’imbrogliava come un pulcin nella stoppa, e non pareva proprio più quel tale che aveva la riputazione d’essere l’uomo più disinvolto di Castelrenico. Il marchese intanto s’era fatto silenzioso; e, alla fine, quando il consigliere e il curato lo vollero tirar per forza nel discorso e vollero cavare anche da lui delle congratulazioni, pigliando una delle sue attitudini più serie e più asciutte, si rivolse a Massimo e gli disse: «Lei sa, caro avvocato, ch’io nè balbetto, nè faccio complimenti, mai. Ora, a proposito di questo impiego, le posso fare degli augurii, ma congratulazioni.... no! Se mi avesse domandato il mio parere in tempo, le avrei detto che se era stanco di passarsela bene, lei poteva preferire all’impiego il nostro campanile del paese, e con un salto rompersi il collo in un modo più spiccio. La sarà una mia prevenzione.... ma che vuole? io le avrei detto così! Ora, che la cosa è fatta, le auguro, come si suol dire, una luminosa carriera; e sarò ben lieto di fargliene poi le mie congratulazioni.... E ora, lei ci favorisce a far la partita?» Il marchese s’era interrotto a quel modo, vedendo ch’era entrato un cameriere a disporre il tavolino da gioco. Massimo si scusò col pretesto di qualche faccendola da sbrigare, dovendo partire la mattina dopo; e sull’affare dell’impiego biasciò quattro parole che furono quasi un soliloquio. Poi salutò tutti quanti, e cercò e trovò il suo cappello, dopo aver preso perfino quello del curato. Il curato e il consigliere rimasero in un profondo silenzio senza dar segno di volerne uscire così presto; e il marchese, picchiando sulla spalla di don Gilberto, gli andava ripetendo che il tavolino era pronto. L’avvocato Massimo scese le scale, uscì dal portone, e appena fu in strada, presa una delle còcche della cravatta, con una brusca tirata e con una bestemmia sciolse quel nodo che aveva composto con tanta fatica in onore del marchese. Poi andò diviato a casa, dove lo lasceremo in compagnia de’ suoi bauli e de’ suoi pensieri. III. Quando Massimo e Martino il legnaiolo lasciarono la piazza, dopo aver dato ciascuno un’ultima occhiata al carrettone, abbiamo promesso di seguirli tutti e due, e di chiudere quella prima giornata del nostro racconto in compagnia prima dell’uno e poi dell’altro. Ora dunque che abbiamo lasciato Massimo, andiamo a cercar Martino, e andiamo ad aspettarlo in casa sua, mentre Caterina, sua moglie, fa levare il bollore alla minestra, dopo aver mandato la figliola a dire al babbo che la minestra era scodellata da un pezzo. In un angolo della cucina, e lontana dal focolare, perchè guai a sentir la fiammata, stava seduta la Ghita, che molti però cominciavano già a chiamare la signora Ghita, perchè mortole il marito che faceva il bottaio, e rimasta senza figli e con qualcosina, aveva chiuso bottega e viveva del suo. La Ghita filava con grande attenzione una rocca di filaticcio per tirarne filo da calze, ch’era il regalo che faceva ogni anno al curato per Natale. Le due donne di tanto in tanto parlavano tra loro, ma parlavano piano per non essere intese dai ragazzi, i quali però erano occupati di tutt’altro. Il più grandicello, seduto sul margine del ripiano del focolare, era tutto intento a sagomare col coltellino un pezzetto di legno; mentre il fratellino minore, ritto sulle punte de’ piedi, osservava tutto assorto anch’esso la gara che facevano tra loro i fagioli coi grani di riso nel venir su e nello scomparire dalla superficie bollente della pentola. E seduta anch’essa sullo stesso margine, al lato opposto, se ne stava una bambina in gran faccende ad acconciare un pezzetto di carta a guisa di cuffia intorno al faccione rassegnato d’un bel gatto grigio, il quale chiudeva gli occhi e lasciava fare, senza punto aver l’aria di pigliarsi a male quegli scherzi, perchè sapeva che erano scherzi innocenti. «Oh che mi dite, povera Caterina! A dirvi la verità, ne avevo sentito parlare, perchè tutto il paese ne parla.... e se sentiste che cosa si dice! ma io non ci volevo credere.... e sono venuta qua apposta; ed ecco che voi mi dite le stesse cose. Ma dite su, dite su, povera Caterina; perchè quando si hanno dei dispiaceri è una gran medicina quella di parlare, di sfogarsi, e di non tener niente sullo stomaco!» «Insomma, come vi dicevo, dopo quella volta che è andato in Svizzera, quattr’anni fa, il mio uomo non è stato più lui.» «Eh! però, un po’ di _estro_ il vostro Martino lo ha sempre avuto!» «Ma vi dico di no! Prima che andasse in Svizzera era l’uomo più tranquillo di questo mondo.» «Eppure lo diceva sempre anche il mio Andrea, buon’anima, ch’era quell’omone che sapete!... Basta, dite su.» «Insomma, tornato dalla Svizzera, dove l’aveva voluto condurre a lavorare per qualche mese un mastro di quei luoghi, cominciò a dire che lui aveva vedute cose, cose da perderci dietro la testa!... che aveva rubati quattro o cinque mestieri, e che un giorno o l’altro lo si sarebbe veduto fare, tutto in una volta, il segatore, il tornitore, lo stipettaio, il bottaio....» «Il bottaio? Ah, pover uomo! si vede che aveva proprio perduto la testa! Ma non sapete quello che diceva il mio povero Andrea, lui! lui che indovinava le capruggini alla prima!...» «Ebbene, state a sentire. Da quel giorno Martino cominciò a guardare, senza poter più levarne gli occhi, quell’acqua che chiamano della _valletta_; quella che vien giù forte, come sapete, dal monte, e che poi va perdendosi in quel primo prato giù al piano e vi stagna un poco. Oh se avessi quattrini! esclamava sempre, e ogni giorno andava a guardar l’acqua. Ma che volete farne voi di quell’acqua? gli dicevo io; non ne ha fatto niente mai nessuno!... Cosa farne? diceva lui; lo so io cosa farne! lo so io! E poi picchiandosi la fronte, ogni tanto tornava a esclamare: eppure qua dentro c’è qualcosa!» «Che gli avessero fatto qualche incantesimo in quei paesi che dite voi?... Che son paesi dove c’è anche la religione falsa!» «A dirvi la verità, questo pensiero l’ho fatto anch’io, e una volta ne parlai col curato; ma il curato mi rispose: andate là!... andate là!...» «Avete fatto male a parlarne col curato, che è un bravissimo uomo del resto, ma che di queste cose se ne intende poco. Dovevate dirlo al frate che viene a primavera a benedir le campagne e a far scappare i grilli.... quello se ne intende!...» «Avete ragione. Questa volta, se a primavera sono al mondo, farò come dite voi. Tanto più che col mio pover uomo la va di male in peggio. Non ch’io ne possa dir male, che anzi lui lavora da mattina a sera.... galantuomo poi come lui non ce n’è altri!...» «Eh! ma il povero Andrea! Quello sì ch’era un uomo!...» «Ma adesso io parlo del mio. Lavoratore, galantuomo, e tutto cuore! Del cuore poi ne ha fin troppo; è il suo difetto. Oggi, per esempio, ha buttata via tutta la giornata per quell’asino, a dirla chiara, d’un suo parente, quell’aristocraticone di avvocato che non lo guarda neanche in viso, e non gli dirà neanche un crepa!» «Vedete! vedete! povera Caterina!... Dunque voi mi dicevate di quell’acqua....» «Or bene, mio marito l’ha comperata, e ha comperato anche il prato....» «Ha comperato il prato? e anche l’acqua? Dunque è vero quel che si dice!» «Sicuro! e ha spesi tutti i nostri risparmi.... che ci son costati tanti sudori! e vuol mettere una sega, vicino a quell’acqua che si perde, perchè dice che non la si perderà più....» «Figuratevi!» «E dice di voler fare una fabbrica su quel prato, per fare tante cose che sa lui, e che non vuol dire! Chi l’avrebbe detto che quel _codicilio_, come lo chiamano, che abbiamo ereditato dallo zio, doveva essere la nostra disgrazia? Se mio marito non aveva quella eredità, a poco a poco non avrebbe pensato più a quella benedetta acqua!... Ora, invece, parla di fabbricare, di spendere tutto quel poco che lo zio, per sua grazia, morendo ha lasciato; e per di più vuol fare anche un grosso debito, perchè quel tanto che c’è, non basta....» «Che se invece impiegavate quel _codicilio_ con un buon pegno in mano, come faceva il mio Andrea....» «Ma! Che volete? E poi.... e poi....» Intanto Caterina s’era messa a grattare il formaggio per la minestra, dopo essersi asciugata una lacrima col dorso della mano. La Ghita guardò Caterina con nuova e maggiore curiosità; poi, fatta una cocca del filo sulla punta del fuso, con uno scatto dato dalle dita fece girare il fuso rapidamente su di sè, intanto che ripigliava in tono compassionevole: «Dite su! dite su! povera Caterina, che lo sfogarsi nelle tribolazioni è, per così dire, un vero elettuario.» «Insomma, a dirvela tutta, dovete sapere che mio marito parla anche di mandare il mio Tonino, che vedete lì, in quel paese della Svizzera dove è stato lui, e anche più in là, per fargli imparare tutte quelle cose che lui ha in testa, e delle altre ancora.» «Misericordia! E voi che cosa contate di fare?» «Questo è quello che non so!» «Mandare i propri figli in paesi che non s’è sentito mai nominare!... lasciarli in mano di nessuno! Ah! se fossi nei vostri panni....» «Cosa fareste?» «Cosa farei? Farei un rapporto, di quelli in carta bollata, e a chi si deve!... Perchè se ci sono dei matti, bisogna farli legare!...» «Oh! io poi.... fare di questi torti al mio uomo.... perchè l’uomo poi è buono, sapete!» «Grazie!... e la vostra coscienza? La vi par cosa da poco, a voi?... Lasciar tirare su i vostri figlioli a piacimento dei matti!...» «Matto.... matto.... Adesso non ragionate bene neanche voi! Se mio marito volesse far imparare a Tonino un mestiere solo, lo terrebbe qui; ma lui, capite, vuol fargliene imparare due o tre, perchè possa poi guadagnare qualcosina di più, e aiutarci meglio anche noi quando saremo vecchi!» «Due o tre mestieri? ma vedete se non son cose da matti!...» «E perchè? Quando uno ha avuto un po’ di studio, può bene mettere bottega di segatore, di legnaiolo e di bottaio, per dirne una!» «Mi diventate matta anche voi? Un legnaiolo fare il bottaio? Lo potete giusto dir voi, o vostro marito, perchè non sapete neanche da che parte si cominci a fare il tappo d’un barile!... Se ci fosse a sentirvi il mio povero Andrea!... Vedete cosa vuol dire star coi matti!...» «Oh! finitela anche voi con questa parola! Se le consolazioni che mi volete dare son queste!...» «Gran novità! Il _Martin matto_! Non è così che lo chiamano tutti in paese, vostro marito?» «Oh smettete! che ce ne volevano quattro dei vostri Andrea per fare un uomo come il mio!...» «Il mio però non l’hanno chiamato mai il matto!» «Lo chiamavano il _pilucca pitocchi_!» La Ghita saltò in piedi. Raccolse sul fuso, facendolo girare rapidamente, la lunga gugliata del filo; fece uscire la rocca dall’allacciatura della vita e dal cappio appuntato alla spalla, dove era rattenuta; mise rocca e fuso sotto l’ascella in aria di sfida; mandò giù la saliva, e stava per sbuffare chi sa che cosa.... quando a un tratto entrò la bambina ch’era andata a chiamare Martino, gridando «il babbo! il babbo!» Caterina, che aveva voltate le spalle alla Ghita, scodellava intanto la minestra. «Buona sera, Ghita,» disse Martino, levatosi il grembiale e appeso il cappello a un chiodo del muro. «Se volete gradire una scodella di minestra e un bicchiere di vino, non c’è neanche da dir grazie.» La Ghita prima di rispondere ci pensò un poco per trovarne una salata; poi disse a un tratto: «Tante grazie!» e se ne andò. Ma appena fuori della porta, rifece un passo indietro, e aperto l’uscio di nuovo, soggiunse: «Ho già desinato del mio!» poi se ne andò definitivamente, e molto più soddisfatta. «La signora Ghita è di cattivo umore, a quanto pare,» disse Martino sedendosi e mettendosi a mangiare la minestra. Caterina non rispose; fece sedere su due seggioline a braccioli i due bambini più piccoli, legando loro intorno al collo un tovagliolo; poi si mise a sedere anch’essa in mezzo a loro. Anche il gatto prese il suo posto sulla tavola vicino alla scodella della bambina, dopo essersi sbarazzato della cuffia di carta con lo zampino e con una leggiera crollatina di capo. «Vi siete bisticciate con la Ghita?» riprese Martino. «Non si può dir questo,» rispose Caterina. «Però la Ghita, se disse qualcosa, non aveva neanche torto!...» «Ah! l’avevo capito io che c’è stato del brusco! E si può sapere?...» «Del brusco non ce n’è stato niente affatto!... La Ghita ha parlato, perchè anche il mondo ne parla....» «Di che cosa?» «Oh non è poi necessario dir tutto! tanto più quando uno può ben capire da sè!» «Allora ho capito! La signora Ghita invece di metter male, farebbe meglio a tenere la saliva per filare!...» «Adesso siete voi che parlate male: la Ghita è una bonissima donna!» «E invece di mettere il naso nelle cose che non capisce....» «Chi non capisce invece siete voi, se parlate così!...» «Allora dite su! Ma se non parlate, cosa volete che ne sappia io? Cosa volete che sappia di quel che dice la gente, io che bado ai fatti miei e non vado a far pettegolezzi per le strade?» «La gente dice.... se la volete sapere, che quando si hanno quattro figlioli bisogna tener di conto delle giornate; lavorare per guadagnare, e non far grandezze a lavorare per guadagnar niente! Bel pagamento che avete avuto quest’oggi! ammazzarsi dalla fatica, non vedere la croce d’un quattrino, e non avere neanche un grazie!... perchè dir grazie a un parente povero, per lui è uno sporcare l’avvocatura e tutta la sua carta bollata!... La gente vede queste cose, e la gente parla!...» «E voi lasciatela parlare! Se son questi i fastidi della signora Ghita, capisco come la diventi di così bella cera. Se a mio cugino dà noia che io sia un povero legnaiolo, a me non dà noia che lui sia un signore. Non ho invidia di lui, non gli domando nulla, nè gli vado tra i piedi mai. Se però proprio diamo di naso l’un nell’altro, allora faccio il mio dovere;... son pover’uomo sì, ma creanzato! Non sarei andato a dirgli: avvocato, se volete, per caricare i vostri mobili son qua io. Ma, passavo per la piazza, vedo una carrata di mobili, tutta a gambe e a spigoli per in su e per in giù, come anime del purgatorio; sono i mobili di Massimo: chi rideva, chi ne diceva una, chi un’altra; ma nessuno sapeva dare una mano, nessuno si moveva. Allora mi sentii movere il sangue. Che volete? se avessi tirato diritto, allora sì che la gente avrebbe avuto ragione di credere che tra me e Massimo ci fosse una picca! E questo non stava bene. Allora sì che ne avreste sentite delle chiacchiere! Avrebbero detto che sono invidioso; che per avere ereditato meno di lui mi è andato il sangue in aceto, e che, ad andar bene, la finiremo a busse. Capite? Lì per lì, a dirvi la verità, tutti questi ragionamenti non li ho neanche fatti; ma adesso, a pensarci, mi persuado d’aver fatto bene a fare quel poco che ho potuto. E poi ve ne dirò un’altra.... Oh, cosa succede là! Beppina....» Beppina a quel punto era venuta alle prese col gatto, il quale era stato del parere che l’ultima cucchiaiata di minestra dovesse toccare a lui; e se l’era presa, rovesciando la scodella sulla tavola. Beppina l’aveva picchiato col cucchiaio, poi s’era messa a piagnucolare alla distesa. Caterina prese la bambina sulle ginocchia e le diede da mangiare nella sua scodella. «Dovete dunque sapere....» continuò Martino.... «Oh! aspettate che adesso mi è uscito di mente quello che vi volevo dire....» «Voi però lo avete avuto sempre troppo nell’anima quel vostro cugino; e dire che non ve ne ha mai fatta una delle buone!» prese a dire Caterina. «Eh, chi sa mai! Potrebbe venire il giorno in cui avessi bisogno di domandargli un servigio: allora, sapete, ci andrei diritto, e sono persuaso che me lo farebbe. A sentir la gente, tutti mi dicono di star alla larga da quelli che hanno studiato; ma io, che volete? ho un altro pensare!» «È perchè voi siete sempre stato infatuato di quello lì!» «Ma dite un po’, Caterina, l’esserci un avvocato, un uomo di studi che si chiama Della Valle, non è un onor grande anche per noi che ci chiamiamo così? Non è un onor grande per la famiglia? Se avessi studiato anch’io, allora sarebbe un altro par di maniche. Allora sì, casa Della Valle, anche con la bocca di Martino, potrebbe dir le sue ragioni!... le potrebbe dire, perchè qui, sapete, c’è dentro qualcosa....» e si picchiava la fronte con la mano. «Basta, se vivremo, qualcosa s’ha da vedere! Son anni e anni che lavoro come un cane per risparmiare quel poco che sapete; ma non credevo di arrivarci. Ora però, con quello che m’ha lasciato lo zio Tonio, che Dio gliene mandi tanto bene, posso dire: ci sono! Ora, che ho qualcosa da garantire, posso anche fare un debituccio, e messo tutto insieme....» «Oh, per carità. Martino, cosa dite mai! Anche un debito!» «È fatto! Ma non abbiate paura....» «Misericordia!... e i vostri poveri figlioli!... Non sapete che i debiti son come il tarlo, mandano le case in polvere!» «Non abbiate paura, Caterina; voi non vedete quello che vedo io!... Dovete sapere, Caterina, che ci sono delle seghe che in Castelrenico nessuno ha veduto mai! con lame fini come nastri; seghe senza staggio, senza fune, senza manichetti, che vanno da sè, e che girano, girano!... seghe che in un minuto fan disegni che la è una maraviglia!... proprio come se avessero studiato!... seghe che paion cristiani, e che quando le senti cigolare contro il legno, ti fan tendere l’orecchio perchè quasi scommetteresti che parlino!... Ma silenzio, Caterina! non fatene parola con nessuno!» Caterina guardava fisso negli occhi suo marito tacendo, e come compresa da un sentimento di maraviglia e di timore. I ragazzi s’erano messi a giocare per la cucina, e Martino ripeteva ancora con l’indice traverso le labbra: «Caterina, silenzio! silenzio, per amor del cielo!» In quel punto qualcuno picchiò all’uscio, e una voce domandò: «Ehi, di casa!» Martino saltò in piedi, e riconosciuta subito la faccia rubizza che in quel momento faceva capolino dall’uscio, «Ah siete voi, Simone!» disse «avanti, avanti! Che buon vento vi mena qui? Saluto anche la compagnia,» soggiunse poco dopo, ma in tono più asciutto, rivolgendosi a due altri che vide entrare in coda a Simone. «Sedetevi» continuò Martino, «e se ne volete un bicchiere, tal qual’è.... Caterina, portamene su un boccale.» «Oh! così va bene! un bicchiere non si rifiuta mai, nevvero voi altri?» esclamò Simone. «Mai, mai!» risposero subito gli altri due, che da certi occhi lucidi lasciavano capire a prima vista come in quella sera avessero già più volte messa in pratica tal massima. Caterina uscì per il vino e rientrò poco dopo con un fiasco che depose sulla tavola; poi uscì di nuovo conducendo i ragazzi a dormire, ad eccezione di Tonino, il quale riprese con grande attenzione il suo lavoro sulla soglia del focolare. Simone con la faccia gioviale, e dopo una fregatina di mani, prese una sedia di paglia, si assicurò che fosse ben forte, si mise a sedere, e depose il suo cappello sulla tavola. Poi si adattò, facendolo scendere alcun poco sugli orecchi, il suo fido berretto di maglia che non soleva togliersi di capo mai fuorchè nel caso rarissimo in cui si trovasse dinanzi a un creditore. Il berretto era di cotone color turchino scuro, e dello stesso colore erano le calze. Le brache poi, che ben inteso eran corte, e la giubba scarsa e a falde cortissime, erano d’un velluto che ai suoi tempi era stato di color verde. Tirata una presa di tabacco, Simone assaggiò il vino; trovatolo buono, ne empì i bicchieri dei due compagni, e tutto ciò senza complimenti e proprio come se fosse in casa sua, non perchè mancasse di creanza, ma per quella tal ragione ch’era in casa d’un debitore, o d’uno almeno che lo doveva diventar tra poco. «Dunque,» prese a dir Simone in tono d’uno che conchiude più che d’uno che comincia, «domani andremo dal notaio a fare il contratto con scrittura legale, per quel tale interesse. Questi sono i miei testimoni, idonei e consenzienti, per gli effetti legali. Però, essendomi consultato con me stesso per i miei diritti di legge, ho pensato al modo di far le cose più in regola, e il modo sarebbe questo. Io vi do a prestito le diecimila lire; voi, invece di darmi l’ipoteca, mi fate una vendita dell’acqua e del prato, con annessi e connessi, infissi e fabbricati, esistenti e da farsi, compresa, s’intende, anche questa vostra casetta, per maggior mia sicurezza; il tutto, badate bene, redimibile dopo cinque anni....» «Patti d’oro!» esclamò uno dei testimoni vuotando il bicchiere. «E che faccio con voi, Martino, per l’amicizia!» continuò Simone. «Ah! ma voi avete l’aria di pensarci su! Se non vi garbano, amici come prima, e non vado avanti....» «Non avete finito? andate avanti, andate avanti» soggiunse Martino. «Credete forse che la voglia comperar io davvero questa roba? Bel negozio! Si fa così per far le cose più legali, capite! E anche voi ci avete il vostro interesse, perchè se dopo i cinque anni trovate della vostra convenienza di vendere qualcosa piuttosto che restituire il capitale, ecco che l’affare è già bell’e fatto, senza nuove spese di istrumenti e di notai; e se restituite il capitale, voi ritornate possessore del fatto vostro. La vi par chiara adesso? Vedete che bella comodità! Il codice, e io l’ho letto da capo a fondo, ne ha delle leggi belle di tanto in tanto! Il tutto sta nel saperle adattare al caso proprio.» «Insomma fate voi!... fate voi!» ripeteva Martino passeggiando per la cucina, e picchiandosi di tanto in tanto la fronte. «Quanto agli interessi poi, fate come vi garba meglio. Mi terrò, se volete, a tutto mio rischio l’usufrutto del prato e della casa. Non lo volete? Datemi il sei per cento anticipato, ossia pagatemi fin d’ora l’importo dei cinque anni levandolo dalle dieci mila lire, e così non ci pensate altro.... Sono formalità, se volete, ma formalità legali di cautela per me, e di comodo per voi....» «Insomma voi con una mano me ne date dieci, e con l’altra me ne levate tre, se ho capito bene.» «Se avete diffidenza, caro Martino, non ne facciamo niente!... parliamo d’altro.» «Ma se per piantar la sega mi occorrono dieci mila lire, vi domando io come faccio se voi me ne portate via tre mila?... sia pure per una formalità, come dite voi.» «Vi darò poi anche le tre mila, siete contento? Ve le darò quando avrete finita la fabbrica, prima di pagare i conti.... e allora faremo un altro contratto. Insomma lasciate fare a me; domani, prima di andar dal notaio, verrò qui con una carta bell’e fatta, una carta che vi piacerà e che farò far io, a tutte mie spese, da chi si deve; da uno che la sa lunga più di qualsiasi avvocato; che fa carte di ferro, carte come non se ne fanno di eguali in tutta la provincia. Voi non pagherete che i testimoni, questi due amici che vedete qui; qualcosina per il loro incomodo è troppo giusto....» «Eh, questo si sa!» esclamò l’uno dei due. «Ognuno vive del proprio mestiere. Il mio maestro non c’insegnava che a fare nome e cognome; per imparare di più bisognava portargli a scuola anche la legna: così nel resto dell’avvocatura sono rimasto orbo. Eh! senza questo guaio, l’estro di far carte l’avrei bene anch’io!... Basta.... Caterina, se ce ne date un altro bicchiere, lo beveremo alla vostra salute!» Caterina che era entrata in quel punto, scambiò un’occhiata con suo marito, uscì di nuovo e ritornò poco dopo col fiasco riempito. «Fate benone, maestro Martino, a metter la sega!» riprese Simone. «E dire che in Castelrenico non ce n’era una! E anch’io questi denari ve li do di gusto, non per quel miserabile interesse, ma proprio per il bene della patria, come si dice adesso. Però, non so capire, se è vero quel che si dice, perchè mai vogliate mandare un figliolo a fare il garzone fuor di paese, proprio nel momento in cui ne dovreste aver bisogno voi. Ne imparano d’ogni risma, questi ragazzi, quando vanno fuori!» «Parlate piano» disse Martino, facendo capire a Simone, con una piegatina di capo, che il figliolo era lì vicino. «Ho capito. Ma non potevate insegnarglielo voi il mestiere, e aver anche un aiuto nello stesso tempo?» «No, no,» continuò Martino; «ne parleremo poi un’altra volta. È un figliolo di poco sviluppo, capite?» «Dite un po’.... non per sapere i vostri interessi, ma è nato forse in luna calante?» «Precisamente.» «Ah! capisco, capisco!...» rispose Simone con un gesto, come a dire che la cosa adesso era chiara. «Dunque, alla vostra salute, Martino!» esclamò uno dei compagni di Simone riempiendo e vuotando il bicchiere. «Alla vostra salute,» ripeterono Simone e l’altro compagno. Poi tutti e tre, levatisi da sedere, salutarono Martino e Caterina, e s’avviarono verso la porta. Simone, rimasto l’ultimo, nel tirar di dietro l’uscio si voltò ancora una volta verso Martino dicendo: «Dunque siamo intesi: domani capiterò con la carta.» Tanto i tre che se ne andavano pe’ fatti loro, quanto Martino ch’era rimasto in cucina con Caterina, se ne stettero tutti zitti per un poco, come aspettando che ritornasse loro sulla lingua il filo del discorso. Il primo a raccapezzarlo fu Simone, il quale dopo un tratto di strada prese a dire: «Buon uomo questo Martino! ma è matto!... matto!... e poichè s’è fisso di mangiarsi il fatto suo, tanto fa che non si lasci andar la roba in bocca d’altri. Però con questi cervelli strambi non si è mai prudenti abbastanza.... bisogna far le cose in regola!... a fior di legge!...» «Ah! tu pensi di mangiarti il fatto mio!...» esclamava Martino dopo aver taciuto un pezzo, e passeggiando per la cucina. «Fors’anche sì!... Ma son nato povero e ci perdo poco. Se la mi andrà male, le mie braccia non le porterà via nessuno, e con queste i miei figlioli non avranno a patire!... Ma l’andrà bene!... Simone avrà i suoi denari!... li dovrà riprendere! L’andrà bene! Perchè qua dentro c’è qualcosa!... c’è qualcosa che non sbaglia!» E si picchiava la fronte ripetendo ancora: «l’andrà bene! l’andrà bene!» Caterina diceva intanto mentalmente un _De profundis_ per raccomandarsi ai poveri morti. IV. Erano stati in gran faccende l’avvocato Massimo e Martino per far partire quella carrata di mobili, ma non l’era stato meno, a Milano, quel tale che la dovette far scaricare e mettere a posto. Tanto più che a questo tale, proprio in quel giorno in cui era arrivato il carrettiere, erano capitate anche le sue ventiquattr’ore di guardia, come milite cittadino. Posporre la guardia ai mobili non sarebbe stato facile, e a ogni modo non era cosa che egli avrebbe messo neanche in discussione: prima di tutto, perchè non era uomo da mancare ai propri doveri; poi perchè era sergente, e con gli amici soleva dire in confidenza: «Senza di me, io non potrei garantir niente della compagnia!» Il nostro sergente dunque fece come potè: si affaccendò come un martire in quelle prime ore della giornata che precedevano quelle della guardia; poi diede degli ordini precisi e severi a sua figlia, al carrettiere e ai facchini; e li diede in pieno assetto militare, perchè riuscissero più solenni. Poco dopo, senz’essersi fatto aspettare un minuto, camminava impettito e disinvolto, a fianco della compagnia che s’avviava verso il posto assegnatole. A vederlo qualche ora dopo, e sì che ne aveva fatte in quel giorno delle vite per provvedere a tutto e a tutti, nessuno avrebbe supposto che quel brav’uomo potesse essere stanco. Forse lo era, ma certo egli lo celava affatto sotto un piglio severo, ma sereno, ch’era, come egli diceva sempre, l’attitudine indispensabile di un milite cittadino. Col tramonto scendeva per le strade una nebbiaccia che a ogni momento si faceva più fitta e più fredda; chi passava affrettava il passo; l’uffiziale e i commilitoni del nostro sergente, l’un dopo l’altro, s’eran chiusi nel camerotto del corpo di guardia; ma lui era rimasto ritto sulla porta, a pochi passi dalla sentinella, aspettando che la notte fosse calata del tutto, e che i passanti, facendosi sempre più radi, gli permettessero di dare un poco di tregua alla sua vigilanza. Prima però d’avviarsi anch’esso verso il camerotto, fece quattro passi in su e in giù per la strada, come per assicurarsi meglio che tutto era tranquillo, e ripetè, a buon conto, la consegna alla sentinella perchè non la scordasse. Finalmente entrò nel camerotto anch’esso esclamando, nel tirarsi dietro l’uscio: «Mettiamoci anche noi nei quartieri d’inverno!» Alcuni militi dormicchiavano qua e là sdraiati sulle brande o a cavalcioni delle sedie; altri, ed erano il nerbo più grosso, se ne stavano chiacchierando e fumando in giro a una gran stufa nel mezzo del camerotto. «Qua, qua, signor Giovanni!» esclamò uno di questi: «mi dia una presa di tabacco per scacciare il sonno.» «A proposito, signor Giovanni....» disse l’uffiziale, ch’era anch’esso nel crocchio vicino alla stufa, «venga qua, legga il giornale di stasera.... c’è qualcosa che la potrebbe toccare.» «Me!... nel giornale?... Oh, per bacco!» rispondeva il signor Giovanni facendosi ancora più serio, intanto che pigliava il giornale, e cercava per le tasche gli occhiali. Il signor Giovanni, come si vede, era il nostro sergente; anzi egli era precisamente il signor Giovanni Figini, e aggiungeremo in fretta, intanto che legge il giornale, ch’era un ometto sui cinquant’anni, vispo e prosperoso; che in sua gioventù era stato di professione computista, calligrafo e amanuense; che dopo aver ereditato da un suo parente, e presa una moglie con qualcosuccia, aveva lasciato mano mano la professione in disparte, e ora l’aveva abbandonata del tutto, «e per esser diventato sergente,» come diceva lui «e per poter meglio andar incontro ai nuovi tempi.» Il signor Giovanni era vedovo, e aveva una figliola. «Ha letto, signor sergente?» continuò l’uffiziale. «Il giornale domanda che cosa fanno la sera le pattuglie della guardia nazionale a zonzo per le strade più popolate della città, mentre ci son tante viuzze abbandonate e fuor di mano da vegliare! Ha veduto cosa è successo? Ci son de’ malandrini audaci e armati, a quanto pare: ora, tocca a lei, signor sergente, questa notte a farsi onore!» «Oh! lasci fare, signor Carlo!» rispose il sergente rimettendosi gli occhiali in tasca. «Questa notte passeremo vicino a quelle strade che dice lei, e se vedremo delle facce sospette, le sapremo anche far scappare....» «Altro che farle scappare!... bisogna metter loro le mani addosso, caro signor Giovanni!» «Si farà anche questo.... ma bisogna distinguere. Se questi bricconi fossero armati proprio fino ai denti....» «Si farà fuoco!» saltò su uno del crocchio. «Piano, piano,» continuò il signor Giovanni. «Far fuoco, è presto detto! ma se per disgrazia passa in quel punto un galantuomo, un padre di famiglia, per esempio, e invece del ladro me lo pigliate lui, proprio nella testa!...» «E dunque cosa si fa?» replicò l’altro. «Prima si cerca con le belle maniere....» «Ma se vi danno addosso?» «Si sta in guardia.... si sta molto sul suo.... con un contegno severo.... e poi, facendo il caso, si chiamano le guardie di pubblica sicurezza.... perchè queste cose poi sono affar loro, e non bisogna neanche arrischiare di far nascere dei pettegolezzi tra le autorità.... Creda però, signor tenente, che questi malviventi, quando vedono la pattuglia, se la battono!... se la battono!...» «E allora lei, dietro! perchè se me ne pigliasse almeno uno, allora la facciamo noi la risposta al giornale!» «Ah! se faccio tanto da potergliene pigliar uno, glielo conduco qua legato come un salame!» »Bravo, signor Giovanni! Dunque conto su di lei. Tra mezz’ora son di ritorno: se occorre qualcosa, mi faccia chiamare al caffè.» E acceso il sigaro, l’uffiziale se ne andò. «È giovane, giovane, questo signor Carlino!» continuò il sergente con que’ quattro o cinque ch’eran rimasti.... «Il suo gran gusto è quello d’andar a cercare gli assassini col lanternino. Ma io che la so lunga, e che posso parlare, perchè di questi musi ne ho messi al muro tanti in vita mia, vi so dire che alla fin fine c’è poca soddisfazione. Dico questo come privato, perchè come guardia nazionale non so neanche se a fare a pugni coi ladri la sia cosa che vada col nostro decoro....» «Che pugni! si ammazzano alla prima!» «D’accordo. Ma.... non parlo per me, perchè dal giorno che m’han fatto sergente, io ho rinunziato alla vita: parlo per voi altri. Nella mia pattuglia io posso avere dei padri di famiglia; ci siete voi, Ambrogio, per esempio, e, tra questi malandrini, dei padri di famiglia non ce n’è quasi mai! Per cui, anche da questo lato, non si combatte ad armi pari....» «Che combattere! V’ho detto che si ammazzano!» «Avete ragione,» soggiunse un terzo. «Coi ladri io non farei tanti complimenti; li ammazzerei tutti.» «Oh! se si fa tanto da poterli ammazzare, allora sono con voi! Ma quanto al pigliarli, ve lo ripeto, c’è poca soddisfazione! Pigliati, ve li mettono in una prigione, e poi? finita la condanna, vengon fuori peggiori di prima. Avete mai sentito che un briccone venga fuori di prigione galantuomo? Ma vi dirò di più: in prigione questi bei soggetti ammaestrano anche gli altri, e un assassino ne fa diventare assassini dieci! capite?» «È inutile, è inutile, bisogna ammazzarli!» conclusero gli altri, allontanandosi dalla stufa e avviandosi chi verso la porta, e chi verso qualche branda, per farci un sonnellino. «Ehi! ehi!» esclamò il nostro sergente, «dunque siamo intesi. Quei della pattuglia sien pronti per il tocco!» «Lasci fare, mi ci preparo intanto con una dormitina.» «E io vado a mangiare un boccone, perchè, per via della guardia, ho dovuto piantar il desinare a metà.» Non rimase vicino alla stufa col sergente che uno dei militi, un certo Ambrogio, un uomo un po’ innanzi cogli anni anche lui, e che, oltre all’essere un vicino di casa del signor Figini, era anche un suo amicone. Siccome poi i due amici sapevano che c’era tra loro un segretuccio, e che il momento d’aprirsi l’un l’altro era maturo, non potendo più stare nella pelle, l’uno d’interrogare e l’altro di parlare, così, per un accordo tacito e spontaneo, Ambrogio e Giovanni, pigliata una sedia ciascuno, si trovarono seduti vicini, col discorso bell’e avviato e che si svolgeva liscio e naturale come una matassa senza ruffelli. «Sono tre mesi, sapete? che vado conducendo questa faccenda con una prudenza! con una abilità!...» diceva Giovanni. «Una parola con Ambrogio la dovrei fare!, m’ero detto qualche volta; ma poi pensavo tra me e me: la mia intrinsichezza con l’avvocato Della Valle.... quel quartierino vicino al mio preso a pigione da me, per persona da dichiarare.... sono un niente, se volete, per chicchessia; ma per Ambrogio, che è fino! che è Ambrogio insomma, sono tutto! Dirgli di più, sarebbe quasi un fargli torto. A cosa fatta, dicevo sempre, gliela conterò poi tutta la storia, per filo e per segno!» «Ah! io capivo tutto, ma, naturalmente, tacevo. Ora, dite su, e la cosa resterà tra noi.... perchè io taccio in un modo.... che sfido l’aria a saperne qualcosa, quando taccio io!» «Sicuro che vi dirò tutto! Però, siccome qua ci potrebbe mancare il tempo, e poi non vorrei neanche dar troppo nell’occhio, così per stasera non vi dico che quattro parole. Dunque dovete sapere che, fin da quattro o cinque mesi fa, vedevo qualche volta al caffè seduto a un tavolino vicino al mio, un signore, un bel giovanotto, che si capiva che non era milanese, ma che nullameno pareva un uomo a modo. Un giorno lo salutai; un’altra volta gli diedi il giornale, dopo averlo letto io; poi si scambiò qualche parola; egli aveva con me un fare molto rispettoso; io ero gentilissimo sempre.... insomma, finii una volta col dirgli ch’ero il signor Giovanni Figini, sergente della settima compagnia; lui allora mi disse che era l’avvocato Massimo Della Valle; e si diventò amici. Era la prima volta che questo signore passava a Milano una settimana tutta di seguito, figuratevi! Ha veduto questo? gli domandavo io; ha veduto quest’altro?... Non aveva veduto niente!... Venga con me! venga con me! Lo condussi sul Duomo, e rimase per tutto quel giorno con la bocca aperta. Eh! comincia così presto lei a andar in visibilio? gli dicevo io. Vedrà! vedrà!... Lo condussi di qua, lo condussi di là, sul Corso, in piazza d’Armi, in omnibus, in teatro, in casa mia, nei caffè dove si fanno i migliori sorbetti, negli alberghi dove si pranza meglio: naturalmente pagavo io; lui non voleva, faceva dei complimenti, e ogni tratto esclamava: — Ma i Milanesi son tutti così! — E infatti, se volete, per il forestiero ci vogliamo noi altri!...» «Bisognava sentire cosa dicevano di me i Francesi nel cinquantanove!» interruppe Ambrogio. «E di me, cosa non dicevano! Ma tornando all’avvocato, un giorno gli domandai: E lei di che paese è? Io sono di.... e mi disse un nome lungo, che non avevo mai sentito, e che comincio appena adesso a imparare; un nome stravagante e che non vuol dir niente, come usano questi foresi. Mi disse poi che questo suo paese era lontano un quaranta o cinquanta miglia; e per allora non gli domandai altro. Passa una settimana, ne passano due, ne passano tre, e intanto l’avvocato veniva a cercarmi a ogni tratto; non poteva staccarsi da me, proprio come un bambino di sei anni! e sì che capii subito che era un talentone, sapete!... ma insomma non faceva più nulla se non aveva un parere del signor Figini! Egli era sempre in casa mia e.... era tanto innamorato di me, che a poco a poco finì con l’innamorarsi anche di mia figlia! Piano! piano!... alto là!... alto là! pensai subito tra me. Qui non si scherza.... patti chiari, amicizia lunga! La cosa però, capirete, era difficile e delicata. E qui, bisogna che ve lo confessi, ho dovuto proprio persuadermi che, in fatto di saper condurre le cose come va, la cedo a pochi. Chi sa cosa avrebbe fatto un altro? Chi sa che pasticci!... Io cominciai a fingere di non capir nulla, tenendo però d’occhio a tutti....» «E domandando intanto le informazioni necessarie....» «Adagio! adagio! Prima di domandare le informazioni agli altri, ho voluto farlo cantar lui, per poi fare i confronti, capite!» «Ah!» «E così discorrendo, come si fa, della politica e del bel tempo, venni a risapere che l’avvocato ha del suo più di quello che lui non creda; che ha una casa che guarda su una piazza; e che ha avuto per di più anche una eredità. Vi par che basti?» «Eh sicuro!» «Ma Giovanni ne volle sapere di più! E seppe che l’avvocato aspetta da un giorno all’altro un impiego, ma che impiego! Seppe che l’avvocato ha degli amici in alto, e nelle Camere e dappertutto; che nel suo paese poi è il _factotum_ dei primi signori, di due o tre marchesi, e che è l’amicone, indovinate un po’ di chi?... dell’ingegnere Mevio...» «Oh! di quell’ingegnere.... così allegro....» «Che avete veduto tante volte al caffè....» «E che quando vuole un bicchier di vino dice: datemi la mia semata! Eh! lo conosco; mi saluta sempre.» «Ed è un uomo di gran talento, sapete? è un omone! Dunque, appena seppi che l’ingegnere Mevio conosceva il mio avvocato, ho detto subito tra me: siamo a casa! faremo cantare anche l’ingegnere, noi! Pensate, come ho dovuto esser fine io, per cavare dall’ingegnere tutto quello che ho voluto, senza che egli ne capisse un bel niente! E ci ho cavato tutto, tutto! Anche ieri m’ha detto d’aver pranzato con l’avvocato Della Valle in casa d’uno di questi marchesi. Pensate se mi voglio divertire quando gli dirò: l’avvocato Della Valle diventa mio genero, e in questo matrimonio c’è entrato un poco anche lei, signor ingegnere, proprio anche lei! Manco male, le manderò i confetti!» «Dunque è affar conchiuso! E il matrimonio si fa presto?» «Presto, prestissimo. Che volete? mentre io facevo le mie indagini, questi due ragazzi se la intesero subito, loro. La mia Enrichetta si faceva ora pallida, ora rossa; mandava dei sospiri lunghi lunghi, e voleva come non lasciar capir niente. Ma io pensavo tra me: ci vuol altro! anche tu hai il cuore fatto di pasta dolce, com’era a’ suoi tempi quello di tuo padre! Però, siccome eravamo da principio, io facevo l’indifferente, con la mia faccia solita, e tenevo duro a non capir niente. Finchè, un giorno.... guardate un poco cosa succede quando non ci si pensa prima! vedendo Enrichetta più malinconica del solito, cercai di farla parlare: ella taceva; io insistevo; e il fatto è ch’essa finì col buttarmi le braccia al collo, e a piangere, a piangere.... Povera figliola! io credetti proprio che in quel punto mi rimanesse soffocata nelle braccia. — Sì, Enrichetta, so tutto! Sono tuo padre.... farò il possibile.... ho già avuto tante notizie sul suo conto.... notizie bonissime. — E non era vero niente. Ma vi domando io, caro Ambrogio, come si fa a rispondere diversamente quando non potete ragionarla un poco a lungo?... e io in quel momento, cosa volete! mi sentivo alla strozza un certo non so che, che c’è voluto fatica a mandar fuori anche quelle poche quattro parole. Per fortuna le notizie, quando vennero, furono buone davvero. Però da quel momento io avevo detto tra me e me: Giovanni, qui bisogna decidersi e far presto! Se vi volessi dire come feci a tirar l’avvocato sul discorso, come si combinò ogni cosa tra noi tre; e poi gli abbracci, i complimenti, l’allegria, non la finirei più. Insomma quando sono con l’avvocato mi pare d’esser io Enrichetta, e quando sono con l’Enrichetta, mi pare d’esser io lo sposo! Non ho mai ricevuto tanti baci in vita mia!... Mi amano!... mi amano!...» «Mi fa proprio piacere che vi sia toccata questa consolazione!» «Grazie, caro Ambrogio. Di voi n’ero sicuro. Son due mesi che teniamo la cosa in gran secreto, perchè c’era pur qualche affaruccio da spicciare. Anzi l’avvocato avrebbe voluto aspettare, prima di stringere i nodi, che di questo tal impiego ci fosse proprio anche il decreto sulla gazzetta; e avrebbe voluto poi che fossi andato al suo paese a domandar conto di lui; a mettere il naso ne’ suoi affari; a verificare, a sindacare.... figuratevi!... ma io, delicatissimo del pari, per quanto lui insistesse, mi misi al muro, e non ho voluto saperne. Eh diamine! È vero che quest’impiego, come dice l’avvocato, non c’è ancora, ossia non hanno ancor detto: voi andrete a sedere in quell’uffizio od in quell’altro; ma queste, soggiungo io, son cose di pura forma, son quasi cerimonie quando si hanno delle promesse, quando si hanno certe lettere in mano, come le ha l’avvocato. Per l’impiego, sia detto tra noi, chi s’è preso l’impegno è un deputato, ma uno dei primi deputati del Parlamento! Questo signore, fin da quattro mesi fa, ha presentata la supplica al ministro, il quale la prese, la lesse, poi la mise nientemeno che nella tasca in petto del soprabito, dicendo: l’avrò a cuore, non dubiti, l’avrò a cuore! — Ma c’è di più! Siccome il deputato insiste, e scrive al ministro direttamente com’io potrei scrivere a voi, così il ministro gli ha risposto un mese fa, con queste precise parole: _Sarà difficile che possa trovar così subito_.... ma notate che è passato un mese.... _una nicchia per il suo raccomandato; ma le ripeto che l’avrò a cuore, e che farò per lui quanto mi sarà possibile, se le circostanze lo permetteranno_. E sotto c’è il nome del ministro scritto di tutto suo pugno. Capirete che quando un ministro, che può far tutto, dice _farò quanto posso_, per chi è buon intenditore, ce n’è fin troppo! Le altre parole.... son parole, e queste lettere diplomatiche bisogna poi anche saperle interpretare. Cosa ne dite?» «Eh! è chiaro, chiarissimo. Quando si hanno di queste protezioni....» «È quel che dico anch’io. Per cui pensate che fortuna è capitata alla mia Enrichetta! Sposare in un colpo solo un avvocato, un impiegato, e uno che ha del suo finchè ne vuole!» «Ricco anche del suo!» «Eh altro! Lui ha una casa che guarda su una piazza; lui ha i suoi camperelli, i suoi capitalucci.... Sicuro che a sentir lui sono un niente, e ogni giorno mi vorrebbe tirare al suo paese perchè vedessi le cose coi miei occhi. Ma io li conosco questi campagnoli!... tutti eguali!... pieni di denari, non sanno d’averli, e fanno il povero! N’ho conosciuto una volta uno di questi campagnoli, che a sentirlo gli avreste fatta la limosina: ebbene, quando è morto, gli hanno trovato nel canterano un sacchetto pieno d’oro! Capite! Volete che io vada a far le stime, e gli inventari, come un usciere, o come un rigattiere? Bella confidenza che ha il futuro suocero! direbbero in quel paese. E così farò veder loro, a quei campagnoli, con un tratto nobile, come si faccian le cose dai cittadini.... e cosa siano all’occorrenza i Milanesi!...» «Bravo il nostro Giovanni!» «Eh? le sappiamo fare a dovere le cose, noi di Milano? lo dico sempre io! Ma non è tutto qui: vi conterò una qualche volta, con più comodo, che contegno è stato il mio quando appunto, in queste cose di denaro, s’è dovuto mettere un poco di nero sul bianco. Ho trattato come un vero cavaliere! e ne sono ben contento. Ogni giorno ho un motivo di più per poter dire che pari all’avvocato Della Valle ce n’è pochi, e che alla mia Enrichetta è capitata una gran fortuna! Ma la mia Enrichetta, dico il vero, la meritava!... La mia buona Enrichetta!... L’avevo io il presentimento, fin da quando era bambina, che sarebbe salita in alto, in alto! E per questo non ho badato a spese: la mi è costata un occhio! ma ne sono contento. Fin due maestri a un tempo le facevo venire! La calligrafia poi gliela ho insegnata io. Se vedeste che bel corsivo inglese è il suo! E oltre il corsivo, conosce profondamente due o tre altri caratteri; sa fare qualche iniziale allegorica, con frecce, o foglioline d’alloro.... insomma anche in quanto alla calligrafia mia figlia può andare nelle prime società, senza soggezione di nessuno.» «Benissimo! Con tutto questo però, ve ne rincrescerà fino all’anima, povero Giovanni, a staccarvi dalla vostra figliola!...» «Staccarmi dalla mia figliola? Oh questo mai!... E poi l’avvocato è troppo innamorato di me! non ve l’ho detto? Guai se parlassi di lasciarli andar soli!» «A proposito, vostro genero avrà l’impiego in Milano?» «Pare di sì.» «E se poi gli toccasse d’andar via?» «Gli andremo dietro! Dovete sapere che tutti i forestieri coi quali ho parlato, m’hanno sempre detto che si capisce ch’io avevo una gran disposizione per viaggiare! E infatti, io la vedo piuttosto di buon occhio anche la gente degli altri paesi. Sicuro! caro Ambrogio; chi sa che una qualche volta non ce lo vedano proprio anche il vostro Giovanni in qualcuno di questi paesi lontani! Se ci vado, lasciate fare a me: ci penso io a mettere in ordine dappertutto la guardia nazionale! Lo farò veder io a quella gente cosa dev’essere la guardia nazionale! Chi sa che disordine! che babilonia! che indisciplina ci trovo!...» «Ehi! signor sergente!... Se dorme, la si svegli! Non c’è la stufa qua fuori! La mia ora è finita da un pezzo!» A questa chiamata improvvisa, il nostro sergente saltò in piedi, e vide sulla porta del camerotto la sentinella, con la faccia intirizzita, e col piglio di cattivo umore. «Oh! la mi scusi.... vengo subito. Son così matti questi orologi!... non ce n’è due che vadano d’accordo!» esclamò il nostro Giovanni, mentre la sentinella ritornava al suo posto, borbottando: «Dimenticare le sentinelle con questo freddo.... bella disciplina!...» «Ehi là! a chi tocca!... signor Pietro!» continuava il sergente avvicinandosi alle brande.... «Eh! dormono come tassi!... Abbiate pazienza, Ambrogio, fatela voi adesso la vostr’ora, ve la terrò breve... e poi continueremo il nostro discorso.» V. Dunque nel caffè di Castelrenico le cose le si sanno, e non ci si dicon frottole! È là che abbiam sentito per la prima volta che l’avvocato Massimo prendeva moglie; e che la cosa fosse vera, lo possiamo ora attestare anche noi tutti, che abbiamo udito il discorso del signor Giovanni. Se in Castelrenico c’era qualche incredulo, questo ebbe presto sotto gli occhi le prove del contrario, perchè Massimo, pochi giorni dopo la sua partenza, scrisse a quattro o cinque de’ suoi amici, e diede loro la nuova del suo matrimonio. Sopra questo fatto in caffè si discusse molto. — «Ah qui c’è del mistero!... Qui non ci si vede chiaro!... Non dir niente a nessuno.... andare a Milano.... dopo una settimana scrivere che s’è sposi.... insomma non ci si vede chiaro!... Massimo non è più lui, e caso mai voglia darla a bere a qualcuno, pigli i Milanesi, ma non quelli di Castelrenico!» — A chi parlava così s’univan poi quelli ch’eran piccati che Massimo avesse scritto ad altri e non a loro. La conclusione unanime fu che non gli si doveva rispondere, e quelli che avevan avuta la lettera furono i più fieri in questo partito: l’avvocato Massimo però riceveva da ciascuno, il giorno dopo, una risposta tutta congratulazioni e proteste d’amicizia. Diremo a giustificazione di Massimo, che se questa volta s’era tenuto un poco abbottonato con gli amici, era stato in grazia d’un certo timore che l’aveva preso prima di partire, che cioè l’affar dell’impiego potesse andar per le lunghe; e fino allora egli era stato sempre fisso che senza impiego non si faceva matrimonio. Ma giunto a Milano, le istanze del signor Giovanni e della sposa furon tali che dovette cedere; e così per il matrimonio si fissò il giorno, e si permise all’impiego di arrivare anche un po’ dopo. Questa condiscendenza però aveva lasciato al nostro Massimo qualche scrupolo; non pochi nuvoli attraversavano di tanto in tanto la sua contentezza, e per diradarli egli era andato in que’ giorni tempestando di lettere il suo amico deputato, perchè spicciasse questa faccenda dell’impiego or che tante ragioni lo facevano diventar urgente. Il deputato aveva risposto cento belle cose, ma sempre mietute nel campo delle speranze: la risposta che doveva metter la gioia in tutti non arrivò proprio che il giorno stesso del matrimonio. In quel giorno, uno de’ primi del gennaio, non c’era stato un minuto di riposo in casa del signor Giovanni. Era stato un andirivieni continuo di parenti, di amici e di curiosi: il campanello di casa aveva risonato tanto da assordare. Eran visite o ambasciate; era la sarta o il parrucchiere; eran fattorini con ceste di focacce, paste dolci e bottiglie, perchè c’era invito di amici per la sera. Insomma avevan tutti tanto di testa, e fin gli sposi auguravano in cuor loro che finisse presto questo giorno, che pur avevano aspettato come il più bello della vita. Verso il tramonto ci fu un po’ di tregua. Non eran rimasti che quattro amici, tra cui l’ingegnere Mevio e Ambrogio, il compagno d’armi di Giovanni, che dovevan fare da testimoni, e una parente che doveva accompagnare Enrichetta alla chiesa. Alla chiesa si doveva andare più tardi, dopo aver pranzato tutti in compagnia. Tutti s’eran detto da un pezzo che a quel pranzo ci doveva essere tanta allegria, che nessuno avrebbe saputo come star nella pelle. L’ingegnere Mevio cominciò infatti a tavola qualche barzelletta a proposito del matrimonio e degli sposi, e gli invitati fecero il possibile per rider proprio di cuore. Anche Giovanni, per far gli onori di casa, dava di tanto in tanto in una gran risata; ma la risata finiva presto senza ch’egli lo volesse, e quasi a suo dispetto. Allora guardava i suoi sposi, i quali gli ricambiavano un sorriso in cui c’era tutt’altro che quell’allegrionaccia che tutti s’eran promessa. Pareva anzi che su quel sorriso fosse disceso un leggier velo di malinconia. Eppure que’ due sposi eran felici davvero! ma ogni minuto che li avvicinava a quell’ora tanto solenne, raccogliendo gli animi loro, vi suscitava una gioia, ma insieme una trepidazione di più. Era parso loro mille volte d’aver proprio bisogno di dire il loro affetto al mondo intero; ma in quel punto s’accorgevano che anche que’ pochi quattro amici eran di troppo. Alle frutte si udì una nuova scampanellata. Giovanni fece un moto d’impazienza, come a dire che, a quell’ora almeno, avrebbero dovuto desinare, e starsene a casa loro, anche i seccatori. Poco dopo entrò la serva con una lettera diretta all’avvocato Della Valle. Questi la prese, riconobbe la mano di scritto del suo amico deputato, l’aprì, la lesse rapidamente, e diede in una così lieta esclamazione che fece balzar in piedi il signor Giovanni, e deporre coltelli e forchette a tutti i convitati. Sulla faccia di Massimo era comparsa a un tratto un’allegria così schietta, quale nessuno gli aveva veduta mai. «Leggete, leggete pure,» diss’egli rizzandosi; e Giovanni che non ne poteva già più per l’impazienza, prese la lettera, si mise gli occhiali, e lesse ad alta voce: «Carissimo Avvocato, »In questo punto mi vien data una buona nuova per voi, e ve la scrivo in tutta fretta per non ritardarvela d’un minuto. Poco fa, nell’uscire dalla sala del Parlamento, passai vicino a quel ministro, a cui vi avevo così calorosamente raccomandato. Il ministro, vedendomi, si rizzò, mi strinse la mano e mi disse: — Sono lieto di poter fare finalmente qualcosa per il suo raccomandato: il posto c’è, e tra pochi giorni potrò firmare il decreto. Il suo raccomandato desidera rimanere in Milano, nevvero? È cosa che si potrà combinare facilmente.... ne parleremo; passi da me.... »Dopo queste precise parole mi strinse la mano di nuovo, e ritornò al suo posto. Dunque, come vedete, la cosa è fatta. Fra qualche giorno andrò dal ministro, saprò di quale impiego si tratta, e farò tutto il possibile perchè rimaniate a Milano. Vi scriverò dunque di nuovo e prestissimo, perchè abbiate più completa la bella nuova d’oggi. »Vi stringo la mano, e mi congratulo di cuore con voi.» La fine di questa lettera fu accompagnata da un batter di mani e da un evviva generale. Tutti si levarono da tavola, e Massimo corse a stampare un bacio sulla fronte di Enrichetta: non si sarebbe detto più che que’ quattro amici presenti fosser di troppo! La gioia di sentirsi quel lungo dubbio giù dalla coscienza, era stata più forte d’ogni altro sentimento più ritenuto e delicato. «Che bella lettera! Come scrive bene questo deputato!» aveva esclamato per prima cosa Giovanni, togliendosi gli occhiali, e tenendo la lettera spiegata. «Eh, ne abbiamo degli uomini!» «Evviva il nostro consigliere di governo!» gridava l’ingegnere Mevio, alzando un bicchiere da cui non s’era staccato nel lasciar la tavola. «Eh sicuro! qui si tratta d’un posto di consigliere,» diceva uno dei convitati. «E a dir poco!» soggiungeva un altro. «Piano, piano, non sarà poi tanto!» disse alla sua volta anche Massimo con una certa modestia. «O consigliere o non consigliere, qui si tratta di qualcosa di grosso!» ripigliava Giovanni. «Credete voi che un ministro si levi dal suo posto, che è il posto dei ministri, per discorrere di una bagattella? Voi siete sempre l’uomo dei dubbi, caro Massimo. Quante volte non mi avete detto che non avevate fiducia negli attuali ministri, che bisognava cambiar l’indirizzo politico del ministero!...» «Eh, li credevo proprio, come li dicono i giornali, guidati da idee piccole, poco liberali.... amici e fautori solo dei loro amici....» «E cosa vi rispondevo io? Vi rispondevo che prima di parlare, bisogna veder le cose coi propri occhi; vi rispondevo che bisogna andare adagio nel mancar di rispetto a chi comanda, se no non si troverà più un cane che ubbidisca; vi rispondevo che le chiacchiere son chiacchiere, e che io sarei sempre corso col mio uniforme e col mio fucile per mantenere il buon ordine!» «Insomma avevate ragione voi, non parliamone più.» «Così mi piace! Ma se parlavo così, era perchè io avevo capito da un pezzo che quel ministro era un brav’uomo. _Finalmente sono lieto_, son sue parole, e ci si vede anche l’uomo di cuore! Rizzarsi premuroso.... stringer la mano.... mi par di vederlo quel brav’uomo! E in quell’aver capito a colpo d’occhio che voi siete proprio fatto per un impiego.... in quel veder subito il modo di aggiustare le faccende.... lasciarvi a Milano.... come si capisce l’uomo di Stato!...» «Però, s’io ero nei panni di quel signor deputato,» interruppe l’ingegnere Mevio, «facevo un poco di faccia tosta, e gli domandavo lì per lì di che impiego si tratta, per non tenervi sulla corda una settimana ancora.» » Eh, vi pare,» gli rispose Giovanni; «la sarebbe stata poi una indiscrezione!...» «Capisco, ma sapete come son fatto io! Intanto, beviamone un bicchiere alla salute del ministro, degli sposi, e del nonno dei consiglierini che nasceranno!» Questa piacque a tutti, e principalmente a Giovanni, che fu subito in faccende a sturar bottiglie, a empir bicchieri, e a ricambiar degli evviva con tutti quanti. «A proposito!» saltò su a un tratto l’ingegnere Mevio, «ho un’imbasciata per voi, avvocato, e per la sposina.... proprio anche per la sposina! Indovinate un poco di chi?... Del marchese Renica. Sicuro, il marchese mi ha domandato conto di voi più d’una volta; s’è parlato del vostro matrimonio, e ieri mi ha detto che desidera di conoscere la sposina, _la sposina che dicono tanto bella_! son sue parole.» «Oh diamine! quel signor marchese ha detto così!...» interruppe Giovanni. «E voi, Massimo, che non gli avete fatto ancora una visita, dopo che siete a Milano!» «Ne avevo tante per il capo! Ora ci andrò.» «E bisognerà condurci anche Enrichetta: cosa ne dite, ingegnere?» «Lasciate fare a me, combinerò io ogni cosa. Domani, scommetto, me ne discorre lui per il primo, perchè sa che oggi si faceva il matrimonio, e che io passavo la serata in casa vostra.» «Per cui il marchese avrà parlato anche del suocero!» disse Giovanni. «A quanto ne sento, dev’essere un omone quel marchese! Avevate fatto proprio male voi, Massimo, a non andarci finora! Quando si aspetta un impiego di tal fatta, quando si è in alto come lo siete voi, ci vuol tutto in proporzione, anche gli amici! Il quartierino, per esempio, che avete preso qui vicino al mio, vi pareva fin troppo grande, troppo di lusso. Andate là, andate là! dicevo io. E adesso, vedete un po! non so neanche se basterà. Cosa ne dite, ingegnere? vi pare che quel quartierino possa bastare, caso mai ci venisse in visita il marchese Renica, o qualche altro personaggio?...» «Le carrozze! ci son le carrozze!» venne a dir la serva in tutta fretta, mettendosi a un tempo il velo in testa, per correr subito alla chiesa anch’essa, e vedere la padroncina a prender marito. La signora che doveva accompagnare Enrichetta all’altare, e che fino a quel punto non aveva detto sillaba, colse quel momento, in cui anche lei diventava un personaggio d’importanza, per prendere la direzione degli ultimi preparativi. Fu lei che mise il velo bianco alla sposa; che si levò di dosso qua e là una dozzina di spilli per tenerle in riga un fiore, un nastro, una piega del vestito; che le diede gli avvertimenti necessari sul modo di scender di carrozza, e di inginocchiarsi all’altare, senza sconciar nulla. Anche gli altri in fretta si attillavano alla meglio, per far buona figura. Giovanni, tutto rosso in faccia, era alle prese con un guanto nuovo che gli si era piantato a metà della mano e non voleva più andar avanti. «Facciamo presto.... non facciamoci aspettare....» diceva di tanto in tanto per non tenersi tutta la responsabilità del ritardo. Infine, la signora, com’ebbe data l’ultima lisciatura, e un’occhiata generale alla sposa, girandole intorno due o tre volte, e come s’ebbe acconciati anch’essa allo specchio, con la debita cura, i capelli, il cappellino e la mantiglia: «Noi siamo pronte,» disse con molta gravità; «andiamo.» «Nessuno ha dimenticato niente?» domandò Giovanni. Enrichetta s’avviò per la prima, la comitiva le andò dietro; scesero le scale e presero posto nelle due carrozze che aspettavano in corte. I curiosi corsi in chiesa a veder gli sposi eran molti. C’era tutto il vicinato, i bottegai del quartiere, mezza la compagnia dei militi di cui era sergente il signor Giovanni. Il conoscer mezza Milano, era una delle cose a cui Giovanni teneva di più; e a questa mezza Milano egli non aveva fatto, da parecchi giorni, che parlare pomposamente, più che aveva potuto, del gran matrimonio della sua figliola, annunziando a tutti la sera in cui lo si sarebbe fatto. Mentre si avviava all’altare, nel mezzo della lunga navata della chiesa, quegli occhi rivolti su lei, quel bisbiglio, quelle parole che da ogni parte le giungevano confusamente, diedero a Enrichetta una commozione nuova, improvvisa, e quel senso quasi di timore di chi muove il passo sur una strada che non conosce. Sentì, in quel momento, che le si affacciava come una vita nuova; sentì finita l’esistenza tranquilla, ignorata della fanciulla; si trovò in mezzo alla gente, osservata, giudicata. Non vide più nulla fuor che i ceri accesi dell’altare, e non ebbe che un’ansietà, quella di poter presto appoggiarsi al braccio del suo sposo. Eppure, in quel bisbiglio, in quelle parole, non c’erano ancora i giudizi severi, inesorabili, senza appello e senza grazia, di cui c’è tanta abbondanza nel consorzio umano, e di cui tutti sono a un tempo dispensatori e vittime. In quel bisbiglio e in quelle parole non c’era che un’ammirazione unanime per la sposa; anche dello sposo i più dicevano che era un bell’uomo: i motteggi non mancavano, ma andavan tutti sulle spalle di quei della comitiva. Ed Enrichetta infatti era pur bella! Aveva un bel vestito di seta bianca; un velo bianco le scendeva dal capo e ravvolgeva, senza nasconderle, le forme snelle, eleganti della persona; i suoi capelli biondi, i suoi grand’occhi celesti, e quello stesso pallore maggior del solito, davano alle linee purissime del suo volto qualcosa di così quieto e soave, che in mezzo al buio della chiesa la potevano quasi far parere un angelo staccatosi dal quadro annerito d’un altare. Ecco perchè tanto quei del vicinato, che i militi della compagnia del signor Giovanni, tutti di così difficile contentatura nell’argomento del bello, quella sera si dichiararono soddisfatti. «Tutto è andato proprio bene, benissimo!» disse Giovanni nel rientrare in casa con la comitiva, e nel levarsi quel guanto che era stato fino a quel punto il solo ostacolo alla sua piena felicità. «Peccato che un matrimonio sia così subito fatto, e che una così bella cerimonia finisca così presto!» Allora non si faceva il matrimonio civile, e Giovanni non potè avere una consolazione di più. «Oh, ma cosa vedo io mai!» esclamò interrompendosi bruscamente. «Enrichetta, non hai messo al collo la bella croce a pietruzze che t’avevo fatto fare appositamente! Oh che peccato! ma sicuro! ma come mai....» Enrichetta tirò da parte suo padre, e gli disse all’orecchio, con un accento dolce, tranquillo, e che voleva parere meno mesto delle parole: «Babbo, lo so! Vedi che cosa ho messo invece?... ho messo questo coricino dove c’è il ritratto della povera mamma.... La povera mamma me lo mise al collo prima di morire, dicendo che me lo tenessi sempre, perchè m’avrebbe fatto pensare a lei.... e mi avrebbe fatto indovinare, nei momenti seri della vita, i suoi consigli.... poichè essa non poteva darmeli più. M’ha detto che lo tenessi sempre, e che mi avrebbe portato fortuna....» «Hai fatto bene!... hai fatto bene!» disse Giovanni asciugandosi una lacrima. «Se ci fosse la mia povera Carolina... come sarebbe contenta!...» Ma intanto la sala si empiva di invitati, e da ogni parte era un domandare: «Dov’è la sposa? dov’è il signor Giovanni?» E il signor Giovanni e la sposa dovettero troncare quel loro discorso, pigliare a prestito in fretta un po’ di faccia allegra, e correre a ricevere le congratulazioni e a far gli onori di casa. Degli invitati ce n’era parecchi che, pigliando alla lettera quello che loro aveva detto Giovanni di venir senza cerimonie e in confidenza, non s’eran dati neppur l’incomodo di mutarsi i panni messi la mattina. Altri, pigliando una via di mezzo, s’eran rassettati un pochino e s’eran messi i guanti. E c’era finalmente anche di quelli che, a far vedere come si fanno le cose, eran venuti in giubba, guanti gialli e cravatta bianca. A questi Giovanni mostrava, con ogni sorta di attenzione, la propria riconoscenza. Anche alcuni militi, che per far onore al loro sergente, eran venuti in uniforme, avevano toccato il cuore di Giovanni, e s’eran trovati subito al medesimo livello di quei della giubba. Mentre venivan gli invitati, ogni tavola e ogni tavolino della sala era stato coperto di vassoi ricolmi di confetti, paste dolci, torte, sorbetti, chicchere di zabaione, bicchieri, bottiglie di vino. Giovanni, Massimo, l’ingegnere Mevio, aiutati da qualche altro tra i più volonterosi, cominciarono a servire tutta quella imbandigione, ora facendo coraggio agli invitati perchè si avvicinassero ai tavolini, ora portando in giro vassoi e porta-dolci. Mevio era dappertutto; chiamava, gridava: a tutti ne diceva una; faceva ridere o rideva lui per tutti. Giovanni, mostrando d’aversela a male se qualcuno non si serviva per quattro, aveva un gran da fare a raccomandare che soprattutto si lasciasse da parte l’etichetta. E l’etichetta fu lasciata da parte prestissimo senza molla fatica. Mano mano che si vuotavan bottiglie e vassoi, lo schiamazzo andava crescendo, e non ebbe più ritegno quando Mevio, levata di tasca una cartolina, lesse un sonetto, come diceva lui, ossia quattro facce di strofette in versi, molto sciolti, quantunque rimati. Mentre l’ingegnere declamava per la seconda volta il suo sonetto, la serva portò in sala un panierino e una lettera che venivano da Castelrenico, ed eran per l’avvocato Massimo. L’avvocato Massimo riuscì appena a prender la lettera, poichè sul cestello mise le mani Giovanni: «Un regalo!... un regalo per gli sposi!... apriamo.... vediamo!» Mevio dovette raccorciare il sonetto e saltare alla chiusa, perchè i più s’eran già fatti in giro al panierino, e ognuno voleva dare una mano a Giovanni che si studiava d’aprirlo. L’avvocato Massimo, tiratosi in disparte, lesse la lettera che diceva così: «Carissimo cugino, «Avendo saputo che domani è il giorno del vostro matrimonio, tanto io che mia moglie vi mandiamo proprio col cuore le nostre felicitazioni. Non potendo venire in persona, c’è venuto in mente di mandarvi qualche piccola cosa per farvi festa anche noi alla meglio. Mia moglie si fa coraggio di far accettare alla vostra signora sposa un piccolo astuccio, che era tra gli oggetti che ho ereditato anch’io dallo zio, e che io le avevo regalato, ma che non è cosa adattata alla nostra condizione. «Io, non avendo di meglio, vi mando due pernici. Non mi costano un soldo, ma valgon molto perchè me le ha regalate un mio amico cacciatore, che di solito non piglia mai niente. «Scusatemi la confidenza, e accettatele di buon cuore. Non mi dovete neanche dir grazie. Volete che io mangi delle pernici? Queste, ho detto, devono proprio essere per l’avvocato il giorno del suo matrimonio. «Siamo in casa un poco melanconici perchè in questi giorni il mio figliolo maggiore. Tonino, è partito per la Svizzera condotto da un mio amico, per imparare con perfezione il nostro mestiere. Dovrà star lontano un paio d’anni. «Di salute però stiamo bene. «Tanti rispetti alla vostra signora sposa. Io valgo poco, ma però in quel poco comandatemi sempre. «Vostro affezionatissimo cugino «MARTINO DELLA VALLE.» Giovanni intanto aveva aperto il panierino, l’aveva vuotato, e n’era rimasto alquanto deluso. Nell’astuccio c’eran due orecchini d’oro di filagrana, con una perluccia nel mezzo, e una catenina di Venezia antica a più giri da portare al collo. Nè la catenina nè gli orecchini piacquero ad alcuno. Giovanni e gli astanti non lo dissero, ma palesarono unanimi che non si regalano di queste cianfrusaglie a una sposa di riguardo. Tanto tanto, le due pernici parvero un poco più adatte alla circostanza. Enrichetta domandò allo sposo da chi veniva quel dono; e l’avvocato, che aveva messa la lettera in tasca, rispose un poco imbarazzato che lo mandava un tale del suo paese... un buon uomo... ma un poco originale! «Un originale» ripeteron parecchi: «si capisce!» «Questi campagnoli non conoscono le convenienze;» pensò tra sè Giovanni, e mise il panierino da parte. L’ingegnere Mevio ricominciò il suo sonetto, e pochi minuti dopo era ricominciato anche lo schiamazzo di prima. VI. Due giorni dopo le nozze, l’avvocato Massimo, per aver pace col socero, era andato a far visita al marchese Renica, e gli aveva annunziato il suo matrimonio. Il marchese, con l’aria un pochino di protezione, ma con molta dignità e galanteria, gli aveva detto che sarebbe lietissimo di conoscere anche la sposina. E Massimo, dopo qualche complimentuccio ingarbugliato, aveva finito col rispondere che si sarebbe fatto premura egli stesso di condurgli e presentargli sua moglie. Il marchese aveva sorriso leggermente, e non aveva risposto altro; ma il giorno dopo facendosi accompagnare dall’ingegnere Mevio, e con una cert’aria galante e conquistatrice che amava ripigliare di tanto in tanto, era andato a fare una breve visitina alla signora Enrichetta Della Valle. È facile immaginarsi la desolazione del signor Giovanni quando seppe che il marchese Renica era passato dinanzi al suo uscio, era stato nel salottino di sua figlia, e se n’era andato proprio pochi momenti prima ch’egli tornasse a casa. «Ma guardate che combinazione!» andò ripetendo Giovanni per tutto quel giorno. «Potevo essere a casa mezz’ora prima!... ma signor no! a cento passi dalla mia porta do il naso proprio in un forestiero!... mi ferma, e mi vien fuori con uno di que’ linguaggi che si direbbe, poveretti, che sono imbarazzati anche loro a capirli! Lo aiuto alla meglio a spiegarsi, e concludo che costui voleva andare in piazza del Duomo. Ho cercato io di insegnargli la strada... parlando chiaro e forte che quasi non avevo più polmoni... ma fu inutile! Son duri questi forestieri, duri! E ho proprio dovuto accompagnarlo io, in persona, fin là!» Ma, pochi giorni dopo, un nuovo avvenimento metteva sossopra il nostro Giovanni ancora di più. Il marchese Renica aveva trovato che la signora Della Valle era bellissima, bella come le signore d’una volta, e come non ne vedeva da un pezzo; ragione quest’ultima per cui aveva anche smesso, come diceva lui, di far la corte alle signore moderne. Sua nuora, don Gilberto e qualch’altro della conversazione d’ogni sera, dopo aver fatto gli increduli, e dopo avere scherzato col marchese più giorni a proposito della sua ammirazione, cosa per lui tanto insolita, finirono con l’aver tutti una grande curiosità di conoscere anch’essi questa signora così bella, e trovata così di fresco. Il marchese li pigliò tutti in parola, e col fare ringalluzzito, e come disponesse di cosa sua disse: «Ebbene, vi farò conoscere qui, in questa sala, e tra poche sere, la mia bella sposina!» Ne aveva infatti un’occasione vicina e favorevolissima, quella del suo onomastico. E detto fatto, il marchese incaricò l’ingegnere Mevio di invitare in suo nome l’avvocato Della Valle e sua moglie a prendere una tazza di thè, la sera di sant’Antonio. Questo invito fu un avvenimento non piccolo, come dicemmo, per Giovanni, il quale trovò modo di parlarne con gli amici, col vicinato, e in quartiere coi superiori e cogli inferiori, senza omettere l’incontro con quel tal forestiero che gli aveva fatto perdere la mezz’ora. E concludeva col dire: «Già era tutt’uno, perchè se non m’imbatteva col forestiero, mi sarei imbattuto poi col marchese, il quale, dopo avermi conosciuto, avrebbe voluto per forza tirarmi a casa sua.... Figuratevi! fare delle nuove conoscenze alla mia età!... Oh, quanto ai miei sposi è un altro par di maniche! È il loro tempo!... Ma, come dicevo, posso ringraziare quel forestiero, perchè se rientro in casa cinque minuti prima, ci sono!... L’ho schivata bella!... l’ho schivata bella!...» E il suo vicino di casa, Ambrogio, cercava di persuaderlo che non sarebbe stato poi un gran male. Venuto il giorno di sant’Antonio, alle ore nove della sera, l’avvocato Massimo e sua moglie, condotti dall’ingegnere Mevio, facevano il loro ingresso solenne in casa del marchese Renica, preceduti, seguìti, osservati da capo a piedi da altri signori e signore che mano mano andavano affollando la sala. Il marchese Renica che di solito era piuttosto brusco e altiero, ma che teneva in serbo per le occasioni quella cortesia che si chiama _d’altri tempi_ quand’è perfetta, accolse l’avvocato e sua moglie come accoglieva tutti quella sera, senza differenza per alcuno, con ogni sorta di belle maniere e di parole gentili. Il marchese presentò la signora Della Valle a sua nuora, la marchesa Giulia, la quale fu cortese anch’essa, ma col fare un tantino di protezione e di curiosità; un fare un po’ più moderno. Sulle prime, la soggezione che in loro mettevano i padroni di casa e tutte quelle facce nuove che si vedevano in giro, gli addobbi ricchissimi della sala, le lumiere, le livree dei servitori, e fin Mevio che non era più quel giovialone di tutti i giorni, diedero a Massimo e all’Enrichetta un grande imbarazzo e un improvviso desiderio di trovarsi lontani di lì. Ma poi, a poco a poco, finirono anch’essi col trovare la loro nicchia. L’avvocato Massimo, che s’era tirato adagio adagio nel vano d’una finestra, ci trovò il consigliere Rocca, che in Castelrenico non aveva mai potuto digerire, ma che qui gli parve uno zucchero; e con lui avviò un lungo discorso sui diritti ipotecari, che avevan poco che fare con la festa di sant’Antonio, ma che erano in quel punto un porto di salute. Enrichetta si trovò seduta vicino a una vecchia signora, di maniere gentili, con la quale cominciò a ricambiare qualche parola. Qualche parola di tanto in tanto veniva a dirgliela con galanteria il marchese Renica, cercando d’esser veduto e sentito soprattutto da don Gilberto; e frattanto le aveva presentati i suoi due figli, Giorgio, marito della marchesa Giulia ed Emanuele, elegante uffizialetto di cavalleria; poi, qualcuno dei suoi amici che aveva veduto avvicinarsi con curiosità. Don Gilberto, per una vecchia abitudine di mettersi in concorrenza col suo amico il marchese Antonio, e per poter dare il suo giudizio sulla signora Della Valle, giudizio ch’egli riteneva il più autorevole di tutti e il solo decisivo, discorse a più riprese con Enrichetta, ora con l’aria di farle la corte parlandole piano del bel tempo, ora con l’aria di chi si ridesse un pochino di lei a seconda di chi lo osservava. Enrichetta, che non sapeva di subire in quella sera il suo esame d’ammissione, rispondeva a tutti col fare semplice che le era abituale, col suo bel sorriso pieno di grazia e di modestia, e con nessuna di quelle parole pigliate a prestito che danno così facilmente in una stonatura. Il risultato dell’esame fu dunque buono, e anche don Gilberto finì col conchiudere tra sè con un «non c’è male.» L’esame fu sospeso da un pezzo a quattro mani sul pianoforte che fece finire a un tratto le conversazioni, e obbligò a trovarsi un posto in qualche modo e in qualche cantuccio anche tutti quelli che fino allora eran andati girellando per la sala discorrendo qua e là. Dopo il primo pezzo, ce ne fu un secondo, poi un terzo; e fecero le loro prove una signora, un maestro, e un pianista che si degnava prodursi, per eccezione, anche in quella semplice riunione di famiglia. Un dilettante, che dilettava poco, cantò una romanza francese; alla scarsa voce suppliva con la molta espressione, cioè guardando molto il soffitto, stralunando gli occhi, e tenendosi le due mani sul cuore per non lasciarselo scappare. Ogni pezzo finiva tra i soliti _benissimo_ e _bravissimo_, che ognuno proferiva con un fare convinto e con una smorfia che desse al vicino un concetto non piccolo della propria intelligenza musicale. La marchesa Giulia prima di ammirare voleva sapere il nome dell’autore, per non cadere nel cattivo genere d’ammirare uno di quegli autori che possono essere ammirati da chicchessia. Quindi nel gruppo dov’era lei, e che era quello delle tre o quattro signore più eleganti, si ammiravano meno cose, ma per quelle poche c’era più calore e più disciplina. Qualcuno, per far capire che aveva degli scaffali di musica in mente, pregava il maestro, ch’era un uomo compiacentissimo, di sonare sul cembalo il tale o tal altro pezzo che, per fortuna del maestro, non era necessario cercare in scaffali troppo polverosi. Fu pregato anche quel tale della romanza di cantar qualche altra cosa, ma il pover uomo stentava ancora a riavere il fiato e non ne poteva più. Qualcuno osservò che l’anima troppo sensibile e la troppa espressione che dava al canto lo facevan soffrire, e lo si lasciò tranquillo. Il maestro a un tratto cominciò a sonare un valzer, che fu il segnale di una rivoluzione. Il marchese Antonio, che quella sera faceva tutto di vena, chiamò subito due servitori perchè accostassero al muro qualche mobile ch’era nel mezzo della sala, e si mise a far animo a tutti perchè facessero quattro salti. Qualche giovanetto di buona volontà, senza farselo dir due volte, trovata la compagna delle gioie o delle pene d’un valzer, s’era messo subito, prima ancora che tutti avessero fatto largo, a ballare con uno slancio degno di maggiore spazio. Dopo i giovanetti, e quando ci fu un poco più di posto, vennero quelli che ballano col fare serio e convinto, con le ciglia aggrottate e con l’attenzione di chi è alle prese o con un problema di matematica o con un brano difficile d’una lingua straniera. Poi quelli che aspettano un pezzo la battuta col piede levato, come il bracco che spia la selvaggina; quelli che si fan rossi in viso e scalmanati da far pietà, che faticano, soffrono, ma tengon duro fino alla fine. Vennero quindi i ballerini sentimentali e i ballerini eleganti, che fanno la loro comparsa non per regola ma per eccezione; e da ultimo qualche ballerino vecchio, di quei della guardia che muore ma non si arrende; e qualche signora un po’ in là con gli anni, di quelle che in teoria non ballano più, ma che in pratica ballano sempre. Tutto insomma il personale danzante rispose all’appello del pianoforte, e poco mancò non ballassero anche il marchese Antonio e don Gilberto. La marchesa Giulia, intenta ora a far gli onori di casa, ora a fare un poco di conversazione con le amiche e con gli amici più intimi, non fece che qualche giro di danza, di tanto in tanto, conceduto ben inteso a qualcuno dei ballerini più eleganti, e della categoria di quelli che ballano per eccezione. Enrichetta, guardata da principio con curiosità e un poco alla lontana da quelli che la vedevano per la prima volta in quelle sale, poi invitata a ballare da qualcuno, bella, agile, gentile, s’era presto veduta all’ingiro una numerosa clientela di ballerini che se la rubavan tra loro. Tra questi spiccava don Emanuele, l’uffizialetto, come uno dei più assidui e dei più prepotenti: cosa che don Gilberto si affrettò di far osservare al suo amico il marchese Antonio. «Il nostro Emanuelino non è di cattivo gusto, eh!... Si direbbe che non gli dispiaccia del tutto quella donnina dell’avvocato di Castelrenico!... E non c’è che dire, la è un bel bocconcino davvero!» Don Gilberto guardò in faccia al suo amico, aspettandosi una smorfia non bella; ma il marchese Antonio invece gli rispose con un certo sorrisetto di compiacenza, che gli era abituale ogni qual volta gli si parlava di suo figlio Emanuele. «Guardate un po’ se l’ha adocchiata subito!» continuava don Gilberto. «E m’ha l’aria di volersela proprio tutta per sè!...» «Se ci si mette lasciatelo far lui... quel cattivo soggetto!» rispose il marchese con una compiacenza anche maggiore. «È tutto suo padre!» ripigliava don Gilberto. «Vi ricordate di quei tempi?...» E questa volta il marchese si accontentava di rispondere con una fregatina di mani. «Temo che mi pigli il passo!» disse poi, dopo una pausa, «perchè a ventidue anni ha già avuti quattro duelli, mentre io a quell’età non ne avevo avuto che uno. Buon figliolo però, leale, coraggioso, e tutto cuore! Un mese fa mi sfidò uno perchè lo fissava sempre, e quando s’accorse che era losco gli fece le sue scuse e non volle più battersi con lui; si battè invece con uno dei padrini, ben inteso. Di tanto in tanto già me ne fa qualcuna, ma poi corre subito a dirmela lui per il primo. Il babbo allora gli dà la sua ramanzina a dovere;... ma il mese dopo, di solito, me ne fa un’altra. Tutte cose onorate, intendiamoci!... qualche debituccio, qualche donnina, qualche impertinenza.... Raccomando sempre al suo colonnello che me lo tenga con una mano di ferro; ma ci vuol altro! Quel diavolo ha già rubato il cuore anche del colonnello....» «E stasera vuol rubar quello della signora Enrichetta!» «Oh vi dico io che è un bel soggetto!» E così dicendo, il marchese Antonio si allontanò con una nuova fregatina di mani. Poco dopo don Gilberto era seduto vicino alla marchesa Giulia, la quale faceva crocchio con alcune signore sue amiche, e con qualche elegante adoratore che capitava di tanto in tanto. «Chi proprio m’ha l’aria goffa più del bisogno è quel povero diavolo d’avvocato che se ne sta là, da un’ora, nel vano della finestra, senza trovar modo d’uscirne!» diceva don Gilberto alla marchesa Giulia, che sorridendo gli rispondeva: «Veduto in Castelrenico, pareva meno male....» «Ma qui, cara marchesa, proprio non va!» continuava don Gilberto. «E avere una moglie così bellina!... Eh! è venuto in un cattivo paese, quell’avvocato!... È stato un bel rischiarsi!... E per mettersi al sicuro non basta sempre, come stasera, il vano d’una finestra!... con una moglie così bellina!» «Bellina! è la parola che ci vuole,» soggiunse la marchesa, «perchè a esser bella davvero, diciamolo, ci manca assai. Basta bellina.» «Come vuol lei, marchesa. Diremo bellina, ma bellina poi sì! E anche carina; di modi semplici; discorre benissimo, è un poco imbarazzata, è vero... si capisce che è appena venuta fuori del guscio... ma è una donnina che ha dell’avvenire!... Quanto poi all’avvocato....» «Convengo, don Gilberto, che la signora Della Valle possa farsi anche migliore,» riprese la marchesa, «senza pretendere, ben inteso, che acquisti quel non so che, che uno ha ma non impara....» «Bisognerebbe insegnarle un poco ad abbigliarsi,» soggiunse una delle signore del crocchio. «Un passo ancora, e poi que’ nastri e nastrini farebbero pensare alle acconciature dei cagnolini ammaestrati....» «Ha dei bellissimi capelli,» aggiunse un’altra, «ma bisognerebbe mandarle a casa un parrucchiere; tanto più che in oggi il parrucchiere è necessario più che i capelli.» «Secondo i casi!» osservò don Gilberto sollevando con la mano quei quattro che gli rimanevano. Poi continuò: «Insomma tocca a lei, marchesa, a dar qualche lezione a questa signora Enrichetta; a insegnarle un po’ di buon gusto; a cavarne fuori insomma qualcosa... perchè l’intelaiatura è buona....» «E perchè no!» rispose la marchesa. «Ha il fare piuttosto per bene....» «È una compagna di poche pretese,» continuò con qualche malizia don Gilberto; «può tornare alle volte comodissima....» «Scommetterei però» soggiunse la marchesa interrompendolo «che quella signora ha ben poca salute. Vedete come ha già l’aria stanca... Ballando ha preso un po’ di colorito, e pare anche più bellina; ma appena venuta qui, aveva il viso pallido, trasparente, che pareva d’alabastro....» «Faceva compassione in verità!» aggiunse una delle due signore. «A me invece» rispose don Gilberto «fa compassione ancor più l’avvocato!» «Oh! perchè? perchè?» saltò su Giorgio, marito della marchesa Giulia, capitato in quel punto. «Perchè?...» rispose don Gilberto «perchè ci sono anche gli avvocati delle cause perse!» «Oh! oh!» si esclamò nel piccol crocchio; e il marchese Giorgio se ne andò ridendo un poco troppo, com’era solito. La festicciola durò fino alle due ore dopo la mezzanotte. L’avvocato Massimo, che non era stato tra quelli che s’eran divertiti di più, uscito dal vano della finestra in compagnia del consigliere Rocca, il quale verso la mezzanotte s’era congedato dai padroni di casa, aveva anch’esso mostrato timidamente l’intenzione di fare altrettanto, dopo avere scambiato, con poco frutto, un’occhiata con sua moglie. Ma il marchese Renica aveva tagliato netto, dicendogli che questa volta bisognava lasciar comandare il padrone di casa, e i ballerini della bella sposina: così, fallito quel primo tentativo, non aveva più osato fiatare. Poco dopo, l’ingegnere Mevio era venuto a invitarlo a fare il quarto a un tavolino di giuoco con altri tre mariti rassegnati: ci andò, e ci rimase fin che la sala fu quasi vuota, e le danze di necessità dovettero finire. Marito e moglie, tornati a casa, trovarono ancor desto e in piedi Giovanni che li aspettava e voleva sapere com’era andata. Enrichetta era stanca, rifinita; dopo alcune parole, con le quali cercò di esprimere la sua maraviglia e il suo sbalordimento, se ne andò a letto. Essa avrebbe voluto pigliar sonno subito, ma non ci riuscì che ai primi crepuscoli del mattino. Quella gente, quelle sale, quel non so che di così nuovo per lei; quegli omaggi avuti; quelle parole seducenti che le erano state ripetute e che le avevan dato una specie di fascino, di soggezione, e di sbigottimento a un tempo, le ritornavano come ripetute da un’eco; la tenevano quasi agitata, e le impedivano di chiuder occhio. La mattina seguente, ritrovando la quiete di casa sua, si sentì subito riposata, si sentì meglio; buttò le braccia al collo del suo Massimo, e tutta quella fantasmagoria delle cose vedute e udite in casa Renica svanì, come se tutto fosse stato un sogno e nulla più. Giovanni, per tornare un passo indietro, non aveva voluto lasciar andar a letto suo genero così subito. Innanzi tutto gli aveva preparato un poco di cena, e gli aveva messo sulla tavola una buona bottiglia di vino vecchio, dicendogli: «Di questo non ne avrete bevuto, perchè so ben io come vanno le cose nelle case dei gran signori.» Poi, messosi a sedere, aveva cominciato a farsi dire per filo e per segno quel che aveva veduto, quel che aveva sentito, e quel che avevan detto, durante la festa, d’Enrichetta e di suo padre. Massimo, mentre si rifocillava, e n’aveva bisogno, perchè per una certa soggezione non aveva osato pigliar nulla tutta la sera, raccontava mano mano, tra un boccone e l’altro, le cose vedute, e la grande accoglienza avuta. Giovanni non lo lasciava mai finire, e subito era lì con una nuova interrogazione, o con una esclamazione. «Eh sì! i nostri signori di Milano fanno le cose a dovere!» diceva Giovanni. «Tutte le sale illuminate, stufe e tappeti fin sullo scalone, livree tutte listate d’oro.... nevvero?... eh sì! i nostri signori ne hanno dei quattrini!... ma sanno anche dargli aria!... Insomma avete veduto un gran lusso! e sì che non si trattava che d’una festicciola di famiglia. Immaginatevi poi le feste in grande! immaginatevi!... Milano è un gran Milano! ve l’ho sempre detto io.... I gelati bonissimi, nevvero? Ah! ma voi non avete assaggiato niente.... e avete fatto male, perchè c’è sempre chi osserva, e pare che non si voglia gradire!... Siete un poco sbalordito, eh! caro avvocato? Lo capisco.... ma quello che avete veduto stasera è ancora un niente. Vedrete poi, vedrete questo carnovale! Vedrete le feste del Casino, vedrete il teatro della Scala....» «Ah! il teatro della Scala l’ho già veduto!» «E i veglioni? e i coriandoli?» «Ho veduto una volta anche questi, pur troppo!» «E il corso? e gli equipaggi? e l’Arena allagata? e le botteghe dei salumieri la vigilia di Natale?...» «Le ho vedute.» «Eh! ce ne sono ancora a bizeffe delle cose che non avete vedute! Ma vedrete tutto, se vi lasciano a Milano, e poi parlerete. Quando poi vi manderanno in un’altra città, allora farete i confronti, e mi saprete dire se Giovanni aveva o no ragione!... perchè delle città ne ho vedute anch’io, e parecchie.... Ho veduto Lodi, ho veduto Monza, e Como, e Bergamo.... ma una città come Milano non l’ho veduta mai!... Milano è la prima città del mondo!... Non toccherebbe a me il dirlo, ma insomma....» E Giovanni continuava; ma poco dopo l’avvocato avendo finito di cenare e sentendosi venir sonno, preso il lume gli diede la buona notte. VII. Il giorno seguente, di buon mattino, una lettera pressante era venuta a svegliare Giovanni e farlo correre a gambe a casa dell’uffiziale della sua compagnia. Si parlava in città d’assembramenti, di dimostrazioni politiche, di tafferugli che s’aspettavano per quella sera; e l’uffiziale, che aveva l’ordine di trovarsi al quartiere con parte della sua compagnia, aveva fatto subito chiamare il sergente Figini, e l’aveva incaricato di metter assieme nella giornata un drappello di militi di buona volontà. Giovanni, dopo aver fatto capire all’uffiziale come un tal incarico non fosse una piccola bagattella, ma dovendo pur convenire che per un simile affare non avrebbe saputo, nemmeno lui, chi altri meglio suggerire, senza perdere un minuto, s’era messo all’opera. Girò per un paio d’ore, di casa in casa, di bottega in bottega, su e giù per cento scale, e quando gli parve d’essere in porto, ritornò a casa per mettere in assetto anche lui le cose sue. Levò da un armadio, dove stava sospeso alla gruccia, l’uniforme; lo spazzolò ben bene, lo distese sul letto, diede una ripulita ai bottoni, e a uno a uno con una tiratina si assicurò se erano saldi. Poi pigliò il fucile, diede il bianco al cinturone, tirò a lucido la canna, le fascette, la bacchetta; tastò qua e là col cacciavite se non c’era nulla d’allentato; e di tanto in tanto appoggiando il calcio alla mascella, spianava l’arma, pigliava di mira una pera di sasso o un’arancia di lana che aveva sul canterano, tirava il grilletto, e tutto ciò con un piglio così risoluto, che faceva scappar spaventate le donnicciole del vicinato che per avventura lo vedevano in quel punto dalle loro finestre. Mentre dava mano a tutte queste faccende, Giovanni andava ripensando a quello che gli aveva detto l’uffiziale. «Cose da perder la testa!» diceva tra sè. «Ma chi sono? ma cosa voglion fare questi tali?... Tanto s’è fatto per arrivare al punto in cui siamo!... ci siamo arrivati da ieri, come per miracolo, e, signor no! ci sono già i malcontenti!... Non vi piace il ministero? non vi piacciono i deputati? non vi piace Tizio o Sempronio?... Abbiate pazienza! quando darete il vostro voto, lo darete a chi vi piacerà.... Dico bene o no?... Questo tripolo, per esempio, non è buono che a sporcar le dita, e non vale un cavolo... ma un’altra volta andrò da un altro droghiere, e la sarà subito aggiustata.... E vogliono pigliarsela con chi? Si canta e si grida tutto il giorno che siam tutti fratelli, e poi per la più piccola cosa si vuol venire a’ pugni! Bei fratelli! Bella figura che si fa fare a Milano! Domando io cosa si dirà di fuori? Oh! ma già mi immagino che tra questi farabutti, di milanesi non ce ne sarà. Li conosco io i Milanesi! Sarà gente pagata, gente che viene da Dio sa dove.... Oh, ma se fossi io il Governo, gliela vorrei far vedere! È perchè noi milanesi siamo troppo buoni, siamo troppo di pasta dolce! Ma se stasera me ne capita tra’ piedi qualcuno di questi tali... vedranno cos’è il Figini! Il Figini a suo tempo è buono e al di là di buono; ma poi non bisogna fargli montare la mosca al naso!... L’uffiziale diceva che qualcuno di costoro potrebbe aver anche delle armi indosso.... Portar le armi contro i fratelli? Ci vorrebbe anche questa! Oh, ma non è possibile, e non ci credo se non vedo! Avete dei reclami da fare? Fateli in buona pace! chi ve lo impedisce? Gridate fin che volete su pei giornali, che ne avete a bizzeffe; ma non venite a gridare in piazza! È così chiara. Avete vuote le tasche? andate a lavorare. Quel Governo che dia un impiego a quanti passano per le strade non verrà mai! Ragazzacci! Li avete già dimenticati quelli dei baffi tirati su col sego? Vi par proprio che si deva trattare quei di casa nostra, come meritavano d’esser trattati quelli là? Vergogna! E a sentirli loro saran tutti patriotti. Bel patriottismo? Quando non si sa sacrificar niente; quando non si sa compatire e non si sa aver un poco di pazienza.... Terrà duro questa fibbia? Sarebbe prudenza farne mettere una più salda, perchè conosco il mio carattere, e se me la fan montare, una qualche volta rischio di rimanere senza cintura e senza il fodero della baionetta.... È così che per i grilli di quattro ragazzacci si mettono a cimento i padri di famiglia....» I ragionamenti del nostro Giovanni furono interrotti a un tratto dal rumore di due o tre usci spalancati bruscamente nelle stanze vicine, poi dalla comparsa improvvisa di suo genero, che con un piglio insolito e gli occhi pieni di collera, buttata sul canterano una lettera aperta, dicendo «leggete! leggete!» s’era messo a misurare la stanza a passi concitati dando un calcio a ogni sedia che gli veniva tra’ piedi. Il povero Giovanni si sentì gelare il sangue, e senza capir bene, in su quel subito, se fosse morto qualcuno, se ci fosse una rivoluzione o un saccheggio, capì però che si trattava d’una disgrazia. Pieno di spavento prese la lettera, si fece vicino alla finestra, mise gli occhiali, e cominciò a leggere senza aprir bocca, e guardando di tanto in tanto l’avvocato. La lettera era di otto facce, e chi scriveva era il deputato, il quale dopo un preambolo alquanto impacciato, veniva a dire che quel tal decreto dell’impiego era firmato, ma che l’impiego poi era tutt’altro da quello che aveva creduto; ch’era corso subito dal ministro, nel supposto e nella speranza di un equivoco, ma la cosa pur troppo era tal quale. Diceva d’essersi vivamente lamentato col ministro, ma che il ministro gli aveva risposto che gli sarebbe stato impossibile fare di più; che non poteva nominar di colpo a un posto più alto un aspirante nuovo con danno e offesa di tant’altri impiegati; che bisognava cominciare dal primo passo, e ch’era già una fortuna il poterlo fare in mezzo a tanti che vi aspiravano. Il ministro poi aveva soggiunto che l’avvocato Della Valle co’ suoi meriti avrebbe potuto progredire prestissimo, e che avrebbe avuto subito cento occasioni per arrivare, con piena giustizia, di passo in passo a quella mèta più alta che era ne’ suoi desiderii. La lettera del deputato, ch’era scritta fino a metà in un tono sdegnatissimo, si andava mano mano calmando, nella speranza che succedesse altrettanto in chi la doveva leggere, e a un certo punto vi si cominciava anche a inzuccherare la pillola. Veniva una tirata eloquente sulla missione alta, patriottica, nobilissima degli uffiziali della pubblica sicurezza in uno Stato libero. Vi si parlava dell’Inghilterra, dell’America; si citavan brani di scrittori e di filosofi illustri. Alla fine poi si ammainavan le vele: il deputato prometteva tutta l’opera sua perchè quei passi da farsi nell’avvenire riuscissero rapidi davvero; e più sotto ancora, quasi all’ultimo rigo, c’era la gran parola: l’impiego era quello di delegato di Questura, di seconda classe, con mille e duecento lire. Poi mille saluti, mille proteste d’amicizia e molte altre migliaia di bellissime cose. A questo punto Giovanni, ch’era divenuto furioso non meno di suo genero, ma che non aveva ancora potuto riavere il fiato, buttò da parte anch’esso la lettera, che andò a finire per la seconda volta sul canterano. L’avvocato intanto aveva ricomincialo a sbuffare. «È questo il modo di canzonare un galantuomo?... Vedete cosa sono questi vostri ministri! Vedete cosa sono questi deputati! Avevo creduto che questo qua fosse meno male degli altri.... ma, signor no! son tutti d’una risma!... Si tiene a bada un galantuomo per sei mesi.... gli si fa un monte di promesse, e poi si ha il coraggio di buttargli lì una proposta di questa fatta!...» «Ma io dico che si può fare anche un bravo processo a chi inganna il prossimo a questo modo!» saltò su Giovanni a cui principiava a snodarsi la lingua. «Il processo lo potete fare a me....» bisbigliò l’avvocato «a me che finisco, in certo modo, con l’avervi ingannato.... L’avevo avuto io il presentimento! l’avevo detto io che il mio dovere era d’aspettare!...» «Tacete, Massimo! Cosa dite mai! Se non aveste sposata mia figlia, ve la farei sposar oggi. Sareste matto a perdervi d’animo, voi! col vostro talento! Se non è per oggi, sarà per domani; ma l’impiego, e un impiego in grande come ci avete diritto voi, non mancherà! Troveremo un’altra strada, e ci arriveremo prima di quello che si pensa!... Villani calzati e vestiti!... venirci a dire di queste cose!...» «Un impieguccio infimo di polizia a.... a un avvocato!...» «È gente che ha invidia di voi! capite? Hanno cercato di umiliarvi se ci riuscivano. Oh la è chiara! Ma quando si vogliono trovare dei gonzi, bisogna cercarli in altro paese.... bisogna cercarli!» «Il Governo deve avermela giurata fin da quand’ero in Castelrenico.... lo scommetterei! Questa è una vendetta! C’è dell’ironia nel proporre a me, a me! un posto in Questura!» «Sicuro! oh qui c’è sotto del mistero! In Questura voi!... Esser voi quello che fa pigliare i borsaioli? E mentre eravate quello che difendeva i colpevoli, con tanto di toga, diventar a un tratto quello che li mette in gabbia!... Ma domando io se la ci può stare col vostro decoro, con la vostra dignità? E poi.... è vero che adesso la chiamano la _Questura_, ma a’ miei tempi l’hanno sempre chiamata la _Polizia_! Bel nome! bell’uffizio! Un impieguccio di mille e duecento lire a voi che siete già sulla strada di conoscer mezza la nobiltà di Milano!... Avranno saputo che avete preso moglie a Milano.... che siete diventato milanese anche voi, e avranno voluto farvi un tiro.... perchè gli è inutile, c’è della gente che ha invidia dei Milanesi!... Ma non abbiate paura, la spunteremo egualmente.... ci penserò io! e se non ci riesco, mi si cambi il nome di Figini! Guardate cosa arrivo a dirvi!» Quest’ultime parole le disse in tono sicuro come ne fosse convinto, perchè servissero di conforto a Massimo, che parea farsi sempre più pensieroso ed agitato. «Cosa volete sperare?... cosa volete sperare da questi ministri?... Ve lo dicevo sempre io, quando mi contavate tante maraviglie di loro....» «Delle maraviglie me ne contavate tante anche voi del vostro deputato!...» rispose Giovanni, non per giustificare i ministri che in cuor suo aveva già sacrificati, ma per giustificare se stesso dividendo le colpe col genero. «Il deputato,... il deputato» rispose Massimo «ha cambiato principii.... non è più quello d’una volta.... non val più niente! Me ne sono accorto tardi.... ho sbagliato!... E dire che ho fatto tanto per lui, quando gli amici del Ministero non lo volevano!... Ma lo aspetto a una nuova elezione! In Castelrenico non piglierà più un voto....» «E così posso dirvi anch’io dei miei ministri. Li cambieremo! C’è del malcontento in parecchi, e a buon conto stasera c’è una dimostrazione contro di loro! Oh! non stanno in scranna una settimana! E quando li avremo cambiati, sapremo anche trovare la vena giusta per farci ascoltare dai nuovi. Ma non bisognerà perder tempo: molte conoscenze le ho io, e molte ne dovete far voi. Voi dovete lanciarvi nelle grandi società.... dove si incontrano i pesci grossi.... È là! è là che si trovano le protezioni che non sbagliano.... perchè, non per far torto ai vostri nè al vostro paese, ma che peso volete che abbiano questi deputati di campagna? Ci vuol altro! Dunque fatevi coraggio, e tra un paio di mesi avrete un impiego.... ma coi fiocchi! come ci avete diritto voi. Intanto non diciamo niente a nessuno, e se qualche curioso ve ne parla, si dice che l’impiego c’è, ma che si fanno delle nuove pratiche perchè si vorrebbe rimanere a Milano. Al momento non diciamo niente neanche a Enrichetta, perchè la conosco io quella benedetta figliola! per un niente s’accora subito. Ma a quel deputato rispondete di buon inchiostro! Ditegli che rimandi quella nomina, e che ne dica quattro in vostro nome a quel signor ministro! Perchè bisogna anche far capire alla gente che non s’è di quelli che si lascian porre il calcagno sul collo! Questo ministro poi tra pochi giorni se ne andrà a spasso, e non vi potrà far più nè bene nè male.... ma intanto gli avrete insegnata la creanza....» Giovanni continuava così, e l’avvocato Massimo, che s’era fatto sempre più pensieroso, all’udire il nome d’Enrichetta, accostatosi a un tavolino, si mise a sedere, appoggiò il capo tra le mani, e rimase un pezzo cupo e senza parole. Giovanni, sempre per fin di bene, non l’avrebbe finita più, se a un tratto, spalancatosi l’uscio, non si fosse veduto dinanzi Ambrogio, il suo vicino di casa, che in uniforme e col fucile in mano veniva a domandargli s’era pronto. «Come! avete già desinato voi?» gli rispose Giovanni. «Eh! ve la siete pigliata ben calda!» «Ma, cosa m’avete detto stamattina?» replicò Ambrogio. «V’ho detto quello che i superiori mi avevano ordinato di dirvi,» continuò Giovanni. «Ma voi sapete che i superiori, quando si tratta di far galoppare gli altri, hanno sempre fretta. Io che so da un pezzo come vanno a finire queste cose, desinerò con tutto mio comodo, e poi bel bello andrò al quartiere, e conto d’arrivarci prima del bisogno, se pure il bisogno ci sarà!» «Stamattina però era un tutt’altro parlare il vostro! Se mi facevate meno fretta, sarei stato anche quel tale da rispondervi che non potevo venire stasera, perchè, a dirvela, avevo promesso a un amico di fargli il quarto a’ tarocchi....» L’avvocato Massimo intanto, presa la sua lettera, l’aveva riposta in tasca e se n’era andato. Giovanni s’era messo a spazzolare l’uniforme una seconda volta, per non lasciar vedere il suo imbarazzo ad Ambrogio. «Non è ch’io abbia detto diversamente....» ripigliava Giovanni; «ma è che quando uno parla, c’è modo e modo di capire. La colpa è dei superiori: a sentirli loro, a ogni mosca che vola casca il mondo. A noi tocca obbedire, ma non è poi necessario pigliarsi ogni volta un’infiammazione....» «Ho capito, ho capito! Come la è così, vado a bere il caffè, che non l’avevo neanche bevuto, e stasera vado a far la mia partita.» «Adagio, adagio! non v’ho detto questo....» «Ma io ho capito quello che dovevo capire! Anche voi come superiore fate bene a parlar così, ma farò bene anch’io a non pigliarmi l’infiammazione!» «Guardate però che la responsabilità è vostra!... ehi! Ambrogio!» gridava per la seconda volta Giovanni; ma Ambrogio se n’era già andato. Sull’imbrunire, dopo aver mangiato un boccone di mala voglia, il nostro sergente se ne andava al quartiere, e ci trovava, venuti prima di lui, tutti i militi ch’era andato a chiamare la mattina, fino a uno, meno Ambrogio, tanto li aveva scelti bene. Nel quartiere, insieme a questi, ce n’eran altri d’altre compagnie, ma scelti un po’ meno bene a quanto pareva dai discorsi e da certe discussioni calorosamente avviate sul decidere se questi tali della dimostrazione avesser ragione o no, e se andavano o no messi al dovere. «In quanto a me,» diceva uno dei militi, «se voglion passare di qui, padronissimi.» «Lei farà quello che le comanderanno di fare!» rispondeva un altro. «E a lei intanto dico, che quel tale che deve comandare a me non è ancor nato!» ripigliava il primo. «Però, se la cosa è proprio così, lei potrebbe anche andarsene a casa sua.» «E se volessi invece star qui?... Sono nel mio diritto!» «E dei suoi doveri lei non dice niente?» «I miei doveri li so benissimo. Ma metta un poco ch’io non sapessi se abbia ragione il Governo, o quelli che stasera gli vogliono vociar contro! Se si vuole ch’io prenda un partito, mi si lasci il tempo di studiar la cosa e di decidere.... dico bene?... Ma stasera, oh bella! sono preso alla sprovvista, e ho il diritto di starmene neutrale!» «Ma allora se ne vada a casa sua! Quello è il posto da star neutrali!...» «Un momento.... un momento.... sentano anche me! Loro parlan benissimo tutti e due, e quando avrò spiegato come son le cose, si troveranno subito d’accordo;» diceva un terzo che era in faccende a metter pace. E parlando ora con l’uno ora con l’altro, senza lasciare che lo interrompessero, spiegava come non si trattasse di dar ragione a nessuno, ma di metter pace, d’impedire un disordine o un malinteso coi soldati. E qui, per non dar torto nè ai soldati nè a quelli della dimostrazione, diceva: «I soldati non possono parlare, e gli altri schiamazzan troppo. Così cosa succede? Succede che non s’intendono. E allora veniamo noi, perchè noi siamo, è vero, una milizia, ma una milizia che può parlare. E alle volte una buona parola fa tutto!... E adesso siamo d’accordo?» «Le son storie!» saltava su un altro. «Io so che in queste circostanze volano anche dei sassi, e domando io che diritto ha il Governo di esporre un cittadino che vuol starsene fuori, a pigliarsene uno in faccia? Cosa volete che me la pigli calda per un Governo così imprudente!» «Dite balordo! perchè se si grida, è perchè ce n’è delle ragioni.... è tempo di cantarle chiare e di finirla!» «Un balordo sarete voi, se parlate così!... lasciatemi dire.... abbiate pazienza....» diceva un altro, paciere anch’esso, ma di carattere un po’ più focoso. Insomma ognuno aveva un monte di ragioni da dire, e chi gridava più forte faceva crocchio intorno a sè. In questi crocchi si decideva in fretta e furia ogni sorta di questioni. Ognuno buttava là un capitolo del vero codice per ben dirigere gli Stati e render felici i popoli; ma i popoli, non essendo presenti, anche questa volta non potevano rispondere nè sì, nè no. Qualcuno intanto era uscito fuori, ed era andato a vedere cosa succedeva nelle strade vicine e nelle lontane. Mano mano capitava qualcuno a portar notizie, e si cominciava a capire che il temporale finiva senza acquazzone, o al più con quattro gocce. In qualche piazza s’eran veduti dei capannelli che i curiosi avevano mano mano ingrossati, ma tra tutti assieme poi non avevano fatto altro che schiacciarsi a vicenda le costole. Qualcuno aveva cercato, col vociare degli _abbasso_ e degli _evviva_, e con l’accendere qualche torcia a vento, di mettere un poco d’anima negli astanti, e di tirarseli dietro per la città. Quanto al gridare, sulle prime la non era andata male, ma quanto al moversi non se n’era fatto nulla. Intanto s’eran lasciati vedere anche quelli dell’ordine pubblico, e pigliandone uno con le buone, e un altro per il collo, avevano finito qua e là a diradar la gente e a rimetter la quiete. Ma in qualche punto c’era stata qualche comitiva di ragazzacci e di monelli che, impadronitisi delle torce e dei lampioni, s’eran messi, poichè il divertimento minacciava di andare in fumo, a improvvisarne uno per proprio conto. Tutto sommato dunque, c’era oramai da prevedere che la sera sarebbe passata senza guai, e che le guardie nazionali sarebbero presto ringraziate. E infatti anche in quartiere i discorsi avevan cominciato a cangiar di tenore: si discuteva un poco meno, e si canzonava un poco più. «E lei cosa ne dice, signor Figini?» domandò a un tratto un tale al nostro sergente che fino allora, contro il suo solito, non aveva aperto bocca. «Cosa ne dico io?» «Sì, lei!» «Io dico che c’è del marcio!» rispose Giovanni con solennità, e con una smorfia che gli vedevano per la prima volta. L’esclamazione che fecero e quello della domanda e quei due o tre che udirono la risposta, chiamò subito qualche curioso, e in un minuto anche lì ci fu un crocchio e una discussione avviata. Sulle prime tutti interrogavano, e Giovanni era solo a rispondere. «Del marcio?... del marcio, dove?...» «Quando dico che c’è del marcio, è del Governo che intendo parlare! la mi par chiara!...» «Oh! oh!» «Come?... è lei, signor Figini, che parla così?» «Bravo, signor Figini!» «Che novità è questa?» «Ah! le so ben io le novità!... e quando il Figini arriva a parlar così» era il Figini che parlava «dite pure che è un gran segno!» «Un gran segno di che?» «Voglio dire che sarebbe un gran segno.... perchè finora propriamente non ho parlato, ma se volessi parlare ne avrei delle belle!» «Sentiamo! sentiamo!» «Animo, signor Giovanni, butti fuori!» «Come? lei, signor Figini, sempre così zelante per il buon ordine....» «Appunto per questo! Suppongano loro signori che io, per esempio, vedessi nel Governo un disordine.... in tal caso sarebbe a favore del disordine ch’io lavorerei, se volessi far rispettare l’ordine! Mi spiego?» «Insomma, signor Figini, stasera lei è uno di quelli della dimostrazione!» «Se la sentissero i superiori!» «Piano! piano!... Io non ho detto niente! Io non ho fatto che supporre!» «Ma insomma, alle corte, se quelli della dimostrazione passano per di qui, lei cosa fa?» «Eh! se non fanno niente di male, si sta a vedere.... perchè poi a volersi intrometter troppo, si può anche imbattersi in qualche carattere permaloso e aizzare senza volerlo.... si può far peggio insomma! E se non facessero che gridare un tantino, che male ci sarebbe? Sentiremo cosa gridano! Supponete che nel Governo ci fosse un ministro veduto di mal occhio, un poco di buono, e che si gridasse proprio _abbasso questo tale_! Ma in questo caso, io dico che nell’interesse del Governo bisogna lasciar gridare! Bel servizio che fareste ai ministri se gli lasciate in compagnia uno che fa torto a tutti! Chi ama il Governo davvero bisogna anzi che lo aiuti a mandar questo tale con le gambe all’aria! Dico bene?» «Ben detto! benissimo!» diceva a ogni due parole del Figini un tale, che in quartiere era sempre il milite di più cattivo umore, un certo signor Canziani, impiegato in disponibilità. «E insomma» conchiuse Giovanni vedendo che il crocchio si faceva agitato «non tocca a noi l’impacciarsi di politica! Non sono affari nostri questi! Ci pensi chi tocca! Il nostro dovere è tutt’altro!...» «Quale di grazia? poichè dite sempre così! Vi ricordate quella sera che si parlava di ladri?...» saltò su uno; e Giovanni sarebbe stato imbarazzato a rispondere se in quel punto non veniva in suo aiuto un gran chiasso nella strada che fece correr fuori quanti erano in quartiere. Uscì fuori anche il nostro Giovanni. Era una di quelle comitive di ragazzacci e di monelli, che con qualche fiaccola accesa facevano la loro dimostrazione cantando e schiamazzando. Poco dopo il nostro sergente rosso in faccia, ansante e con l’uniforme slacciata, rientrava in tutta furia in quartiere tra gli applausi e le sghignazzate dei compagni, tenendo uno di quei monelli, afferrato per il collo. Cos’era successo? Era successo che l’uffiziale aveva voluto rimandare quei monelli a casa loro; s’era cercato di persuaderli, ora con le buone, e ora con le cattive, portando loro via le torce a vento; i monelli s’eran messi a motteggiare, e Giovanni era stato preso di mira più d’ogni altro. Allora nel nostro sergente s’erano riaccesi gli spiriti antichi. Sulle prime s’era accontentato di far la cera brusca; ma i motteggi eran raddoppiati; allora, perduta la pazienza, aveva ricorso a qualche scappellotto. Quello era stato il segnale della battaglia; scappellotti da una parte, e fischi dall’altra, finchè i monelli, presa la fuga e fischiando sempre, eran scappati per di qua e per di là. Giovanni però gli aveva inseguiti, e gli era riescito di afferrarne uno, e condurlo in quartiere. La gioia del trionfo fu però breve. Si risovvenne dei propositi fatti, e fu malinconico per parecchi giorni. Non fece parola dell’accaduto con suo genero, e andò ripetendo più d’una volta tra sè: «E dire che sono forse stato io a tener su il Ministero quella sera!... Ma è inutile! il disordine non lo posso vedere neanche quando ce ne vorrebbe un tantino!... Sono fatto così!» VIII. Due anni dopo, nel febbraio del 1864, due nostre conoscenze di Castelrenico, Martino il legnaiolo, e quel Simone dalla giubba verde e dalle dieci mila lire, si trovavano un bel mattino, senza saperlo, in una stessa vettura che due volte la settimana andava da Castelrenico a Milano. Questa combinazione sulle prime era piaciuta pochissimo sì all’uno che all’altro. Un simil viaggio non era un piccolo avvenimento per tutti e due: ci doveva essere qualcosa di straordinario; e gelosi delle faccende loro, dopo aver maledetto in secreto il momento in cui avevan scelto proprio quella giornata, s’erano salutati con un certo imbarazzo, e scambiata qualche parola impacciata di sorpresa ed anche di giustificazione a cui, ben inteso, non avevan creduto nè l’uno nè l’altro. Dopo qualche tempo però, siccome o bene o male si finisce a questo mondo con l’adattarsi a tutto, così anche i nostri due viaggiatori, rabbonitisi un poco, finirono col far quattro chiacchiere, cercando tutt’al più di tanto in tanto di scavar qualcosa l’un dall’altro, se era possibile. «Non faccio per dire,» diceva Simone, «ma non c’è niente che mi dia tanto appetito come il viaggiare....» «Bella cosa per voi che siete sempre in giro.» «Oh! gran che! Scommetto che ormai andate in giro voi più di me.» «Io? Se non esco mai fuori del paese!» «Perchè avete troppo da fare.... lo capisco; ma quando si comincia a lavorare anche per paesi lontani, allora bisogna moversi per forza....» «Eh! ci vuol altro. Si comincia, è vero, a far qualcosina, ma per aver faccende da per tutto bisognerebbe conoscere il giro del denaro, come il nostro Simone.» «L’avete proprio indovinata voi con quell’acqua!» continuò l’altro come se non avesse intese le ultime parole di Martino. «Mi piace esser sincero! D’un filo che ce n’era, guardate un po’ che bel ramo d’acqua! Che forza!... E dire che nessuno ci aveva pensato mai! e nessuno sapeva neanche dove andasse a perdersi!... Insomma l’avete indovinata voi. E quando sento dire che lavorate per quattro, e sento parlare di quelle vostre seghe e macchine che non s’eran vedute mai, io dico sempre: eh! Martino non ha finito! ne rumina delle altre! se ne vedranno delle belle!...» «Adagio! adagio! Sarò contento se arriverò a pagare i debiti.... cominciando dal più grosso.... quel che sapete voi.» «Eh! cosa dite mai! Se vi posso servire in qualcos’altro, non avete che a parlare.» «Grazie. Finchè non ho stracciate certe carte vecchie, non ne voglio sporcar delle nuove!» «Ma quando tornerà a casa il vostro figliolo, vorrete bene impiantarvi un poco più in grande!... E se non lo vorrete voi, lo vorrà il figliolo, vedrete!» «Tonino, innanzi tutto, così subito non tornerà. Vorrei lasciarlo dov’è almeno un anno ancora. Adesso è proprio sul più buono, perchè siccome comincia a difendersi discretamente anche quanto alla lingua tedesca....» «E non è una corbelleria da niente, ve lo dico io» saltò su Simone «questa del capire le lingue! Intanto che loro, in quei paesi, parlano a quel modo per non lasciarsi intendere, voi capite tutto, e rubate qualsiasi mestiere! Ah, l’ha pensata bene quel vostro figliolo!... Mi diceva poi qualcuno ch’è passato da quelle parti, che il vostro Tonino si va facendo un così bel giovanotto, alto e serio, che quasi non lo si conosce più.» «Ah! l’hanno detto proprio anche a voi?» «E m’hanno detto anche che in sul mestiere bisogna fargli di cappello già a quest’ora!... Quelle seghe nuove che paion nastri coi denti, e quelle fatte a rotella, e quell’altre diavolerie che m’avete fatto vedere, ve le ha ben mandate lui?» «Me le ha mandate lui, e poi m’ha insegnato per lettera il modo di metterle a posto e di servirsene. Bisogna leggerle quelle lettere! bisogna....» E Martino avrebbe voluto continuare, ma sentì gonfiarsi gli occhi e fermarsi a un tratto la parola come da un nodo che gli stringeva la gola. Allora Simone ricominciò: «E fate conto di starci un pezzo a Milano?» «Io?... eh, spero sbrigarmi in un paio di giorni.» «E così spero di far anch’io. Affari non ne ho.... vado a salutare un parente che non ho veduto da un pezzo, e poi ritorno. Alloggerò alle _Due Spade_: ci venite anche voi?... Ah! ma voi forse andrete in casa di vostro cugino l’avvocato....» «Se v’ho da dire la verità, non so neanche dove stia di casa.» Con ciò Martino aveva detto proprio quello che al compagno premeva di sapere. E il compagno ne fu tanto contento, che vedendo in quel punto un’osteria fece fermare la vettura, e volle a ogni costo pagare il vin bianco. Continuarono poi a discorrere fino a sera, ossia fino alle porte della città; ma siccome e l’uno e l’altro si guardaron bene dal dire il motivo di questa loro andata a Milano, così, per saperne qualcosa, dovremo metterci in tutt’altra compagnia. Là vedremo anche per qual ragione abbiam voluto far fare ai lettori un salto di due anni; vedremo cioè se le cose capitate in quei due anni ai nostri personaggi valessero la pena d’esser narrate alla distesa. Innanzi tutto facciamo dunque una visita in casa del marchese Renica, dove troviamo press’a poco la solita gente e il solito tavolino di giuoco. Forse a don Gilberto quei due anni che eran passati avevan procurato un poco di gotta di più, e probabilmente era quella la ragione per cui non lo troviamo questa volta tra i quattro della partita; ma anche questa piccola diversità non ce l’avrebbe concessa nè lui, nè il suo coetaneo il padrone di casa. Al posto di don Gilberto quella sera stava seduto al tavolino di giuoco l’avvocato Massimo, in compagnia del consigliere Rocca, dell’ingegnere Mevio, e già s’intende, del marchese Renica. L’avvocato Massimo non aveva più quel fare impacciato che gli abbiamo veduto altre volte in casa del marchese; non si teneva più interito sulla sedia e sedutovi soltanto a metà: discorreva con disinvoltura, citava all’occorrenza qualche autore, e si capiva che aveva fatto divorzio dal sarto di Castelrenico. Anche chi osservava sua moglie, Enrichetta, a una prima occhiata capiva subito che in casa Della Valle eran succeduti dei cambiamenti. Il suo contegno suppergiù era il medesimo; solo s’era fatto un po’ meno semplice e un po’ più elegante. La modestia c’era ancora, ma quel tantino d’impacciato non c’era più. Non c’era più neanche quel genere di vestir semplice, ma accompagnato da qualche arzigogolo, che svela con tanta indiscrezione il lavoro associato della sarta modesta e della committente industriosa. Il suo vestire era, per così dire, tutto d’uno stile, lo stile chiaro e lampante d’una sarta di primo ordine. Enrichetta, la marchesa Giulia, e due altre signore facevano crocchio intorno a un tavolino da lavoro, e tra un punto e l’altro di ricamo facevan la solita rivista degli amici, cercandone i peccati per poterli compatire e assolvere. Nel crocchio c’era anche l’uffizialetto, don Emanuele, il quale, dopo l’ultima volta che l’abbiam veduto, aveva cambiato di guarnigione, ed essendo venuto vicino a Milano, a ogni tratto, di giorno o di notte, col permesso o no de’ superiori, foss’anche per un paio d’ore, lo si vedeva capitare. Il marchese Renica, che non era uomo da metter tutte queste corse, proprio dalla prima all’ultima, in conto dell’amor figliale, diceva qualche volta con don Gilberto: «Quel rompicollo ne sta pensando o ne sta facendo qualcuna delle sue!» e ci faceva dietro una risatina. In quel punto il marchese, il quale non pensava a suo figlio ma al matto dei tarocchi, che non sapeva in che mani si fosse, faceva la faccia brusca e brontolava col compagno, l’ingegnere Mevio. «Ma che diavolo! Dove ha la testa stasera, caro ingegnere? Pensi alla partita per il momento; ai tegoli, alle fabbriche e ai manovali ci penserà domani!...» «Cosa vuole, signor marchese! tutto il gioco di spade era in mano del consigliere....» «E intanto la partita è andata!» «Sempre in faccende il nostro ingegnere!» prendeva a dire il consigliere Rocca, intanto che il marchese contava i punti. «Sicuro!» ripigliava l’ingegnere. «Stamani poi non ho avuto un minuto di requie. Dovevo conchiudere due o tre appalti che mi premevan molto e.... a proposito! indovinate un poco con chi ho conchiuso un affar grosso?... con un legnaiolo di Castelrenico! Si chiama Della Valle anche lui; voi, Massimo, dovete conoscerlo....» L’avvocato Massimo, che in quel punto s’era fatto rosso, prese le carte, aveva detto al marchese: «Lasci fare a me questa volta, le mescolo in modo che vedrà! le toccherà proprio un bel gioco!» Ma l’ingegnere continuava: «Guardate un poco dove va a star di casa alle volte il talento! Questo legnaiolo ha veduto una volta, in un paese della Svizzera, delle macchine, così mi diceva lui, e detto fatto ci trovò il bandolo di farle venire e piantarle in Castelrenico. Intanto il più bel campione di imposte e di persiane è proprio stato il suo, e ho conchiuso con lui l’appalto per una casa intiera. Nè mi fermerò lì! Lavori così a buon patto e così ben fatti si vedon di rado. È un uomo che farà fortuna....» «State attento! pigliate le vostre carte, ingegnere, e cercate di far fortuna voi!... Delle persiane e degli scuri fatti con talento parlerete dopo,» diceva il marchese. «Non ho carte e faccio passo,» continuò l’ingegnere. «Se sapeste, Massimo, quanto m’ha chiesto di voi quel vostro compatriotta! Anzi si è fatto insegnare da me dove state di casa, perchè domani vuol venire a farvi visita, e vuol conoscere vostra moglie....» «Ma caro avvocato, anche lei!...» esclamò in questo punto il marchese «che spropositi mi fa! ma badi!... che diavolo! cosa succede stasera?» Il povero avvocato Massimo, invece di badare alle carte, aveva badato a due discorsi che gli venivano all’orecchio in una volta; quello dell’ingegnere che gli annunziava per il giorno dopo una visita del cugino legnaiolo, e quello che si faceva al tavolino delle signore, dove la marchesa Giulia annunziava anch’essa per il domani, una visita a Enrichetta per certi loro affarucci di lavori e di toeletta. Noi intanto, traverso tutte queste chiacchiere, siam venuti a sapere qualcosa dei nostri personaggi. A Martino, in questi due anni, le faccende sono andate bene, a quanto pare; e così si direbbe anche dell’avvocato Massimo, a vederlo lui e sua moglie in casa Renica senza la soggezione e il fare impacciato d’una volta, ma con una certa familiarità, la quale voleva dire che si stava molto assieme, che non si faceva vita ritirata, e che in conclusione si spendevano dei quattrini. Eran dunque diventati ricchi? Era capitato finalmente in quei due anni l’impiego? e proprio quell’impiego grande che ci voleva per accontentare casa Della Valle, e per farla da signori? Non era capitato niente! Nei due anni in casa Della Valle non era capitato di nuovo che un bel bambino, il quale stava appunto per compiere i quattordici mesi. Novità che aveva avuto il suo pregio per gli sposi, ma che avendone un po’ meno per il lettore, serve anch’essa a giustificarci con lui se abbiam voluto fare il salto e risparmiargli qualche capitolo. E intanto a menar vita così buona come si faceva? Ci aveva pensato quel tal Simone di Castelrenico, fatto venire l’anno prima a comperare l’unico poderuccio, e che ritornava adesso, come abbiam veduto, a comperare in gran secreto anche la casa, l’ultimo ben di Dio che rimaneva all’avvocato Massimo. «Andate là!... andate là!» diceva Giovanni a suo genero, «questo non si chiama mangiarsi il fatto proprio, si chiama impiegarlo al cento per cento! Scusate, ma voi altri campagnoli certe cose non le potete capire!... ci vogliam noi! lasciate fare a me! lasciatevi dirigere da me!... Se volete pigliare i polli e l’oca che stan sull’albero della cuccagna, bisogna andar su, e su, e su! bisogna andar in alto! Insomma gli impieghi grossi se li piglia chi vive in alto, se avete capita la metafora. Guardate un poco cosa v’hanno risposto la prima volta col vostro andar là alla buona! Voi mi direte — ero avvocato! — Avvocato fin che volete, rispondo, ma avvocato di Castelrenico, che sarà un bel paese, ma in fin dei conti è un paese!... Che se prima vi facevate vedere cittadino anche voi, a braccetto coi primi signori e nelle prime società.... se aveste trovato il modo, per dirne un’altra, di farvi far cavaliere.... oh! allora sì che non si scherza! anche quel tal ministro avrebbe avuto un poco più di soggezione e vi avrebbe fatto tutt’altre offerte. Basta, quello che non s’è fatto allora bisogna farlo adesso. Voi non avete a far altro che il signore!.... Non abbiate paura di spendere!... Vendete quel poco che avete al sole, impiegate il fatto vostro in tante partite a’ tarocchi nelle prime società.... e vedrete! vedrete! Un bel giorno vi capiterà un impiego che vi pagherà di tutto. Non dico però che si deva aspettar l’impiego con la bocca aperta: piantate le vostre reti e il merlo passerà! Dico il merlo, per dire un qualche personaggio di quelli che con una parola fanno tutto!... è una metafora, capite?» Che se poi l’avvocato Massimo qualche volta si mostrava poco persuaso, e pur lasciandosi un giorno dopo l’altro tirar dietro dal socero, dava di quando in quando in qualche atto di impazienza, allora Giovanni saltava su a dire: «Piano! piano! sono lì lì per trovarci il bandolo! Lasciate fare a me.... ci son quasi.... ho giù anch’io le mie reti, e se sapeste che reti!» Prima di vedere anche noi quali fossero le reti del signor Giovanni, dobbiam dire che all’avvocato Massimo non era mancato di tanto in tanto qualche parere ben diverso da quelli del socero. L’ingegnere Mevio aveva cominciato presto a crollare il capo su questo grande impiego che non veniva mai, e più d’una volta aveva detto a Massimo, col quale era in molta dimestichezza: «Badate che qualcuno non vi meni a bere! Piantar lì una professione, alla vostra età, per incominciarne un’altra, la mi pare una cattiva speculazione. S’è visto, è vero, qualche colpo di fortuna, ma un fiore non fa primavera! Cosa vi mancava in Castelrenico?... Nei vostri panni sapete cosa farei? Tornerei al mio paese intanto che ne sono in tempo!... tornerei al mio posto.... ai miei clienti come prima, e con una bella moglie per di più! Quanto alla gente e a Giovanni, lasciate che dicano! Non saran loro che vi tireranno dalle peste quando non sarete più in tempo di ritrarvene da voi! Una buona decisione in tempo, e la fortuna è ancora in mano vostra!» Ma nel non sapersi decidere in tempo ci son cascati prima del nostro avvocato tanti uomini grandi, che possiam dir subito, vedendolo in così buona compagnia, che c’è cascato proprio anche lui. E non è che di tanto in tanto non gli venisse la tentazione contraria; ma or capitava una nuova speranza, e ora gliene mancava il coraggio dinanzi al _come si fa?_ Come si fa a dire a Enrichetta: io ti toglierò per sempre dalla tua città nativa, dopo avertela io stesso fatta piacere di più, per chiuderti in un paesuccio fuor di mano, a menarci una vita ben modesta; la bella prospettiva che t’avevo messa dinanzi è sparita! Tu ti rassegnerai, lo so!... ma se ti verrà in mente che in fin dei conti t’ho ingannata, non saprai cosa rispondere! Come si fa a dire al socero: o staccatevi dalla vostra figlia, o seguitemi in quel paesuccio anche voi! Come si fa a dire in casa Renica, ai nuovi amici, ai nuovi parenti, e a tutti quei del mio paese: fatemi la baia, che l’impiego e le grandezze sono andate in fumo! non erano che spacconate! Il coraggio di dire tutte queste cose se ne andava solo a pensarle, e allora Massimo riapriva per un momento ancora lo sportello a tutte le speranze e a tutte le illusioni di prima; accendeva un sigaro, andava a spasso, rideva con gli amici, si metteva un paio di guanti e andava a fare una visita. Ma poi nel gettar il sigaro, nel levare i guanti, nel tornarsene a casa, nel passeggiare per la stanza, gli tornavano da capo, a una a una, tutte le paure, compresa quella che il continuare a pagare tanti conti non fosse precisamente il miglior modo di impiegare al cento per cento il fatto proprio. Questi dubbi, questi contrasti, che cacciati e ricacciati non avevan fatto che tornare con maggior insistenza, davano ogni volta de’ gran malumori al povero Massimo; e il malumore, come fa l’umido col ferro, lascia sull’animo una ruggine che a poco a poco si distende, penetra, e corrode l’indole intera. Questa ruggine è fatale; entrata in una casa, dove tocca si propaga; ogni animo ne ha subito la superficie guasta, e per quanto buoni sien gli animi nel resto, la è finita! Tutto stride; le incastrature non combaciano più; e a ogni movimento da nulla, c’è sempre qualcosa che si spezza e salta via. C’eran poi, come abbiam sentito, le reti del signor Giovanni, ma fino a quel punto non c’era entrato altro pesce che lui. Queste reti mettevan capo al signor Canziani, quell’impiegato in disponibilità che abbiam veduto la sera del tafferuglio, e che poi era diventato il più grande amico, anzi la stella polare, di Giovanni. Che quel signore fosse uomo di talento, Giovanni l’aveva capito subito nell’udirlo applaudire alle sue massime quella sera, poco prima degli scappellotti. E che fosse poi anche la persona più compita di questo mondo, se n’era accorto qualche minuto dopo, quando quel signore aveva voluto tenergli compagnia fino a casa. Ma in seguito, avendo scoperte a una a una tutte le prerogative che la natura aveva date al suo nuovo amico, Giovanni fu preso da tanta ammirazione per lui da non far più un passo senza domandargliene parere, e da non ascoltarlo se non con la bocca aperta. «S’ha un bel dire,» ripeteva ad ogni tanto tra sè, «ma di questi uomini non ne nascono che all’ombra del nostro Duomo! Che là ci avesse da essere proprio un influsso?» Il signor Canziani aveva confidato a Giovanni che nella società moderna, e coi nuovi Governi, il vero merito è messo in disparte, e qualche volta perseguitato. Allora Giovanni aveva capito subito perchè non si volesse dare a suo genero l’impiego; perchè fosse stato soppresso l’ufficio dove era impiegato il signor Canziani; e perchè al signor Canziani non avesser dato che mezza pensione. Una volta poi Giovanni avendo domandato, in un momento di malumore, se per avere a questo mondo il trionfo definitivo della giustizia, ci volesse caso mai uno sconvolgimento generale, il signor Canziani aveva risposto «che una tale necessità gli avrebbe fatto pochissima maraviglia!» Allora il nostro Giovanni s’era deciso su’ due piedi a cambiar principii. In pochi giorni si fece familiare con l’idea dello sconvolgimento generale; poi non fu più veduto comparire nel quartiere della guardia nazionale. Gli scappellotti di quella sera erano proprio stati il canto del cigno! Il signor Canziani fece conoscere a Giovanni alcuni suoi amici che con lui passavano la sera, o giocando alle carte o facendo quattro chiacchiere in uno stanzino appartato d’una botteguccia di caffè. Questi tali o erano stati o erano tuttavia impiegati del Governo dal primo all’ultimo; ma bisogna dire che il denaro del Governo facesse loro ben cattivo pro, perchè tutti eran sempre di pessimo umore. Chi si lagnava d’essere stato messo in riposo, e dimostrava come le faccende pubbliche non potessero che andare alla peggio quando i migliori eran lasciati in disparte. Chi brontolava perchè doveva ancor servire, e non gli era concessa la meritata pensione. Chi declamava contro le leggi nuove che confondevan la testa agli impiegati vecchi. Uno ce l’aveva con quelli che stanno aggrappati come ostriche al loro ufficio, e non lasciano il passo a chi vien dopo. Un altro se la pigliava coi traslocamenti che mandan di botto un galantuomo a vivere dove non è stato mai. Insomma eran tutti fuori dei gangheri; e se il Governo li avesse pagati tutti per dir male di lui, non avrebbe mai speso così bene i suoi denari. A veder gli altri a giocare e rifocillarsi, e a portare nella conversazione il proprio contingente di miserie, ma di miserie vere e di lamenti giusti, capitava anche qualche povero impiegatuccio, qualche rota minore del carro dello Stato; qualcuno di quei poveri rotini senz’unto e con le razze sconnesse che a ogni movimento cigolano e par che dicano: oh! perchè un così gran carro tiene così poveri ordigni!... non era maggior pietà farci pigliare la via dell’opifizio o del mulino dove anche noi saremmo parsi ruote men piccole, e dove il padrone avrebbe veduto anche noi? La compagnia di tutta questa gente malcontenta, se aveva fatto fare qualche riflessione a Giovanni, non era stato già per distruggergli, o anche solo turbargli, l’ideale della vita dell’impiegato, ma per infervorarlo nell’idea dello sconvolgimento generale, che ormai gli pareva proprio il solo rimedio pratico e spicciativo per raddoppiare il soldo e i posti agli impiegati, per non traslocarli, per far diventar chiare le leggi, e tener allegri tutti quelli che oggi eran di malumore. Perchè Giovanni desiderava, è vero, innanzi tutto una buona nicchia per il suo Massimo, ma era troppo di buon cuore per non darsi pensiero anche della felicità di quelli che frequentavano lo stesso stanzino del caffè. I quali frequentatori dello stanzino però, mentre non contraddicevano il signor Giovanni sulla necessità dello sconvolgimento generale, cercavano intanto, ciascuno per proprio conto, qualche piccolo sconvolgimento particolare che provvedesse per il momento ai loro interessi. Procuravano, per esempio, d’entrar nelle buone grazie d’un personaggio influente, o di qualcuno che accennasse di diventarlo; correvano a dire una parolina all’orecchio al direttore d’un giornale, o a lasciargli qualche lunghissimo scritto che questi poi non stampava, ma che lodava; correvano al circolo elettorale, facevano un deputato, e subito dopo un memoriale da dargli in mano. A furia di star con costoro, anche Giovanni aveva imparate queste nuove vie, e aveva finito per aver anche esso il suo circolo e il suo giornale dove bazzicava, i suoi uomini influenti che potevan diventar ministri; ai quali, in attesa dello sconvolgimento, consegnava di tanto in tanto i suoi memoriali per far noti i meriti e i desiderii dell’avvocato Massimo. Di questi memoriali Giovanni aveva avviata una vera fabbrica e uno spaccio attivissimo. Ne aveva sempre un pacco in tasca, e a ogni tratto ne rinnovava la provvisione. Ogni qual volta scopriva un personaggio che facesse al caso suo, dopo aver trovato il verso di presentargliene uno in persona, trovava quello di fargliene avere una dozzina almeno da dodici provenienze diverse. E i memoriali poi finivano tutti, s’intende, a un modo solo; ricevuti con buonagrazia, facevano una prima stazione nella tasca di petto del soprabito, e una seconda nella paniera della carta lacerata. Giovanni, lontanissimo dal supporre a quali sconvolgimenti erano destinati i suoi memoriali, ogni volta che trovava modo di spacciarne un nuovo pacco se ne tornava a casa tutto allegro, e, con una fregatina di mani e un sorriso pieno di malizia, diceva a Massimo e a Enrichetta: «Ho trovato un nuovo bandolo!... ho messo giù una nuova rete! una rete tale che se l’impiego ci scappa fuori anche questa volta, gliene faccio, per bacco, i miei complimenti!» IX. Fatti i contratti, sbrigata ogni faccenda, Martino si avviava il giorno dopo dall’avvocato Massimo, proprio come l’aveva annunziato l’ingegnere Mevio in casa Renica; e trovatoci il bandolo, domandava sommessamente al portinaio se il signor avvocato era in casa. Pochi minuti prima la marchesa Giulia, scesa dalla sua carrozza, era salita da Enrichetta. Il portinaio, che con gli occhiali sul naso e un cannello di gesso in mano, se ne stava al suo banco tutto intento a disegnare i dinanzi d’un paio di calzoni, lasciò ripetere due o tre volte la domanda al nuovo venuto, che capitava in così cattivo punto, e poi, dopo averlo guardato da capo a’ piedi, gli rispose secco che l’avvocato non c’era. Martino se ne andò, e temendo d’essere importuno non ritornò che sull’imbrunire. Questa volta il portinaio non era assorto nel disegno, ma teneva una scodella di minestra sulle ginocchia, e sebbene andasse riempiendo a ogni tratto la bocca con delle grandi cucchiaiate, si mostrava un poco più discorsivo di quello che era stato la mattina. Dopo aver detto che il signor Della Valle non c’era, soggiunse che una vettura di rimessa era venuta, mezz’ora prima, a prender l’avvocato e la signora, che pranzavano quel giorno in casa del marchese Renica, e che egli poi aveva l’ordine di lasciare il portone aperto fino a mezzanotte, perchè l’avvocato e la signora andavano quella sera al teatro della Scala. Martino ringraziò il portinaio e se ne andò. Se ne andò di cattivo umore, senza sapere nè dove andare nè cosa fare, e pigliando le prime strade che gli capitavano. «E dire,» brontolava tra sè, nel mandare innanzi le gambe di mala voglia, «dire che m’ero fermato apposta quest’oggi per salutar l’avvocato!... La non mi poteva andar peggio!... Devo anche essere domani sera a ogni patto a Castelrenico.... così ci vuol pazienza!... E l’avrei veduto tanto volentieri l’avvocato! e tanto volentieri avrei voluto conoscere sua moglie!... Se poi mi veniva il destro, gli domandavo davvero perchè mai abbia venduto il podere a quello scortica-prossimo di Simone.... Che alle volte glielo avesse pagato bene?... Eh! ho sempre sentito dire che la volpe mangi le galline, ma che le paghi, mai!» Di pensiero in pensiero, dopo aver girato per più di un’ora, e dopo essersi fatto coraggio a entrare in un caffè, a un tratto gli venne un’idea così prepotente che, detto fatto, le dovette obbedire senza neanche poterla mettere un poco in discussione. L’idea fu di andare al teatro della Scala che non aveva veduto mai, passarci la sera, veder lo spettacolo.... e, senza confessarselo ma avendolo in fondo al cuore, imbattersi, chi sa mai? nel cugino, e dargli così un saluto prima di ripartire. Quando Martino entrò in platea lo spettacolo non era ancora incominciato, ma posti da sedere non ce ne erano più; fu ancora una fortuna se gli riuscì di trovarsi una nicchia per appoggiare, in piedi s’intende, le spalle al muro. Alzato il sipario, la sua attenzione fu subito tutta rivolta a studiare l’intelaiatura delle quinte e il macchinismo delle scene, cercando col rizzarsi sulle punte dei piedi e con l’allungare il collo, di indovinarne l’ossatura e il gioco. A questo modo il primo atto dell’opera non gli parve neanche lungo, e badò poco al caldo e agli spintoni. Calato, dopo l’atto, il sipario, il suo pensiero corse subito al cugino, e cominciò a guardar prima intorno a sè per cercarlo, poi su nei palchetti fin dove gli era dato vedere. A un tratto vide e riconobbe la marchesa Giulia in un palchetto di seconda fila, che aveva proprio di contro, e fece un atto involontario di riverirla, come quando la vedeva attraversare in carrozza la piazza di Castelrenico. Cominciò il secondo atto, ma egli, senza punto badare a quello che succedeva sulle scene, da quel momento non seppe più levar gli occhi da quel palchetto, ch’era il solo luogo dove avesse principiato, in mezzo a tanta gente, a veder qualcuno di conoscenza. Ma poco mancò non mandasse una esclamazione ad alta voce, quando a un tratto vide farsi innanzi e sedere presso la marchesa uno di fisonomia ben nota, uno che riconobbe subito, il cugino Massimo in persona; il quale, in quel punto, pareva dicesse qualcosa di complimentoso alla marchesa Giulia, e subito dopo qualcos’altro, ma con maggior familiarità, a una signora che era seduta di fronte alla marchesa. Martino non ebbe più dubbi. «Son loro! son proprio loro!» disse tra sè. «Quella signora è la moglie dell’avvocato!» È inutile dire come da quel momento non rimanesse più un filo di speranza di farsi dar retta da Martino nè all’orchestra sonando in massa, nè ai cori cantando a gola spiegata, nè alla prima donna, nè al tenore, nè al basso, nè alle ballerine con la mimica, che tutti a modo loro dicevano pure delle cose interessantissime e alle volte strazianti. «Dico la verità,» cominciò Martino a pensare tra sè, «nei panni dell’avvocato, giacchè prendevo moglie, avrei voluto prenderla, per così dire, un poco più ben piantata. Pare che non sia brutta, a vederla per di qui, ma domando io se quelle son donne! C’è da aver paura a parlare che il fiato le porti via! Adesso poi, veduta di fianco, poverina! com’è sottile.... un cinquanta centimetri in giro, e non di più!... E anche lei col vestito fatto a quel modo, che fino a un certo punto vien su, e poi, come gli venisse un pentimento, si ferma. Quando torno in Castelrenico voglio dire a mia moglie che d’ora in poi non le compero che tre quarti di vestito per volta, perchè in città si usa così! Ogni giorno se ne vede proprio una nuova!... E non hanno neanche la scusa dell’economia, perchè, caspita, che lusso!... Se ne hanno indosso della roba!... Bisogna però dire che l’avvocato, se non ha ancora ottenuto l’impiego, come dicono certi in Castelrenico, faccia egualmente dei bei guadagni in Milano, se manda la moglie attorno in compagnia della marchesa, con quel lusso!... L’ho sentito dire da altri io che nella città, a saper girare il denaro, con poco si fan quattrini a furia! Adesso capisco perchè l’avvocato ha venduto il podere! Eh sicuro! Chi sa che giro ha trovato per il suo denaro, e allora si può anche lasciarsi strozzare un poco da Simone. E io che quasi quasi cominciavo a pensar male... che pensavo quasi di trovar l’avvocato al verde!... Oh! cosa succede adesso? l’avvocato ha lasciato il posto a un altro. Che se ne fosse andato via?... Averlo veduto, e non averlo potuto salutare!... Dove sarà andato? Ma poi, sfido io, se anche volessi corrergli dietro, come faccio a uscire di qui?... e poi non saprei neanche dove andare. Chi sarà quel bell’uffiziale che è sempre rimasto lì, seduto vicino alla moglie.... io già le dico moglie perchè non può essere che così.... vicino alla moglie dell’avvocato?... Giacchè sono sul supporre, scommetterei che quell’uffiziale è un fratello della moglie.» Martino che aveva veduto qualche volta in Castelrenico il secondo figliolo del marchese Antonio, quando era ancor ragazzo, ora così ingrandito, con l’uniforme, e a quella distanza, non l’aveva riconosciuto. «Sarà di guarnigione chi sa dove, sarà venuto a vedere i suoi parenti e avrà voluto accompagnare la sorella al teatro. Bravo figliolo! così mi piace! M’ha una cera simpatica.... e si capisce che alla sorella vuol bene davvero!... Com’è premuroso con lei!.... Quante chiacchierine le fa all’orecchio a ogni minuto!... A dire la verità, ha però l’aria più affettuosa lui che lei.... lei m’ha l’aria d’occuparsi più degli altri che del fratello.... sarà un giudizio temerario il mio! ma gli rivolge la parola un pochino di rado.... E sì che delle chiacchiere ne ha a bizzeffe, e per la marchesa e per quel signore che s’è messo al posto dell’avvocato!... Oh, ma guarda un poco! anche questo se ne va e lascia il posto a un nuovo, proprio come le figurine della lanterna magica. E anche questo è un amicone! strette di mano a furia, inchini, e gran chiacchiere anche con lui!... Deve avere in corpo una bella dose di vivacità la moglie dell’avvocato, se non mi sbaglio! Ha due occhietti che scintillano per dodici!... ha un colorito acceso.... insomma deve essere vispa come le salterelle!.... Però se l’avvocato l’ha pescata fuori, è segno che sarà una donnina a dovere, perchè l’avvocato non ha bisogno che nessuno gli insegni niente. A lasciar dir noi della campagna, quando si prende moglie, una moglie così la ci parrebbe poco adattata, ma in città è un altro par di maniche.» Era finito il ballo ed era ricominciala l’opera. Martino, che non vedeva ricomparire l’avvocato, cominciava a sentire il caldo, e ad accorgersi d’esser su due piedi da quasi tre ore e pigiato da ogni parte. «Se sapessi dove trovar l’avvocato, se mi riuscisse di salutarlo e poi d’andarmene, la sarebbe una gran bella cosa! Oh che caldo!... Sarà bellissimo tutto quello che fan là quei signori sulla scena, ma, dico il vero, non ne posso più. Il peggio è, che andarsene, è subito detto, ma in mezzo a tutta questa gente che s’impazienta se appena uno starnuta, anche l’andarsene dev’essere un affar serio. Ah, che caldo! Questo è proprio il divertimento che il diavolo dà, come diciam noi, ai suoi figlioli!.... Se il teatro della Scala è tutto qui.... Oh! guarda un poco! la marchesa si rizza in piedi.... sicuro! e anche la moglie dell’avvocato.... oh, ecco l’avvocato!... Cosa fanno? Si direbbe che vadan via.... vanno proprio via! vanno via tutti insieme!... questo è il momento buono, coraggio!... me ne vado anch’io.... chi sa che non mi riesca di salutar l’avvocato....» Ma l’uscire, come l’aveva previsto, non fu un affare così facile. La platea era affollata; incominciava uno dei migliori pezzi dell’opera, e tutti si accalcavano per farsi innanzi. Più d’una volta, dopo aver fatto un passo verso la porta d’uscita, era spinto a farne due o tre in tutt’altra direzione. Alla fine si trovò nell’atrio, ma ormai senza speranza di imbattersi nella comitiva in cui c’era l’avvocato. Si guardò d’attorno; fece qualche passo in su e in giù; aspettò un poco, non vide nessuno, uscì, e col muso lungo un palmo s’avviò all’osteria dove aveva preso alloggio. La mattina seguente all’albeggiare, seduto in vettura, tenendosi sulle ginocchia la valigetta in cui c’erano e il soprabito del dì delle feste e il pacco delle carte e dei contratti firmati, se ne ritornava a Castelrenico. Se dopo il teatro Martino avesse potuto tener dietro all’avvocato, l’avrebbe veduto salir le scale e entrare in casa col muso più lungo del suo; avrebbe veduto Enrichetta, che gli era parsa così gaia, farsi malinconica a un tratto e perder le parole appena messo il piede nelle sue stanze. Chi ha un guaio da dimenticare non torni a casa, perchè non c’è una parete, un mobile, un utensile, che non si dia subito la briga di far le parti del rammentatore. E nella casa di Massimo tutto rammentava che il buon umore, la pace, le ciarle allegre e con confidenti d’una volta, erano andate mano mano scomparendo, e avevano lasciato il posto a una cert’aria greve che mozzava il fiato. Quella giornata poi, ch’era parsa a Martino chiudersi così lietamente, era stata non solo triste, ma burrascosa. Di buon mattino era capitato Simone, fatto venire per quel tal negozio della casa di Castelrenico. Simone, col fare umile e con la maggior buona grazia, aveva detti i suoi patti, duri e inesorabili, ai quali non c’era stato modo di rispondere che con un sì o con un no. La casa, ultimo ben di Dio che restasse a Massimo del suo piccolo patrimonio, era passata quella mattina in mano di Simone, e sul tavolino di Massimo era rimasto quanto poteva bastare a pagare qualche debituccio e a mandar innanzi la barca per quell’anno, e nulla più. E poi? Questa domanda che ora si presentava a Massimo con maggiore insistenza, e gli faceva vedere poco lontano quel precipizio verso cui correva a tutta briglia, principiava a renderlo cupo e a mettergli i brividi. Simone se n’era andato, e mentre egli se ne stava ancora come impiombato sulla sedia, e teneva tra le mani il capo che pareva volesse scoppiare, sentiva nella stanza vicina la voce della marchesa Giulia venuta a far visita a Enrichetta, e che, traverso un nuvolo di chiacchierine vaporose, faceva passar la rivista ai progetti più urgenti del carnevale, fermandosi su quelli che domandavano l’alleanza dell’amica. Allora egli stava a sentire che cosa avrebbe risposto sua moglie; ma la voce d’Enrichetta non la sentiva mai; cosa che gli faceva rivolger contro lei tutta la sua stizza, accusandola di non saper dire in quel minuto quello che lui non aveva avuto mai il coraggio di dire. Poco dopo era capitato il socero, pieno, come al solito, di fumo, di progetti e di buon umore. A Massimo che, agitato da mille dubbi e rimorsi, domandava che qualcuno l’aiutasse a prendere un partito, Giovanni aveva risposto col principiare per la centesima volta una di quelle spiegazioni ragionate dei suoi piani e delle sue reti che non finivano più. Ma questa volta finiron presto, e le troncò a un tratto un accesso di furia di Massimo che fece scappar il socero atterrito, e tremare da capo a’ piedi Enrichetta che entrava in quel punto dopo aver lasciato la marchesa Giulia. Di questi accessi ormai gliene capitavano spesso; e dopo essere stato violento e ingiusto con tutti, per scolpare se stesso, cadeva in una profonda mestizia; e mentre rimpiangeva la pace confidente e serena che ogni giorno più scompariva dalla sua casa, non sapeva ritrovare quello che forse sarebbe bastato a ridargliela, una parola dolce a Enrichetta, dopo avergliene dette tante di amare. Era stato con questo bel preludio che poi aveva dovuto quel giorno mettersi in giubba e cravatta bianca per andare a pranzo dal marchese Antonio, e in teatro con la marchesa Giulia. Si pensi di che buona voglia anche Enrichetta avesse dovuto quel giorno passar qualche ora in guardaroba, frugar negli armadi, e scegliere un vestito che avesse fatto bensì qualche campagna, ma fosse ancora abbastanza valido, e potesse, con qualche variante, servire per quella sera, sviando i ricordi non delle amiche, ma almeno degli amici. Enrichetta, mentre dava, prima d’uscir per il pranzo, gli ultimi tocchi al suo vestito e alla sua acconciatura, aveva l’animo forse più turbato che suo marito. Anche a lei era toccato quella mattina qualche duro rimprovero, il rimprovero d’una colpa non sua, quella di trovarsi dove l’avevan condotta; e il suo cuore n’era ancora lacerato, quando si venne ad annunziarle una visita, la visita di don Emanuele. Don Emanuele, che a ogni tratto, come abbiam detto, dava una scappata a Milano, quando capitava era difilato in casa Della Valle, e ci veniva o a far visita alla signora, o a pigliarsi sotto braccio e trascinarsi in compagnia l’avvocato. L’avvocato Massimo, il quale diceva sempre di non aver mai conosciuto un più amabile rompicollo, n’era come innamorato. Fosse anche stato di cattivo umore, a lui perdonava tutto; rideva con lui, e finiva col lasciarsi menar in giro, col pretesto che quell’originale piacevolissimo era il solo che lo distraesse e lo divertisse un poco. Don Emanuele col passaporto, così comodo, dell’originalità, capitava in casa Della Valle a qualunque ora; capitava più volte in un giorno; ora ci si fermava pochi minuti, ora ci passava mezza la giornata; e quando non ci trovava nè l’avvocato nè sua moglie, si metteva a far conversazione col signor Giovanni, lo chiamava il suo confidente e gliene contava d’ogni risma. È inutile dire quanto il signor Giovanni ne fosse incantato, e volesse scommettere, ogni volta che ne parlava, che di giovani simili negli altri paesi non se ne trovassero. Quando vedeva la signora Enrichetta, o veniva, come soleva dire, a fare una visita tutta per lei, don Emanuele univa a quel solito fare, tra il bizzarro e il disinvolto, una maniera più eletta. La parola era più dell’usato gentile e rispettosa, e i complimenti erano senza risparmio, ma tutti di buon gusto, tutti facili e naturali, senza che uno mai avesse dell’inamidato, o sapesse di rifritto. Soleva dire che le signore erano i colonnelli del suo cuore. Così giustificava quella sua devozione pronta, preveniente, d’ogni minuto; e giustificava la sua corte franca e palese che faceva a Enrichetta, e che poteva passare per l’espressione naturale de’ suoi modi di perfetto cavaliere, come diceva il signor Giovanni. Quell’omaggio così abituale e pubblico gli offriva una occasione più facile e frequente di continuarlo a quattr’occhi; e allora, nelle maniere di don Emanuele, piene sempre di riserbo, non mutavano che le proporzioni: c’era in esse un poco meno d’originalità, e un poco più di seduzione e di grazia. Di tutto questo Enrichetta non s’era da principio neanche accorta; poi, avendo imparato in società, a furia di sentirle, a fare queste analisi, qualche volta ci aveva badato, ma per sorridere e scordarsene subito. Eravamo allora nei bei tempi della pace domestica: la ròcca era di quelle che non lasciano speranza di intelligenza al nemico, e lo consigliano a levare le tende. Don Emanuele però non le aveva levate; e i tempi, quando cominciarono mano mano a mutarsi, le trovarono rizzate ancora. Venuti i giorni in cui Massimo, agitato da’ suoi pensieri, non aveva più una parola confidente o cortese per nessuno, la corte di don Emanuele veniva alle volte osservata da Enrichetta con quel sentimento traditore a cui si lascia il passo così facilmente, perchè pare innocentissimo, vogliamo dire la curiosità. Da ultimo eran venuti anche i giorni, di cui ne abbiam veduto uno, nei quali Massimo si faceva ingiusto e violento, e allora la parola gentile, carezzevole di don Emanuele lasciava nell’animo d’Enrichetta un’agitazione involontaria, un ricordo incessante, tormentoso, contro cui essa doveva lottare, invocando, con tutte le sue forze, la dimenticanza. Quante volte la dimenticanza era stata pronta e completa se Massimo, a un tratto, aveva avuta la buona ispirazione d’una parola d’affetto! Oh! allora quel poco di spiraglio bastava perchè tutta la casa tornasse raggiante come una volta!... Il giorno dopo ricominciava a piovere sul bagnato, e il male si faceva più grande di prima. In quel giorno del pranzo e del teatro, come abbiam veduto, dopo la sfuriata di Massimo c’era stata una visita di don Emanuele. Enrichetta, prima d’uscire, aveva sospirata in cuor suo una di quelle buone parole di suo marito di cui in quel momento aveva tanto bisogno. Fece di tutto per averla, e non l’ebbe. Al pranzo e al teatro ella aveva cercato ogni modo di sviare l’animo da ciò che la turbava, di dimenticare quel giorno; e Martino, a cui era parsa troppo gaia, se avesse potuto leggerle in cuore, avrebbe veduto di che sorta era quell’allegria, e ne avrebbe avuta una gran pietà. Avrebbe veduto che non era un così bel vivere in casa Della Valle; avrebbe raccontate al suo paese minori maraviglie; e non avrebbe dati nuovi motivi a quei di Castelrenico d’aversela a male sempre più col povero Massimo. Ma invece Martino, tornato in paese, a chi gli aveva domandato dell’avvocato Massimo, aveva risposto: «Eh! se la passa benone!» — «L’avete veduto?» — «Sicuro che l’ho veduto!» — «E l’impiego?» — «L’impiego.... l’impiego.... le son cose queste delle quali io poi me ne intendo poco!... e a dirvela, non ho poi neanche voluto fare il curioso a questo punto, e domandare fino a uno gli interessi degli altri.... per quanto siam parenti e buoni amici. Io vi dico che l’avvocato se la passa benone.... che ha una bella moglie.... e che a Milano, lui e lei, figuran da signori; che li ho veduti in teatro con la famiglia del marchese Antonio.... e che insomma se l’avvocato ha venduto il fatto suo in Castelrenico, è perchè ci vede più degli altri, e sa lui cosa si fa!... Insomma ho lasciato Milano col cuor contento... e casa Della Valle, a Milano, è casa da signori!... capite!» L’aria diplomatica di cui Martino non aveva potuto far senza, dovendo parlare, e avendo poco da dire, aveva accresciuto negli antichi amici di Massimo gli umori sospettosi, e la loro poca disposizione a perdonare la fortuna altrui. Le poche cose dette da Martino, commentate, raddoppiate, fecero subito il giro di tutto il paese, e dopo un giorno le facce dei frequentatori del caffè della _Fratellanza_ eran più lunghe e più dispettose del solito. Seduto al medesimo posto, sulla porta del caffè, e sulla medesima panchetta dove l’abbiam veduto due anni prima, quel tale dalla pipa di gesso e dalle gomita, che come due anni prima e forse un po’ di più, uscivan per il rotto delle maniche, fu sentito esclamare a proposito d’un discorso che si faceva in un crocchio vicino: «Evviva loro!... i patriotti dimenticati! i ladri protetti!... gli impieghi ai venduti!... ecco dove vanno i nostri milioni!» X. Ogni anno, alla metà di giugno, il marchese Antonio andava con tutta la famiglia a Castelrenico per il raccolto dei bozzoli. Ci andava come per tradizione domestica; ci andava perchè c’era sempre andato fin da bambino quando ce lo conduceva suo padre; ma poi quando c’era, l’ultimo de’ suoi pensieri erano appunto i bachi ed i bozzoli. Ogni anno succedeva così; e ogni anno quando veniva quel tal giorno che stava fisso nella mente del marchese, insieme a qualche altra data di questo genere, cascasse il mondo, bisognava partire. Anche in questo egli imponeva a sè ed ai suoi una specie di disciplina rigida, inesorabile, ch’era di tutto suo gusto, e ch’egli soleva mettere in ogni alto più semplice e naturale della vita. L’andare in campagna, il viaggiare, il divertirsi, fatti da lui, parevano tanti atti d’ubbidienza a una consegna; una risposta, una opinione, un complimento, detti da lui, parevan sempre preceduti da un rullo di tamburo. L’ingegnere Mevio pretendeva di avere scoperto che il marchese, quando beveva un bicchier d’acqua, lo beveva in tre tempi. E tutto ciò, probabilmente, perchè nel marchese la smania del comandare era così prepotente da non permettere una disubbidienza neanche a se stesso. Una grave disubbidienza però veniva commessa da qualche anno da’ suoi bachi di Castelrenico, i quali, chi alla seconda, chi alla terza, chi alla quarta muda, si scioglievano dalle brighe di questa vita, senza darsi pensiero di ciò che avrebbe detto il marchese. Il marchese da principio ci aveva badato poco; ma poi, dovendo rispondere a chi gliene chiedeva conto, e sentendosi da ogni parte far delle osservazioni e dar dei pareri, cominciò a perdere la pazienza, e a domandarsi se questa condotta indipendente de’ suoi bachi fosse o no compatibile col suo decoro. Pare concludesse per il no, perchè dopo aver lasciato travedere all’ingegnere Mevio qualche proposito sibillino, fu veduto, nell’inverno dell’anno a cui siamo arrivati, scartabellar libri e opuscoli sui gelsi, sui bachi e sulle bigattiere. Venuto poi l’aprile, cominciò a dire apertamente che fino a quel punto i bachi di Castelrenico se n’erano andati alla malora per la ragione semplicissima che li avea lasciati fare a loro piacimento, ma che ora era deciso a cambiar registro. Poco dopo annunziò che quell’anno la direzione dei bachi la pigliava lui; che il metodo sarebbe stato tutto suo, e che si sarebbe andati tutti a Castelrenico un mese prima del solito; soggiungendo, come fosse una parte del metodo anche questa, che si doveva passare il rimanente dell’estate a Baden-Baden, e a Parigi: così si aggiustava la partita anche con la marchesa Giulia, e in modo che nel cedere si aveva l’aria di comandare. Il metodo del marchese Antonio ebbe subito un primo risultato bonissimo, e fu quello di liberare, un buon mese prima, l’avvocato Massimo dalle cortesie della famiglia del marchese e dagli imbarazzi che ne venivano di conseguenza; imbarazzi che ormai non sapeva più come nascondere. Ai primi di maggio, il marchese Antonio s’era già trapiantato in Castelrenico coi suoi di casa; aveva già rese note con una certa solennità le sue intenzioni, e messi i primi fondamenti del metodo. Il metodo del marchese, che com’egli aveva dichiarato non sarebbe stato quello di nessun autore (perchè, come diceva lui, questi tali che scrivono è molto raro che allevino dei bachi davvero, e quelli invece che li allevano non son di quelli solitamente che scrivono), doveva aver per base una specie di disciplina militare. Egli si considerava come il generale in capo, e il fattore doveva essere il suo aiutante; poi venivano de’ sovrastanti ai quali, con un salto alquanto brusco nella gerarchia, aveva dato il nome di sergenti; i coloni erano altrettanti caporali che dovevano tener in riga i militi, i quali, s’intende, erano i bachi. La sua massima era che ogni cosa, perchè vada bene, deve avere una organizzazione di ferro. E ad impiantar bene questa organizzazione di ferro, il marchese rivolse con sollecitudine le sue prime cure, chiamando il fattore, i sovrastanti, i coloni, ora a uno a uno, ora tutti insieme; dando ordini, spiegando il metodo, e strapazzando tutti in anticipazione. Il metodo, come si vede, si basava specialmente sul terrore. Questi poveri diavoli, più sentivano farsi buia e intronata la testa dalle spiegazioni e dalle minacce del marchese, e più si affrettavano a dire di aver capito tutto a un puntino, tanto erano spaventati; e il marchese si compiaceva già dei buoni risultati che principiava a dare il suo metodo. Con gli altri poi di maggior calibro, cioè col consigliere Rocca e con don Gilberto, che, come di consueto, venivano a fargli visita in Castelrenico, con l’ingegnere Mevio e col curato, il marchese dava delle spiegazioni un poco più diffuse e ragionate. I suoi concetti sull’allevamento dei bachi erano desunti con una logica stringentissima, e con la previsione di tutti casi. Il problema era messo al muro; era risoluto; a meno che, ed era questa la sua sola concessione, a meno che non facesse difetto l’opera dell’uomo. Ma questa ipotesi era ammissibile ancor meno delle altre, in grazia di quella tal disciplina di ferro. Così, dopo aver tenuto i suoi uditori in una breve sospensione d’animo, li riconfortava con la riprova che il problema era di una precisione matematica. Ma non tardarono anche per il problema a venire i giorni difficili, i giorni in cui ci voleva tutta l’imperiosità del marchese Antonio per mantenere negli altri la convinzione che i suoi bachi andavano a maraviglia, e che se qua e là c’eran dei guai, erano per così dire scappatelle di gioventù, malucci preveduti, cose di nessun conto. Guai a chi mostrasse il menomo dubbio! E lo seppe il consigliere Rocca, che un dopo pranzo, passeggiando col marchese e con l’ingegnere Mevio, e volendo in proposito distinguere ed obbiettare, si pigliò una strapazzata più forte di quelle solite che gli capitavano quando parlava di politica, o giocava a tarocchi. Il consigliere Rocca, ch’era piuttosto ostinato, senza cedere sul punto di chiamar gravi i traviamenti dei bachi del marchese, volendo andare in cerca d’una qualche causa remota per salvare il metodo, cominciò a porre la questione se le vicende politiche, e i nuovi tempi, non ne avessero, a guardarci bene, il loro tanto di colpa, visto che in passato le cose avevano proceduto diversamente. Ma fu un tasto scelto male, e che diede motivo al marchese di dargli sulla voce ancor più forte di prima. Il consigliere, a cui pareva sempre di far torto alla magistratura a cui aveva appartenuto, se non sviscerava ben bene le quistioni, cominciava già a metter in fila gli argomenti per rispondere al suo contraddittore; e a guisa d’esordio aveva già cominciato col dire che si accingeva a una imparziale disquisizione di quella sua tesi dubitativa, e che non essendo tra quelli a cui _leviores coniecturae sufficiunt_, avvegnachè.... ma s’interruppe a un tratto da se medesimo, per domandare in un tono più semplice, e come tra parentesi, se era vero quello che si diceva in paese, che cioè la casa dinanzi a cui passavano era stata venduta. La comitiva, che era di ritorno dalla passeggiata, passava in quel punto dinanzi alla casa dell’avvocato Massimo. «Ma come va questa faccenda?» domandò anche il marchese, a cui non dispiaceva il mettere da parte per un momento i suoi bachi. «Ma ce n’è un’altra!» continuò il consigliere, «ed è che in questi giorni il socero dell’avvocato mi mandò una lettera e un memoriale per pregarmi di trovare appunto all’avvocato Della Valle un impiego qualsiasi. Non dirò qui, perchè non è questo il momento di parlarne, che in primo luogo io non ho impieghi da distribuire, e che in secondo luogo con gli uomini influenti della giornata io non ho a che fare; dirò solo che al ricevere quella lettera e quel memoriale non ho esitato a dire tra me, che quel famoso impiego dell’avvocato, di cui s’è tanto discorso, o se n’è andato in fumo, o non c’è stato mai!» «Ma, a proposito, come va anche quest’altra faccenda?» domandò di nuovo il marchese dirigendosi a Mevio che gli camminava accanto. «Lei deve saperne di certo qualcosa.... dica su!» L’ingegnere Mevio fissò il marchese, poi gli disse piano: «Parliamo d’altro; a quattr’occhi le dirò tutto.» Il marchese Antonio fu colpito dall’insolita espressione di serietà e quasi di mestizia, con cui gli aveva risposto l’ingegnere; non aprì più bocca, e il consigliere trovò per il momento il suo tornaconto a fare altrettanto. Giunto a casa, il marchese con una breve manovra consegnò il consigliere a sua nuora; poi, come lo vide imbarcato in un discorso dei più fioriti, fece cenno a Mevio di seguirlo; lo condusse nel suo studio, lo fece sedere, e col tono secco di quando si faceva serio, «Ingegnere,» gli disse, «eccoci a quattr’occhi; dica su!» «Signor marchese,» prese a dire l’ingegnere, «Mevio ha la fortuna d’esser sempre di buon umore, ma se lo vuol vedere farsi serio anche lui, gli parli adesso del povero avvocato Della Valle. Proprio così! Chi avrebbe mai detto che l’avvocato Massimo, di cui in fin de’ conti sono amico da pochi anni, dovesse essere proprio quel tale da mettermi la malinconia addosso! Ma cosa vuole, signor marchese! il giorno in cui l’avvocato si decise ad aprirsi con me l’ho veduto piangere come non ho veduto nessuno, e m’ha talmente commosso proprio insino al cuore, che non me lo so togliere dalla mente. Ho cercato, e cerco sempre io di consolarlo, ma con un uomo così disperato, come si fa!» «Ho capito! Galanterie della moglie!» «Eh!... ero quasi per dire, fosse qui tutto il guaio, ci sarebbe un rimedio....» «Ha un rimedio lei?...» «Capisco... ma insomma il guaio non è questo. Il guaio è stato.... è stato il solito guaio della giornata! Si vuol vedere il fumo, e non si bada se c’è anche l’arrosto!» «Dice bene! Vada pure avanti.» «E a dire così, ho detto tutto; il resto vien da sè. L’impiego dell’avvocato, le grandezze della moglie, le spacconate del socero... fumo! tutto fumo!... proprio così, e non dico per baia!... Sogni, illusioni, e niente altro! E che cosa resta a guardar nel piatto? Un bel niente! o dirò meglio, ci resta della miseria, delle lacrime.... Queste son come il condimento e non mancan mai!... Proprio così, signor marchese!... Le ho detto una cosa che le fa dispiacere.... che la rattrista!...» «Cioè....» «Ma se avesse vedute le scene che ho vedute io! Povero avvocato! Gli darei dell’asino proprio di gusto, ma non mi regge il cuore. Però, a pensarci, che asino! Lei sa come se la passava bene in Castelrenico.... Ma signor no! ci voleva il fumo; dunque si sogna un grande impiego, e si spera pescarlo.... nelle nuvole, perchè quaggiù, impieghi e miseria, tutti lo sanno, sono quasi sinonimi. Bussa di qua, bussa di là, un impiego era capitato, ma un impiego alla buona.... un impieguccio, come era ben naturale, perchè anche il papa a diventar papa ci mette il suo tempo. Fatto il primo sproposito, c’era da ringraziare il Cielo e tenersi prezioso l’impieguccio. Ma signor no; non c’era il fumo, e ci voleva o tutto o niente. Io gli avevo ben dato in allora qualche buon parere, ma.... eh sì! a sentirli loro, l’avvocato e il socero, ero io che non capivo niente, e loro quelli che la sapevan lunga. Così son passati quasi tre anni di illusioni, di vita allegra, di lusso; quel po’ di patrimonio è scomparso, scomparso tutto. L’impiego è sempre di là da venire.... e a stringere il pugno.... Oh! se vedesse, signor marchese!... Quel povero avvocato dice che la miseria è la minore delle cose che gli fanno vergogna; dice di aver ingannati tutti, d’aver ingannata la sua Enrichetta.... d’aver ingannato anco lei, signor marchese, e la sua famiglia....» «Ma gli dica di no!... Non è capace lei di confortarlo, di strapazzarlo?...» «Oh! dice ben di più! Dice che non gli rimane che di buttarsi da una finestra.... e poi domanda chi avrà pietà della sua famiglia.... insomma c’è da sentirsi lacerar le viscere. Il socero lo tira innanzi con qualche altra illusione; ma oramai siamo agli sgoccioli, e bisogna prendere una risoluzione.... ma quale? Se lei, signor marchese, non lasciava Milano un mese prima del solito, forse a quest’ora qualcosa era scoppiato.... una spesuccia di più in casa di Massimo avrebbe già dato il tracollo alla bilancia. Guardi un po’! la sua partenza gli è stata per il momento un piccolo benefizio, ma poi....» Il marchese in quel punto si rizzò. I suoi lineamenti avevano preso un non so che di duro, e quasi di minaccioso, come se volessero far paura alla commozione che si sentiva nascere, e farla scappare indietro. «Che l’avvocato sia stato un asino, non mi fa specie;» disse poi a un tratto, mandando fuori le parole come schioppettate. «Quello che mi fa specie è d’essere stato un asino io! Se quell’avvocato si tenne il fumo in testa per tanto tempo e si rovinò del tutto, ci ho avuto anch’io il mio tanto di colpa.... Lo dovevo capire, per bacco! E in conclusione, siccome gli spropositi s’hanno a pagare, così la mia parte la pagherò! E ora basta. Andiamo, ingegnere, se vogliam fare la partita.» Il giorno dopo, il marchese, fatta la sua colazione, lette le sue lettere e il suo giornale, a un tratto annunziò che sarebbe partito di lì a un’ora, e che non sarebbe ritornato che dopo cinque o sei giorni. Una risoluzione così improvvisa fece a tutti non poca maraviglia, e tutti si domandavano che cosa mai fosse capitato al marchese di così importante per deciderlo a lasciare ad altri il comando de’ suoi bachi, proprio sul buono. Furono appunto sei i giorni in cui rimase assente il marchese, e in cui il fattore e i coloni avrebbero potuto tirare un poco di fiato, se i bachi, quasi fossero anch’essi in minor soggezione, non avessero scelto proprio quei giorni per cadere a frotte e lasciar tavole e boschi deserti. Erano ben diradate le loro file quando tornò il marchese, sicchè è facile immaginare che burrasca si levasse. Eravamo per fortuna all’ultima settimana, e il supplizio del fattore e dei coloni durò poco; ma fu una settimana terribile. Era un continuo dar ordini da mattina a sera, uno strapazzare quanti capitavano, un ripetere gl’insegnamenti già dati, un insegnar nuovi ripieghi. Oramai nessuno capiva più niente: a furia di ordine e di disciplina era nata una tal babilonia che nessuno più ci si raccapezzava; e in quanto ai bachi, si salvaron que’ soliti che si salvano in tutte le disfatte, perchè ci sia chi ne possa dare la nuova. Il marchese che aveva esclamato tante volte in aria di trionfo: «Andar male? oh, la vedremo! ci vorrà anche il mio permesso!» ora andava ripetendo: «Son bastati sei giorni di assenza, sei giorni soli! perchè mi si mandasse tutto a soqquadro. Nessuno mi ha capito! Tempi ignoranti e presuntuosi!... Ma un altr’anno la non andrà così!» Pochi giorni dopo, il marchese partiva con tutta la famiglia per Baden-Baden. In Castelrenico non ritornò che sul principio d’ottobre; ci rimase, come al solito, fin dopo il san Martino; ma de’ bachi, del metodo e della catastrofe non ne parlò più; e nessuno ebbe voglia di toccargliene. Mancavano pochi giorni alla partenza, quando una mattina il marchese, dopo aver letta con attenzione speciale una lettera appena ricevuta, fece mandare un espresso a una borgata vicina con un telegramma che chiamava a Castelrenico l’ingegnere Mevio, ripartito poco innanzi per Milano. L’ingegnere arrivò il giorno dopo con la vettura del paese; e il marchese, appena se lo vide comparire nello studio, senza dirgli altro gli diede a leggere quella lettera. Ma per capirla bisognava essere al fatto di qualcos’altro, e Mevio, che faceva sforzi per raccapezzarsi, e ci riusciva poco, pigliava sempre più una certa espressione tra l’incerto e il goffo, che faceva contrasto con la solita sua disinvoltura. «Fareste meglio a non guardarmi con quella faccia che fa poco onore a uno che si picca d’essere un fulmine a capire!» disse il marchese. «Non ci siete ancora arrivato? È un mio amico senatore che scrive.... e l’impiego per il vostro avvocato Massimo c’è.... Ma, intendiamoci, quell’impiego che gli fu già offerto una volta, e che allora rifiutò. Che se poi vuol rifiutare ancora, padrone; il mio dovere l’ho fatto! la mia parte di debito l’ho pagata! Per conto mio ho finito!» «Oh! signor marchese... avevo quasi capito.... ma siccome non osavo sperar tanto....» «Che se poi l’avvocato preferisce il fumo, se lo tenga! e si troverà in buona compagnia.... si troverà in una numerosa compagnia! perchè al giorno d’oggi chi non è almeno ministro si crede una vittima della persecuzione, dell’invidia, o del Governo! Tutti però vogliono l’impiego! perchè l’impiego a molti pare il modo più semplice di conciliare l’amore del far poco con quello del salario.... Di questi impieghi ne fu avviata una fabbrica degna della ricerca.... ma poi quando si venne al salario, presero voga le massime austere della semplicità democratica applicata al desinare degli altri! e si gettò nel paese una falange di miserabili, di illusi, di malcontenti. Respinti, avrebbero lavorato in altra maniera, con grande utile loro e nostro!» A questo punto il marchese s’era rizzato in piedi e aveva cominciato a misurare a gran passi lo studio, facendo a un tempo una delle sue facce le più brusche. «Quella buona gente poi, che ha creduto di graziare le migliaia di cercatori di impieghi,» continuò, «ha fatto al paese un bel regalo! l’innesto del malumore in ogni sua vena!... Da queste briciole di pan secco, i migliori si allontaneranno sempre più, piglieranno altre strade.... sì getteranno alle industrie, ai commerci, andranno là dove si cerca chi vale per due, e per due si paga!...» «Voglio sperare» prese a dire l’ingegnere Mevio, approfittandosi di una pausa del marchese «che l’avvocato Massimo vorrà far eccezione....» «Sarà anche lui come tutti gli altri!» «Creda, signor marchese, che questi due anni sono stati per l’avvocato una gran lezione!» «Ho poca fede nelle lezioni! Per raddrizzar la gente preferisco quelle strade che conducono diritto per forza. Il vostro Massimo sarà come tutti gli altri! Infatti.... appena nominato non dirà: io sono un povero diavolo a cui si è fatta la elemosina di poche lire al giorno; ma dirà: io sono un funzionario dello Stato. E avrà ragione! E se sono un funzionario dello Stato, è segno anche che sono un uomo di vaglia!... che sono un mezzo personaggio! e mi si paga meno d’un fattorino di negozio! La chiusa di questo ragionamento sarà di necessità una filza di bestemmie; e la conseguenza sarà la solita, quella che vediamo ogni giorno: o un infelice, o un nemico!» «Pur troppo la va così!... Voglio sperare però che Massimo, non foss’altro per gratitudine verso di lei....» «Se tirate delle cambiali sulla gratitudine mi farete fare dei cattivi affari!... Ma adesso tutto questo non c’entra.... e m’avete tirato fuor di strada. Ora la cosa è fatta, e l’importante è che l’avvocato accetti subito, e non faccia qualche nuovo sproposito. Oh! se non si fosse trattato di cosa così urgente, così disperata, come me l’avete dipinta voi, v’assicuro io che non sarebbe stato così facile far contribuire il marchese Renica alla fabbrica d’un impiegato! Ma non torniamoci su!... Insomma si è potuto far considerare come non avvenuta quella rinuncia, e s’è fatto risuscitare il decreto di nomina d’allora. Mi fu promesso che il primo posto vacante sarebbe stato per lui; e come vedete, ora mi si scrive che il posto c’è. È in un paese dell’Italia centrale... è un impieguccio miserabile, per non far torto alla regola.... quell’impieguccio d’allora, insomma....» «Oh! se sapesse che carità!» «Non si tratta di carità! Dovevo pagare un debito, come ve l’ho detto un’altra volta.... Mi rincresce solo d’aver pagato un po’ caro, perchè ho dovuto quest’estate lasciar Castelrenico per sei giorni, e i sei giorni son bastati a mandarmi i bachi in malora! Ma un altr’anno la non sarà così! Oh, la vedremo! Intanto spicciatevi. Andate a Milano; dite all’avvocato di che cosa si tratta, e appena avuta la nomina, fatelo partir subito....» «E io poi le porterò le benedizioni d’una famiglia....» «Per carità! detesto le benedizioni! A proposito, guai a voi se dite all’avvocato, o a chicchessia, ch’io ci sono entrato in questa faccenda!» «Ma, signor marchese, cosa devo dire?...» «Dite che la nomina è piovuta dal cielo, dite che siete stato voi, dite quel che volete.... ma se parlate di me, riparto e faccio cancellare, se è possibile, il decreto! Avete capito?» «Basta così!» «E guardate che parlo sul serio! Guai a voi!...» La mattina seguente, l’ingegnere Mevio partiva per Milano, e qualche giorno dopo, il marchese, letti all’ora solita il suo giornale e le sue lettere, volgendosi a sua nuora, «C’è una novità per voi,» le disse; «l’avvocato Massimo ha avuto quell’impiego che aspettava da un pezzo....» «L’impiego in Milano?» domandò il consigliere Rocca. «No, pare anzi che vada lontano.... il che vuol dire» continuò il marchese «che voi, Giulia, perdete una delle vostre compagne.» «Un affar serio! un affar serio!» esclamò don Gilberto «trovare un’altra amica....» «E si tratta d’un buon impiego?» domandò la marchesa Giulia interrompendo don Gilberto. «L’avvocato non lo dice,» rispose il marchese; «leggete, ecco la lettera.» La lettera fu letta ad alla voce dal marchese Giorgio. L’avvocato Massimo partecipava la sua nomina al marchese Antonio, e soggiungeva che dovendo partir subito, aveva voluto adempiere a un dover suo, quello di ringraziare lui e la sua famiglia delle molte cortesie che gli avevano usate. Dell’impiego diceva solo che per il grado e la destinazione non si trattava di tutto quello che gli era stato promesso, ma che nullameno s’era deciso ad accettare per compiacere alle istanze del ministro, e per l’assicurazione che in breve gli avrebbero dato di meglio. La faccia del marchese rimase impassibile, e le sue labbra non cedettero alla tentazione del più leggero sorriso. Poi, contento in cuor suo che Mevio avesse fatte le cose a dovere, se ne andò con una fregatina di mani. Don Gilberto intanto riprendeva con la marchesa Giulia il tèma della difficoltà di trovare un’altra amica dei cuore; l’amica, insomma, da mettere di faccia in un palchetto del teatro; l’amica con cui si entra insieme in una festa da ballo; che si tiene seduta accanto in una _calèche_. La marchesa Giulia si schermiva dai problemi di don Gilberto col non rispondere mai a proposito. La nuova dell’impiego dell’avvocato Massimo si diffuse dopo pochi giorni, com’era naturale, anche in paese. Come? non s’era forse ripetuto più volte per Castelrenico che l’avvocato aveva avuto da un pezzo un impiego in Milano, che non si sapeva che impiego fosse, ma che doveva essere un impiego in grande? E ora era venuta la notizia che l’avvocato aveva avuto un impiego, ma un impieguccio di questura e di quelli di minor conto! Questa cosa fece parlar molto, come, ognuno se lo può immaginare; e la curiosità, le domande, i commenti e la confusione delle teste andarono in breve all’infinito. Il solo che ci vide chiaro e che spiegò la cosa, fu quello della pipa di gesso, il quale, seduto sulla solita panchetta del caffè della _Fratellanza_, una mattina sentenziò: «Che se l’impiego pareva piccolo, era segno che era uno dei più grossi!» E poi nel riaccendere la pipa aveva soggiunto in tono ancor più misterioso: «A me, i Governi non la dànno a intendere così facilmente!» Dopo quella sentenza, l’opinione generale in Castelrenico fu che l’impiego dell’avvocato Massimo pareva un impiego da poco, ma invece era uno dei più grossi; e ciò perchè a quel della pipa di gesso nessuno, è vero, avrebbe fidato il proprio borsellino per un minuto, ma in cose politiche gli si dava sempre un credito grande. Il solo che in cuor suo non ne capì più nulla davvero fu Martino. XI. Tanto Mevio che veniva da Castelrenico, quanto la lettera del ministro che annunziava l’impiego, capitarono in casa Della Valle proprio nel medesimo giorno. Mevio fece benissimo la sua parte, ma non ce ne sarebbe stato di bisogno, perchè la marea era montata tant’alto, che quella poca tavola di salvamento, in altri tempi così sdegnosamente rifiutata, parve ora una gran provvidenza, e fu salutata con uno scoppio di gioia caloroso ed unanime. Giovanni, che ne attribuiva tutto il merito ai suoi memoriali, ed era persuaso che gli si dovesse una bella riconoscenza, aveva quel contegno modesto ma soddisfatto di chi è convinto di valer molto. E perchè nessuno se ne scordasse, come un generale che dopo una vittoria parla non di sè ma de’ suoi soldati, egli aveva ripreso il discorso de’ suoi fili, e non la finiva più. Per quel giorno fu inutile, non ci fu verso di fargli parlar d’altro; Mevio a ogni minuto stava per perdere la pazienza, ma ricordandosi la faccia del marchese si conteneva, e rivolgendosi a Massimo e ad Enrichetta, ai quali pure la consolazione aveva data una gran parlantina, faceva con loro un monte di chiacchiere e di congratulazioni. Così quel giorno, che si poteva chiamare il primo dell’impiego dell’avvocato Massimo, passò lietamente e fu di buon augurio per tutti in casa Della Valle. Come dopo una di quelle giornate d’autunno troppo luminose e tiepide, in cui pare abbia fatto ritorno un raggio del sole d’estate, segue una giornata improvvisamente grigia e mesta, foriera dell’inverno, così il giorno seguente in casa dell’avvocato nessuno trovò quel buon umore con cui era andato a dormire. Nella lettera di nomina c’era l’ordine di trovarsi al posto un tal giorno, ch’era vicinissimo; per cui l’avvocato dovette incominciare, in tutta furia, i preparativi della partenza, e venir subito a una decisione dolorosa, quella di partir solo e farsi raggiungere più tardi da Enrichetta, dal bambino e dal socero. Il trapiantar casa alla distanza di forse trecento miglia, e quello stipendio che stava scritto con una cifra così umile accanto al suo impiego, gli mettevan dinanzi agli occhi, intanto che faceva il baule, qualcosa di molto buio. Gli pareva quasi di adagiar la sua roba in una tomba. Ogni vestito che andava ripiegando e pigiando gli ricordava qualche circostanza del passato, e con questo gli tornavano dinanzi a uno a uno i suoi dubbi, le sue speranze, i suoi disinganni. Qualche volta rimaneva immobile con un panciotto o con un paio di calzoni in mano, e si domandava se doveva tirare innanzi o fermarsi mentre era ancora in tempo. Allora gli venivano in mente i discorsi che aveva uditi dal marchese Antonio, e i pareri che gli avea dati Mevio. Fin dai primi tempi Mevio gli aveva sempre predicato di tornar subito alla sua professione.... ma adesso era tardi! e poi non c’era da pensarci in quel momento! E continuava a far il baule cacciando i brutti pensieri e cercando nella consolazione del giorno prima qualcuno di quegli argomenti, che gli eran parsi così persuasivi, e che l’avevan ricondotto nel bel paese dei sogni e delle speranze. Quei raggi di consolazione si facevano intanto sempre più pallidi come quelli del novembre in cui eravamo, finchè il giorno della partenza non ne comparve proprio più uno. Fu un giorno triste e di quelli che lasciano come un ricordo di paura. Massimo, in quel momento in cui abbracciò Enrichetta e baciò il suo bambino, sentì una stretta al cuore come non l’aveva sentita mai: gli parve di dire addio per sempre a qualcosa; si vide dinanzi una via tutta nuova, tutta ignota, una via che si apriva angusta e malagevole, sulla quale aveva fatto ormai il primo passo, e che non sapeva dove l’avrebbe condotto. Ebbe come i brividi della solitudine, e riabbracciò a un tratto più fortemente la sua Enrichetta. Ma anche il conforto di quell’abbraccio non fu intero e sereno come l’avrebbe voluto: ricordò in quel momento quante volte era stato ingiusto e aspro con lei; ricordò i giorni passati senza una buona parola; giorni perduti e da dimenticare, ora che avrebbe voluto averne tanti di cui portare con sè la memoria. Aveva ritrovato nell’anima tutto l’affetto d’una volta, ma partiva col dubbio d’averlo troppo a lungo fatto parere diminuito. Avesse potuto Enrichetta leggergli profondamente nel cuore in quel momento! Anch’essa avrebbe voluto prolungare quei brevi minuti dell’addio per sgombrare di ogni dubbio il suo cuore, per cancellare ogni reminiscenza meno lieta. Ella avrebbe voluto trovare in sè stessa qualcosa che le desse la coscienza d’essere più forte, più difesa; e pur ripensando che quella separazione sarebbe stata brevissima, tremava tutta, parendole come di rimanere in una casa senza custodia. Giovanni avrebbe voluto che quegli addii fossero un poco più allegri, e aveva preso a parlare di quel paese dove andava Massimo e dove presto l’avrebbe raggiunto in compagnia della figliola, come se ci fosse stato le mille volte; poi tornava da capo coi suoi fili; poi parlava della promozione imminente. Ma non c’era verso: nessuno badava a lui; neanche Mevio, che aveva in quel momento gli occhi gonfi, e a cui il buon cuore aveva tolto affatto la parlantina. Si pensi con quanta festa fu ricevuta la prima lettera di Massimo, che capitò pochi giorni dopo la sua partenza! Era una lettera scritta a Enrichetta, in cui c’eran molte parole affettuose per lei, qualche parola di speranza per l’avvenire, e qualche richiamo al bel soggiorno di Milano. «Eh! l’ho sempre detto io!» esclamò per tutto quel giorno Giovanni. «Si capisce che è un bel paese anche quello dove è andato a stare il nostro Massimo.... ma Milano è una gran Milano, e non ce n’è che uno!» Da quella lettera si conchiuse che Massimo stava benone, e si passò una buona giornata. A Mevio però parve strano, ma tenne l’osservazione per sè, che in quella lettera Massimo parlasse di tutto fuorchè del paese dov’era, e di quello che vi faceva. La lettera che doveva dar notizia di queste due cose capitò una settimana dopo, ed era diretta a Giovanni. Per saperne subito qualcosa anche noi, la metteremo qui tal quale. «Caro socero. »Questa lettera è per voi: se Enrichetta fosse presente quando la ricevete, riponetela in tasca e fate che non la veda. Mi aspettavo poco, a dir vero, quando son partito, ma non avrei potuto immaginarmi che i primi passi sulla nuova strada per la quale mi son messo dovessero essere così tristi. Se il paese dove mi trovo sia bello o brutto non ve lo saprei dire; lavoro da mattina a sera, e non ho un minuto da badare ad altro fuorchè al mio uffizio. Ma sono in un paese al quale un passato tristissimo lasciò una mala erba, di cui forse i nostri figli soltanto vedranno le radici al sole. »Le cose che ho sapute e vedute in questi giorni non sarei arrivato a pensarle mai, e a dirvele credereste di sognare! Non potete immaginarvi che duro mestiere sia il mio! Ma chi lo sa? Se lo sapessero, non ci compenserebbero così male!... Giorno e notte son tra l’incudine e il martello, tra i dispacci del prefetto che mi comandano di agire con severità, e le lettere anonime che mi minacciano la fine d’un mio predecessore al quale fu tirata una schioppettata nella schiena. Ma per carità non dite queste cose a Enrichetta!... »Intanto però nè lei nè voi ci dovete venire a nessun patto. Io troverò qualche scusa, e voi aiutatemi a dispor Enrichetta e a persuaderla di non venire quaggiù. Se la passo netta e arrivo a meritarmi una qualche protezione, chi sa che non mi si levi presto da quest’inferno, e mi si mandi in qualche cantuccio tranquillo, dove mi possiate raggiungere, e dove si possa vivere in pace tutti insieme! »E poi se sapeste quanto costano i traslocamenti a una famiglia! Ho potuto fare i calcoli precisi, e se alla mia dovessi farne far due in un anno, sarebbe l’ultima nostra rovina. Dunque bisogna lasciarmi qua solo, e speriamo che non sia per molto. Ma se sapeste con quanta tristezza ve lo dico! »Vi raccomando la mia Enrichetta e il mio bambino. Cercatemi, se potete, qualche protettore. »Il vostro Massimo.» «Milano è una gran Milano!» disse tra sè Giovanni, letta che ebbe la lettera. E rimasto per parecchi giorni sopra pensiero e taciturno, ripeteva di tanto in tanto quell’esclamazione a qualunque proposito. «Mi contan persone che ci son state,» prese poi a dire a sua figlia, «che in quel paese dove c’è tuo marito a viverci costi un occhio!... Prezzi indiavolati! Non sanno più cosa domandare!... Gli alloggi poi!... per delle catapecchie pigioni da matti!... Eh! l’ho capito subito io che c’era un qualcosina, vedendo che Massimo non ci faceva fretta ad andar laggiù.... Lo vedo.... bisognerà aver pazienza! Basta, que’ fili che hanno dato l’impiego a Massimo li tengo ancora, e mi serviranno, spero, a farlo andare in un paese di maggior abbondanza. A far le cose per bene si dovrebbe lasciar passare qualche mese, e intanto stare a vedere!... Mi rincresce a parlare così, io che sono d’un carattere piuttosto arrischiato.... cioè voglio dire che quanto a me andrei a occhi chiusi in fin del mondo!... ma con donne e bambini è un altro par di maniche!...» Di questi discorsi Giovanni ne tenne parecchi a sua figlia, e intanto anche le lettere di Massimo che capitavano mano mano dicevan sempre a Enrichetta di non moversi, di indugiare, ora per la stagione, ora per l’alloggio, ora per qualch’altro pretesto. Giovanni poi nel commentare questi pretesti, ch’egli chiamava ragioni e di quelle lampanti, faceva fare ogni giorno un passo alla conclusione, a cui per suo conto era venuto da un pezzo, di non moversi da Milano almeno per quel primo anno, e di darsi attorno nel frattempo per ottenere a Massimo un traslocamento. Questa conclusione non fu mai dichiarata proprio ufficialmente, ma ogni mese che passava la si poteva dire tacitamente ammessa sempre più. Non è a dire quanto da principio riuscisse amara a Enrichetta, e con che spavento ella guardasse in cuor suo questo destino che la teneva a forza separata dal suo Massimo, e le impediva di seguirlo sotto altro cielo, lontana da quelle memorie che l’avevano l’anno prima turbata in modi così diversi e così inattesi. Questo secreto pensiero, e le imperiose necessità della famiglia, le consigliarono presto il partito di rinchiudersi nelle pareti modeste della sua casa, di scomparire dalle belle sale dove aveva fatta la sua breve e risplendente apparizione, sotto il pretesto dell’assenza del marito, della sua partenza vicina, e di qualche maluccio che di tanto in tanto la molestava davvero. Da principio aveva temuto l’assiduità e le insistenze della marchesa Giulia; ma anche queste si fecero, con sua sorpresa, sempre più deboli e discrete, perchè ci aveva secretamente pensato il marchese Antonio. Così passò una metà del nuovo anno, e i giorni s’eran seguiti calmi ed eguali per Enrichetta senza che nulla fosse venuto a interromperne la monotonia. Furon giorni quieti, ma mesti. La partenza di Massimo, e tutta quella fantasmagoria della vita lieta che aveva attraversata negli anni addietro, avevan lasciato Enrichetta, come all’indomani d’una festa, sbalordita e pensierosa. Anche le lettere di Massimo s’eran fatte a poco a poco meno frequenti. Al povero Massimo cresceva il lavoro ogni giorno; e poi egli non sapeva più qual pretesto mettere in campo per impedire alla sua famiglia di raggiungerlo, sicuro com’era che se avesse parlato dei pericoli in mezzo a cui viveva, Enrichetta sarebbe corsa a ogni costo vicina a lui. Aveva poi anche un barlume di speranza d’esser mutato di posto; l’occasione che lo mettesse sott’occhio e lo raccomandasse ai superiori sarebbe pure una volta o l’altra venuta. Quell’anno però non doveva finire per Enrichetta così calmo com’era cominciato. Anch’essa da qualche tempo nelle sue lettere a Massimo gli taceva una cosa, gli taceva della sua salute, che lentamente si faceva ogni giorno più debole e incerta. Suo padre che, sino allora, se n’era accorto appena, ci aveva badato poco; ma Mevio cominciava ad esserne colpito, e guardava con angustia quel fiore gentile che chinava il capo e perdeva ogni giorno i suoi bei colori. Alla fine si decise di parlarne col marchese Antonio e con la marchesa Giulia. E l’uno e l’altra preser subito la cosa a cuore; uscirono poco a poco da quel riserbo delicato che s’erari imposti; le loro visite a Enrichetta furono più frequenti; e furon larghi con lei d’ogni sorta di premure e d’offerte cortesi. Tra queste, quando venne l’estate, ci fu quella di condurla con loro a prendere una boccata d’aria buona, cosa che il medico le aveva consigliato più volte. Il marchese aveva appunto deciso di passare un paio di mesi in Svizzera con la famiglia, pigliando a pigione una villa in qualche bel posto alto e romito; e così riusciva tanto più facile e naturale il pregare Enrichetta a voler essere della brigata. In quest’offerta il marchese ci mise un’insistenza così decisa, così cordiale, che Enrichetta, dopo aver cercata sulle prime qualche scusa, ne scrisse a Massimo parlandogli per la prima volta del suo malessere, ma ben inteso come di cosa nuova, leggera, e di cui non c’era da darsi pensiero. Suo marito le rispose subito facendole animo ad accettar l’invito; e l’invito fu accettato. Ai primi di luglio dunque Enrichetta, conducendo seco il suo bambino, partì per la Svizzera insieme al marchese Renica e alla sua famiglia. Giovanni, a cui nulla è mai andato più a sangue dell’aria che spira sulla piazza del Duomo, rimase a Milano. Oh! i bei giorni quieti e contenti che passò Enrichetta in una bella casina tutta pulita e inverniciata, su un bel poggio verde, alle falde d’un bosco fitto, erto, e che pareva salisse al cielo! L’eco delle lontane miserie non arrivava lassù, quasi si arrestasse dinanzi alla maestà di quel vasto silenzio. La vita calma, uniforme, senza cure, senza angustie; l’aria purissima, profumata dagli abeti; la compagnia di persone premurose ed amiche, fecero in breve riavere a Enrichetta le forze illanguidite, e le restituirono ogni giorno più i bei colori delle sue guance. Il marchese Renica se ne compiaceva vivamente, e ripeteva che per l’innanzi non avrebbe fatto altro che il medico delle belle signore. Cominciava pure a riaver l’animo confortato Enrichetta, a cui quella quiete, quegli agi domestici, richiamavano i giorni passati, i suoi bei giorni di sposa, e le pareva quasi che le traversìe sopraggiunte non fossero più che un brutto sogno, e finito per sempre. Erano così passati due mesi di illusione e di pace, quando un bel mattino arrivò don Emanuele. Don Emanuele non s’era lasciato vedere da parecchi mesi; diventato aiutante, aveva dovuto seguire il suo generale, un generale avaro di permessi, e rimanere con lui in una città lontana. Ora, finalmente, il mese del permesso in tutta regola era venuto, e don Emanuele era corso a passarlo in seno della famiglia. L’arrivo di don Emanuele era sempre seguito da una certa rivoluzione nelle abitudini di casa Renica; questa rivoluzione era un privilegio che il marchese lasciava a lui solo, anche perchè sarebbe stato difficile il fare altrimenti. Mancavano due settimane alla partenza, secondo il programma del marchese, e don Emanuele, dopo aver dichiarato di prendere in mano sua, per quegli ultimi giorni, la suprema direzione delle cose, cominciò a tirarsi dietro tutta la brigata per monti e per valli, in gite e scampagnate, inventando ogni giorno qualcosa di nuovo. Il marchese Antonio, ripetendo ogni tanto che suo figlio era un bell’originale, si lasciava trascinare anch’esso per di qua e per di là sotto gli ordini di don Emanuele; la marchesa Giulia e suo marito parevan rinati; insomma tutti in casa Renica, dopo aver tanto ripetuto che la vita pastorale era così bella, pareva cominciassero a dire, in cuor loro, che l’esser finita era più bello ancora; tutti, ad eccezione d’Enrichetta, che qualche volta pareva pigliasse parte un poco forzatamente all’allegria comune, e non avesse più l’umor lieto ed eguale come nei giorni della placida monotonìa. Aspettava, ora, le lettere di Massimo con maggior impazienza di prima; più di prima aveva l’aria inquieta e accorata se non giungevano. E questo accadeva spesso, perchè Massimo che aveva nuove sempre buone di sua moglie, e lavorava sempre più come un martire, non si faceva poi tanto scrupolo d’essere esatto col corriere. Il primo ad accorgersi che la signora Della Valle era in un cattivo quarto di luna fu don Emanuele. Ci trovò, osservandola, qualcosa di nuovo e di diverso; capiva perchè fosse meno lieta e vivace d’una volta, ma non capiva perchè, in così poco tempo, fosse tanto mutata da non aver più nè il contegno confidente, nè quel sorriso facile e gentile ch’era tutto suo; non sapeva spiegarsi quella sua aria quasi infastidita quando le indirizzava anche il più modesto di quei complimenti che avevano sempre trovata una così ingenua e schietta accoglienza. Tutto questo accese in breve l’impazienza di don Emanuele, che decise in cuor suo di volerne venir in chiaro, di voler rifare in breve quel tanto di strada che credeva d’aver una volta percorso, e di non abbandonare così facilmente la partita dopo averci atteso con tanta assiduità. Ci si mise di puntiglio; spiò l’occasione, e l’occasione venne. Il marchese aveva annunziato il giorno della partenza, ma don Emanuele osservò che proprio in quel giorno si inaugurava il tiro cantonale, e che il partire sarebbe stato un mancar di riguardo a chi li aveva ospitati per due mesi con un’aria così buona e un tempo così bello. Dopo molti ragionamenti il marchese Antonio finì col rassegnarsi; si rassegnò a differir la partenza, si rassegnò alla festa del tiro, e a un’ultima gita al capoluogo del cantone. Per un’oretta lo spettacolo del tiro a segno non dispiacque neanche al marchese. Egli dava il braccio a sua nuora, e suo figlio Giorgio alla signora Della Valle. Emanuele ora faceva da battistrada, ora camminava a fianco delle signore; e così, ora vicini, ora a distanza, a seconda che la folla e l’andare e il venir della gente li separava o li riuniva, fecero una visita coscienziosa a quanto c’era da vedere in quella festa. Girarono il piazzale per ogni verso; guardarono fino a una le mille bandiere che il vento spiegava e ripiegava; si frammischiarono ai tiratori che andavan, venivano, o facevan crocchio, tutti col fare glorioso, e che pareva dicessero: «Se siamo così valenti al bersaglio, figuratevi poi in battaglia!» e lessero tutti i cartelli patriottici, con cui fino gli osti cercavano d’incoraggiare a bere il loro vino e la loro birra. Come ebbe veduto tutto ciò, ed ebbe le orecchie intronate da qualche migliaio di colpi, parve al marchese d’essersi divertito abbastanza; anche la marchesa Giulia fu precisamente del suo parere. Ma intanto avevan perduto di vista gli altri della brigata; e dopo averli cercati un pezzo, si diressero alla locanda dove eran scesi la mattina, credendo di trovarceli. Enrichetta in quel mentre, col suo cavaliere e con don Emanuele, era andata a sedere a un tavolino in una baracca di legno, ch’era una specie di caffè. Poi il marchese Giorgio aveva voluto andar in cerca di suo padre e di sua moglie, che non vedeva spuntare da nessuna parie; s’era dilungato alquanto, e non gli era stato facile, tra quel viavai di gente, di tornar così subito al tavolino dov’era aspettato. Il momento era parso assai opportuno a don Emanuele per offrire il braccio alla signora Della Valle, e mettersi in cerca anch’essi dei compagni smarriti; così in breve la brigata fu divisa in tre, e non le fu possibile di riunirsi per tutto quel giorno. Il marchese Antonio, rimasto un pezzo alla locanda inutilmente, s’era deciso di portarsi alla stazione della strada di ferro, dove forse avrebbe trovati i suoi figli con la signora Della Valle. Il marchese Giorgio girò per un paio d’ore dal bersaglio alla stazione, e dalla stazione alla locanda, senza imbattersi in nessuna delle due coppie che cercava. Enrichetta, appena s’accorse d’essere rimasta sola con don Emanuele, aveva voluto montar in vettura e farsi condur subito alla locanda; e saputo dal portinaio che il resto della comitiva era ripartito per la stazione, aveva fatto proseguir la vettura di galoppo, mentre don Emanuele cercava di avviare un discorso a cui il rumore delle ruote faceva una concorrenza invincibile. Giunta alla stazione, Enrichetta scese dalla vettura rapidamente, corse nella sala d’aspetto, e non vi trovò alcuno: il convoglio era partito, e bisognava aspettare un paio d’ore prima che ce ne fosse un altro. Don Emanuele, a cui non era sfuggita quella trepidazione d’Enrichetta, pensò tra sè che la strada d’una volta non era tutta a rifare, e gli fu allora meno difficile di cambiar tono, cercando di ispirarle una certa fiducia, una certa tranquillità. Bisognava aspettar due ore! A quell’annunzio Enrichetta si trovò a un tratto abbandonata da quelle poche forze che aveva tenute riunite fin lì; vide una breccia in quei propositi dietro cui s’era riparata in quel giorno e nei giorni precedenti, e le parve sovrastarle un destino contro il quale non le fosse più possibile lottare. Don Emanuele le offrì il braccio. Dinanzi alla stazione c’era un lungo viale, con due filari d’alberi, che conduceva in città; Enrichetta percorse più d’una volta quel viale, taciturna, appoggiata al braccio di don Emanuele che, richiamandole i giorni passati, prese per la prima volta a svelarle, con parole delicate e sommesse, il significato secreto della sua amicizia e della sua assiduità. Quel richiamo al passato risvegliava nell’animo d’Enrichetta più d’una memoria penosa; le rammentava i giorni dell’umor triste e cupo di suo marito; le rammentava le volte in cui una sua parola d’affetto era rimasta senza risposta, o ne aveva trovata una non curante o aspra; le risvegliava tutte le scene più dolorose che avevano riempita la sua anima di dolore e di spavento. E intanto le parole di don Emanuele la ravvolgevano come in un’atmosfera fine e soave, e la trascinavano nel mondo di quei sogni dorati tra cui s’era dischiusa la sua giovinezza. In quel punto le pareva quasi d’appoggiarsi al braccio di quel compagno, ch’ella aveva sognato, buono, gentile; d’essere in colloquio confidente con lui; e dimenticando d’essere vicina a don Emanuele, le pareva d’abbandonarsi all’estasi d’una felicità legittima e santa. Dal viale erano giunti sulla strada principale che conduceva alla locanda dov’erano scesi la mattina. Don Emanuele s’accorse che Enrichetta era sfinita e che appena si reggeva; ebbe timore che svenisse, e sorreggendola la condusse fino alla porta della locanda a cui si saliva da alcuni scalini. Don Emanuele ed Enrichetta ne avevano appena salito uno, quando si videro comparire dinanzi una comitiva che usciva in quel punto dalla locanda. Eran della comitiva tre uomini piuttosto in là con gli anni, e due signore, che non facevan torto, in quanto agli anni, ai loro cavalieri; gente di Milano che don Emanuele aveva veduto più volte e di cui conosceva alcuno di nome. La comitiva fece atto di fermarsi e d’osservare, con una grande curiosità, quei due compatriotti che avevano riconosciuto. Don Emanuele cercò di cansare quell’incontro; ed Enrichetta, che non se n’era avveduta, nel seguire la mossa improvvisa e brusca di don Emanuele, sentì il rumore di qualcosa che in quel punto le cadeva a terra. La sua mano corse alla catenella che le scendeva sul petto e la trovò spezzata. Un brivido di spavento le strappò un grido; si tolse con forza dal braccio di don Emanuele e, chinatasi a terra, vide e raccolse il coricino che portava sempre con sè, che aveva la sera del suo matrimonio; il coricino in cui c’era il ritratto di sua madre, e che sua madre morente le aveva dato dicendole: «Tienilo sempre con te.... ti ispirerà a nome mio un consiglio nei momenti difficili della vita.... ti porterà fortuna.» Quella breve illusione d’un’ora, quel sogno lusinghiero e fatale, svanirono a un tratto. Enrichetta passò la mano sulla fronte come se in quel punto un bel raggio dell’aurora le avesse dischiuse le ciglia; riunì le sue poche e ultime forze; cercò di atteggiare per un minuto alla calma e al sorriso il suo volto pallido e sofferente; e rompendo per la prima volta in quell’ora il suo lungo silenzio: «Don Emanuele,» disse «è una sacra memoria questo coricino!... Il pensiero d’averlo perduto m’ha messo uno spavento!... Oh! come mi sento stanca!... È il solito di quando mi spavento!... Ma vediamo che non ci passi una seconda volta l’ora di partire. Giulia e il marchese ne sarebbero inquieti. Ritorniamo alla stazione....» Don Emanuele che sapeva resistere alle tentazioni quando vedeva il frutto immaturo, da quel momento non s’occupò che della stanchezza d’Enrichetta, e per tutto quel giorno non riprese più il discorso di prima. Giunti alla stazione, i primi in cui s’imbatterono furon proprio quei cinque compatrioti che poco prima avevano veduti uscire dalla locanda. I tre signori e le due signore anche questa volta si fermarono ad osservarli con una curiosità ancor più avida e contenta; poi si misero a parlar piano tra loro, a far gesti di maraviglia, a toccarsi con le gomita, e a guardarli da capo. Insomma si capiva che quei cinque cominciavano ad esser contenti del loro viaggio, e che finalmente dicevano tra loro: «Abbiamo speso bene i nostri denari.» XII. Una nuova descrizione della Svizzera — ce ne son tante! — avrebbe messo in un bell’impegno e in un bell’imbarazzo quei nostri cinque viaggiatori che abbiamo lasciati così contenti dei fatti loro. Essi dunque, che quando li abbiamo veduti eran già sulle mosse per tornare a casa, avevano cominciato a levarsi l’impiccio della descrizione, col dire tra loro che in fin dei conti s’era veduto poco di bello, e che la Svizzera, tutto sommato, era un paese come gli altri. L’incontro di don Emanuele venne dunque a proposito per cambiare in parte il loro umore e i loro giudizi. La descrizione della signora Della Valle e del marchesino Renica che a braccetto entravano nella locanda, e che poi si mettevano in viaggio per chi sa dove, soli e felici come due colombi, servì loro di descrizione della Svizzera, e di risposta a quanti domandavano «cosa avete veduto di bello?» La Svizzera, veduta sotto questo nuovo punto di vista, trovò nuovi curiosi e nuovi amatori. Furono molti quelli che volevano sentire una descrizione minuta; e saputala, la ripetevano ad altri, e facevano proponimento anch’essi d’un viaggetto ogni anno. Uno de’ primi a risapere la storiella, che in pochi giorni era già diventata un romanzetto, fu don Gilberto, il quale poi andò diviato a raccontarla a Castelrenico in casa del marchese, facendone delle gran risate, e ripetendola più d’una volta come una cosa che lo divertiva moltissimo. Enrichetta, che non aveva seguita a Castelrenico la famiglia del marchese, e ch’era tornata alla vita modesta di casa sua, non aveva saputo d’esser sulle bocche di tanta gente, e d’esser lei in quel momento l’eroina alle cui spese c’era chi teneva la lingua in esercizio, e chi faceva bella mostra di spirito o di virtù. Appena a Milano, ella aveva dichiaralo a suo padre, in un modo più deciso e risoluto del solito, la volontà di non metter di mezzo altri indugi, e di raggiungere suo marito al più presto. Giovanni, che su questo proposito teneva sempre in pronto una buona provvista di ragionamenti belli e fatti, ragionamenti in cui erano preveduti e risolti tutti i casi, si trovò questa volta, con sua maraviglia, arrivato in fondo della provvista senza aver convinto per nulla Enrichetta. Allora ne scrisse a Massimo in tono allarmato; e Massimo rispose lettere sopra lettere, ora al socero, ora a Enrichetta, facendo loro coraggio, e pregandoli tutti e due ad aver pazienza ancora per un poco, tanto più che gli avevano rinfrescata la speranza d’una destinazione meno lontana. «È un gran dire!» pensava di tanto in tanto Giovanni tra sè «questi tali che viaggiano tornano a casa tutti con un muso lungo un palmo! Ne ho veduti a bizzeffe, e tutti così! Anche Enrichetta, dopo che è stata in Svizzera, non è più lei. Prendono come l’aire, e non sanno più star fermi. Ne’ panni d’Enrichetta, dopo essere stato in giro per due mesi, non mi parrebbe vero di mettermi quieto a casa mia. Ma signor no! C’è il diavolo addosso, e bisogna andare, andar di nuovo, andar sempre! La vuol essere una faccenda seria!... con quei bei complimenti poi che capitano laggiù.... Ma già se tra un mese o due non c’è questa benedettissima traslocazione, non ci si scappa! E poi dicono: — Il signor Giovanni non sa moversi da Milano! non sa allontanarsi dalla guglia del Duomo! non è mai andato a vedere da che parte nasce il sole! — Ma Giovanni intanto, rispondo io, è sempre d’umore eguale, non fa stravaganze, non ha musi lunghi.... Giovanni resta a casa sua, lo ammetto, ma sa lui quello che si fa!» Queste, come si vede, eran tutte allusioni ad Enrichetta; e ogni volta che ci tornava sopra batteva e ribatteva il chiodo, ben inteso sempre tra se stesso, non solo sul punto dell’umor poco eguale, ma anche su quello delle stravaganze. «Per bacco! una volta in questa casa era un viavai di gente da mattina a sera che non finiva più; più ne veniva e più se ne voleva! Adesso, le circostanze son mutate, è vero; ma che poi non s’abbia a veder proprio più nessuno all’infuori di quei due o tre tagliati giù più alla carlona, la mi pare una stravaganza bella e buona! Eppure è così. Il portinaio è obbligato a dir sempre che la signora Della Valle non c’è.... e che la bugìa vada pur sul conto di chi si vuole, non importa!... Ma domando io, se per esempio capitasse qualche amico di Massimo, o qualche persona di riguardo, o, per dirne una, don Emanuele.... quel caro don Emanuele che mi voleva tanto bene, e che mi par mill’anni di non vederlo! Una volta, non si faceva nulla senza di lui.... adesso anche lui in fascio con gli altri, a discrezione del portinaio! Le donne.... sono volubili.... volubili!...» Che cosa poi non avrebbe soggiunto se gli fosse capitato in mano un biglietto di visita di don Emanuele, ch’era venuto per salutare lui e sua figlia, proprio in quei giorni in cui Giovanni faceva tra sè quei ragionamenti. Tanto più che don Emanuele aveva scritto sul biglietto, con la matita, che partiva, che non sapeva quando sarebbe tornato, e che se ne andava dolente di non poter fare in persona i suoi saluti alla signora Della Valle e al signor Figini. Giovanni, che in quest’argomento delle visite, passando dai soliloqui ai dialoghi, aveva continuato con Enrichetta a batter il chiodo, non tardò ad avere un improvviso trionfo; e a un tratto con sua gran soddisfazione ottenne che il portinaio avesse una consegna meno severa. «Ah!... le ragioni sono ragioni, e le stravaganze sono stravaganze!» prese allora a dire tra sè Giovanni molto soddisfatto. «L’avevo sempre detto io!... e credo che un po’ di gente, un po’ di distrazione faranno del bene anche alla salute d’Enrichetta.... meglio forse della Svizzera, la quale adesso è di moda, ma... io già non ci ho fede!...» Perchè don Emanuele, che aveva ancora un mese di permesso, era partito così subito? Questa domanda s’era fatta innanzi a Enrichetta più d’una volta, ed Enrichetta l’aveva cacciata come una cosa importuna; poi ci aveva risposto con impazienza: «Nulla di più naturale, per chi è soldato, d’una chiamata improvvisa.» Ma la domanda dopo qualche tempo si faceva innanzi di nuovo, ed Enrichetta per levarsela dal capo rispondeva qualcosa di più: «Immaginarsi!... il marchese Antonio quando tornerà dalla campagna parlerà subito della chiamata di suo figlio.... e per un pezzo non discorrerà d’altro.» Il marchese, a suo tempo, venne a Milano. Enrichetta vide lui e la marchesa Giulia; li vide più d’una volta; discorse con loro della Svizzera, di Castelrenico e di mille cose, ma con sua gran maraviglia nessuno le parlò mai nè di don Emanuele, nè della sua partenza improvvisa. Per saperne qualcosa noi, ci si permetta un passo indietro, e con due parole ci mettiamo al fatto di tutto. La partenza di don Emanuele era stata precisamente opera del marchese. Quando don Gilberto era capitato tutto giulivo a Castelrenico a raccontare le storielle che giravano per Milano, a proposito della famosa avventura di don Emanuele con la signora Della Valle, il marchese, contro il suo solito, aveva avuto l’aria di divertirsene pochissimo; e non l’avevano veduto ridere, come soleva quando trattavasi d’un’avventura o d’una scappata, vera o pretesa, di suo figlio Emanuele. Aveva anzi finito col fare una di quelle facce brusche che facevano pigliare il largo anche ai suoi più famigliari. Don Gilberto ogni tanto cercava di ritornare sulla storiella, ma il marchese si faceva più duro e stecchito, e non apriva bocca. Rimase così silenzioso per un giorno intero; poi fece chiamare nel suo studio don Emanuele, e parlando in terza persona, come soleva nei casi gravi, e sempre con quella faccia d’occasione che aveva da ventiquattr’ore, prese a dirgli press’a poco così: «Delle scappate se ne facciano fin che si vuole.... ma intendiamoci, scappate da gentiluomini!... Il sapere che la cosa di cui si discorre sia vera o non lo sia, è l’ultimo de’ miei pensieri. Ma non sarebbe l’ultimo se si dicesse che il marchese Renica invita in casa sua, a passarci un paio di mesi, una signora.... con la quale signora, suo figlio.... c’intendiamo! Questa signora, in un caso simile, sarebbe stata affidata dal marito all’onore del marchese Renica! C’intendiamo?... Qui comincia il punto sul quale non si scherza!... Il mondo è grande.... si faccia quello che si vuole, dove si vuole, ma in casa del marchese Renica no! Perchè in casa di questo signore, l’onore e la lealtà, che grazie a Dio son due vecchi amici di famiglia, non potrebbero far da comodino a chicchessia. Questo sarà bene tenerselo a mente, e metterlo in pratica anche in avvenire! Intanto, bisognerà prepararsi a far finire questo permesso prima del tempo. Così la famiglia potrà tornare a Milano; la signora Della Valle potrà tornare in casa Renica, come al solito, e le lingue lunghe potranno restar servite altrove per farci il loro mestiere.» Ciò detto, senza aspettar risposta o giustificazioni, piantò lì don Emanuele, e uscì di stanza, conservando la faccia seria e tirata, e per di più abbottonandosi fino al bavero; operazione che di solito faceva subito dopo aver presa una deliberazione grave, o dopo aver dato un ordine che non ammettesse osservazioni. Quel giorno stesso poi il marchese aveva scritto una lettera a quel generale che aveva don Emanuele per aiutante, e ch’era un uomo un poco del suo stampo, tirato come lui, e suo grande amico. Pochi giorni dopo un ordine urgente richiamava don Emanuele in servizio. Ora che ci siam messi in regola con gli avvenimenti, riprendiamo il filo dove l’abbiamo lasciato. Abbiam detto che Enrichetta aveva osservato con una certa maraviglia che in casa Renica nessuno parlava nè di don Emanuele, nè del suo richiamo improvviso. Continuando, aggiungeremo che, con una certa maraviglia, e del resto con sua gran soddisfazione, essa vedeva il marchese Antonio e la marchesa Giulia accettare con un’insolita facilità le scuse e i pretesti ch’essa aveva pronti a ogni loro invito. Li vedeva sempre premurosi e cortesi con lei; ma pareva quasi che tacitamente la secondassero nel suo desiderio di vivere sola e ritirata, e soprattutto di lasciarsi condurre il meno possibile in casa Renica. Ogni volta che passava la soglia di quella casa, il cuore le batteva violentemente; sentiva come di perdere tutte le forze del suo animo; sentiva ad un tratto svanire i pensieri, i propositi più cari maturati nella quiete della sua cameretta; proprio come in quel giorno malaugurato della passeggiata sul viale. Quanto non aveva essa temuto che dopo due mesi di vita intima e comune non le fosse possibile di mettersi col marchese e con l’amica in tutt’altri rapporti! Quanto affanno non le aveva dato il solo pensarci! E ora che su questo timore vedeva di poter mettere il cuore in pace, se ne compiaceva tanto, che non si curava di rifletterci, di cercarne le cause, perchè pure c’era qualcosa di diverso dal solito; e scordava perfino la sua prima maraviglia. Questa quiete che a poco a poco le scendeva nell’animo, la rendeva più rassegnata a sopportare gl’indugi e ad ascoltare con pazienza i ragionamenti di suo marito e di suo padre; il quale, vedendo quell’improvvisa bonaccia e pensando alle burrasche passate, ogni tanto diceva tra sè: «A capir le donne, lo confesso, non ci arriva neanche Giovanni Figini!» E l’inverno passò così. Intanto però s’era fatto un passo e s’era deciso che, ci fosse o non ci fosse il traslocamento, a primavera si doveva raggiungere Massimo. Non è a dire che assiduo lettore della _Gazzetta Ufficiale_ fosse diventato il nostro Giovanni. Leggeva al caffè per delle ore, a uno a uno, filze di nomi che non finivan più. Non c’eran nomine, traslocamenti, posti vacanti in qualsiasi dicastero del regno che sfuggissero ai suoi occhiali. Ogni volta poi, dopo aver lette e rilette le quattro facce e i supplementi, e dopo non averci trovato nulla che facesse per lui, si vendicava del giornale dicendo a chi gli era seduto vicino: «È vuoto.... vuoto questo giornale!... e non è neanche ben scritto! Vediamo quest’altro qua che cosa dice....» e pigliatone un altro leggicchiava e scambiava con qualcuno qualche parola di politica. La politica del signor Giovanni, in quel punto, non era precisamente quella dei principii inesorabili di autorità a cui era stato fedele una volta, nè quell’altra delle aspirazioni audaci venuta dopo, quando l’impiego era andato in fumo: era una politica d’aspettativa, un poco scettica, e piuttosto neutrale; una politica insomma adattata a quel traslocamento che si faceva tanto aspettare. I giorni intanto passavano e si facevano più lunghi e tiepidi; Enrichetta aveva cominciati i suoi preparativi, e Giovanni picchiava qualche pugno di più sulla Gazzetta e ne diceva corna senza ritegno. Ma un giorno un suo amico del caffè, lettore d’altri giornali, gli disse «che le cose, a parer suo, s’imbrogliavano; ch’era pronto a scommettere che c’era sotto una mano della Russia, ma che a ogni modo si andava a gran passi verso una guerra; a meno che tutto non fosse un artifizio dell’Inghilterra!» Giovanni ne fu colpito. Ci pensò su, e vide aprirsi un nuovo orizzonte. Da quel giorno non lesse più la _Gazzetta Ufficiale_; e tornando alla politica attiva, si mise anche lui a leggere i giornali dell’amico, e a commentarli in crocchio con una mezza dozzina d’avventori del caffè. «La guerra!» diceva Giovanni a Enrichetta «tu non sei pratica della guerra! Punto primo, quanto al viaggiare, in tempo di guerra, è regola generale che non ci si pensi neanche. Sono i cannoni, i reggimenti, le fucilate.... son loro che viaggiano! E poi.... dopo le guerre ci son sempre de’ grandi avvenimenti. Quanta gente, dopo le guerre, non s’è veduta andare in su! in su!... Cosa sarebbe stato Napoleone primo, per dirne una, senza la guerra?» Un giorno però i giornali lo fecero tornar a casa inquieto e sopra pensiero. Aveva letto che in quel paese dov’era Massimo, c’eran stati dei guai; c’era stata cioè una dimostrazione contro il sindaco; la folla era entrata a forza nel palazzo del municipio, e in mancanza del sindaco, aveva buttato fuori della finestra tutti i mobili e tutte le carte, facendo poi di tutto un falò in piazza in mezzo all’allegria generale. Il giornale che raccontava questa faccenda, parlava alto, e ne domandava stretto conto ai due colpevoli principali, ossia al Governo che non aveva prevenuta la dimostrazione, e al sindaco che non s’era lasciato trovare in uffizio. I giornali, per due o tre giorni, parlarono dell’accaduto in tutti i toni; e intanto che i lettori del caffè ne facevano i commenti, Giovanni si faceva piccino piccino, beveva in fretta la sua limonata calda, e se ne andava al più presto. A Enrichetta, dopo averci pensato su, non disse nulla; e invece scrisse a Massimo per sapere come stavan le cose. Ma il giorno dopo, a dirgli come stavan le cose, ci pensò ancora il giornale, e ci lesse un interpellanza che un deputato aveva diretta al ministro sui fatti di quel paese. Il deputato, dopo un grande elogio al patriottismo della popolazione, aveva parlato del contegno passivo, inerte dell’impiegato della sicurezza pubblica; contegno ch’era stato interpretato come una sfida al sentimento delle masse. Il ministro aveva con bel garbo rettificate alcune delle cose dette dal deputato, concedendo però che il contegno di quell’impiegato avrebbe potuto esser migliore, e lasciando capire che sarebbe stato rimosso. Le dichiarazioni del ministro avevano fatto buona impressione, e i deputati se n’erano andati a casa soddisfatti. Con che poca soddisfazione però si fosse avviato a casa quel giorno per desinare il povero Giovanni, è facile pensarlo. Aveva fatto prima un lungo giro per le strade; era passato più d’una volta dinanzi alla porta di casa sua, prima di decidersi a entrarci, non sapendo come comparire dinanzi a Enrichetta senza farsi leggere in faccia tutta la storia. Alla fine s’era deciso di dire che era un poco indisposto e che non aveva appetito, tanto per tirare in lungo. «Domani poi» pensava tra sè «un qualche santo mi aiuterà.» Il giorno dopo capitò l’ingegnere Mevio, che aveva ricevuto da Massimo una lunga lettera in cui c’era tutta la storia, e di più l’incarico di dare a poco a poco a sua moglie e al socero una dolorosa notizia. Il buon Mevio era venuto con una faccia così sconvolta, che pochi minuti dopo dovette legger la lettera tal quale per tranquillare Enrichetta e non lasciarle creder di peggio. Massimo raccontava minutamente nella lettera tutto l’accaduto; ripeteva tutte le domande, i dubbi, i ragionamenti che egli aveva dovuto far tra sè, in un baleno, quando s’era trovato all’improvviso dinanzi a un tafferuglio di quella fatta. Nella sua mente, diceva, eran passati alla rinfusa tutti gli articoli della legge e dei regolamenti, tutte le circolari dei ministri, tutti gli ordini del prefetto; la fermezza, la longanimità, la conciliazione, il dovere, ch’eran tutte cose ch’egli non doveva mai perdere di vista, avevan fatto una tal confusione nella sua mente in quel momento, da non saper più in che mondo si fosse. S’era ricordato che la severità aveva procurato una schioppettata a un suo antecessore, e una destituzione a un altro collega; e dovendo pur decidersi s’era deciso a pigliar le cose con le buone. Dopo esser rimasto dunque un poco tra il sì e il no, aveva cominciato a persuadere, a tranquillare uno, a pregare un altro; ma intanto che egli discuteva da una parte, dall’altra era stata sfondata la porta del palazzo municipale, ed era cominciata quella tal pioggia di carte e di mobili. Erano accorsi i pochi soldati che c’erano nel paese: il baccano era cresciuto, era stato tirato qualche colpo di fucile, ed uno della folla era rimasto morto. Il ministro aveva ordinato al prefetto un’inchiesta; gli accusati s’eran difesi col gettar la colpa sul morto, e siccome ci voleva un poco di colpa anche per un vivo, così s’era conchiuso che se il delegato della Questura avesse avuto sulle prime un contegno più fermo, le cose non sarebbero andate così innanzi. Dopo la qual conclusione, un telegramma del ministro traslocava il delegato Della Valle in un remoto paesello di Sicilia. Tale era il contenuto della lettera di Massimo, e qual fosse il dolor suo, e quale poi la desolazione d’Enrichetta e di suo padre, dopo una simile lettura, è facile pensarlo. L’ingegnere Mevio aveva cercato sulle prime qualche parola di conforto e di speranza; ma poi quando si veniva al punto di cercare un rimedio, s’univa anche lui a Giovanni, e picchiava qualche gran pugno su un tavolino mandando a spasso la rassegnazione. Questo genere di conforto non era fatto per mettere pace nell’animo lacerato d’Enrichetta, e la poverina dovette appoggiarsi tutta a quel tenue filo delle sue forze, e domandare a se stessa tutto il coraggio di cui aveva bisogno per attraversare quest’altra prova, questo nuovo rigore della fortuna. Il marchese Antonio, appena udì la disgrazia toccata a Massimo, fece a Enrichetta mille proferte; promise di moversi, di parlare, di scrivere; e infatti aveva principiato, quando altri casi ed altri pensieri vennero ad occupare nel suo animo quel posto che avrebbe dato di cuore ai tristi casi della signora Della Valle. La guerra! Questa parola ch’era oramai sulle bocche di tutti, aveva in pochi giorni levati vent’anni almeno dalle spalle del marchese Renica, e gli aveva dato un non so che di irrequieto, di baldanzoso, di impertinente, che lo faceva parere a’ suoi vecchi amici proprio tal quale di quand’era ne’ suoi anni più belli. Non parlava più che di cose militari, di piani di guerra, di busse, e rimpiangeva d’aver passati i trent’anni, e di averli compiuti in tempi in cui non aveva potuto seguire la sua vocazione, quella che avrebbe fatto di lui a quest’ora un generale di brigata almeno. «Fortunato Emanuele!» diceva con tutti. «Fossi ne’ suoi panni! A quel capo scarico capitan proprio tutte le fortune! Con occasioni simili, vedrete che carriera farà! Così giovane! sarà l’onore della famiglia, lui, quel capo scarico!» Poi scriveva a suo figlio delle lunghe lettere, e non lasciava veder le risposte a nessuno «per conservare il secreto sulle cose di guerra,» le quali cose eran quelle, ben inteso, che poteva sapere un sottotenente di cavalleria. Il marchese Antonio, alle prime notizie d’armamenti straordinari che faceva il Governo, s’era messo sul piede di guerra anche lui, cioè aveva fatto ripulire le sue armi e ne aveva comperate delle nuove; ogni sera poi, prima di cominciare la partita a tarocchi, non la finiva più di mostrarle, di farle ammirare, di far scattare i grilletti e di pigliar di mira, fingendole nemici, tutte le statuine di porcellana che stavano accampate sul cammino e sui tavolini della sala. Il consigliere Rocca allora non mancava mai di raccontare qualche caso lacrimevole, avvenuto in grazia d’armi credute vuote e che eran cariche. Nè la nuora nè il figlio Giorgio si lasciavano troppo commovere dall’entusiasmo guerresco del marchese Antonio. E l’una e l’altro, quando principiava il discorso della guerra, perdevano le parole e correvano col pensiero a don Emanuele. Più d’una volta non avevan saputo nascondere al marchese Antonio i loro timori, le loro apprensioni; ma il marchese tagliava corto e rispondeva di solito con una strapazzata: «Che ubbìe son queste! Non c’è di peggio che far di questi pensieri per portare sfortuna a uno! Si va alla guerra come si va a una festa da ballo, e allora le cose finiscono bene!... Eh! pur troppo una disgrazia in guerra può capitare a tanti.... ma non è detto per questo che la deva capitare proprio a uno! Certi pensieri, in certi momenti, non son permessi! E se vengono, si caccian via!...» Però dopo aver detto così, si abbottonava in quel modo, sino al bavero, e andava a pigliar aria come se avesse bisogno anche lui di aiutare qualche suo pensiero a uscirgli di capo più in fretta. In mezzo a questa nuova commozione degli animi che ogni giorno si faceva più viva, più generale, che riuniva tutti e governanti e governati in un solo, in un grande pensiero, chi avrebbe potuto ascoltare le ragioni di Massimo? Chi avrebbe potuto badare al povero delegato di Questura, che s’avviava miseramente alla sua lontana destinazione, e alle lacrime della sua povera famiglia che rimaneva senza conforto, senza consiglio? XIII. Tre mesi dopo ci fu la battaglia di Custoza. Le notizie che d’ora in ora venivano dal campo, dopo quella triste giornata, mutavano mano mano in certezza i timori, in lutto l’ansia di tante e tante famiglie; rompevano il fascino dell’entusiasmo e della fiducia nella fortuna, così spesso nemica di chi l’accoglie come un’amica troppo sicura. Anche il dolore ha qualche volta chi lo guarda con desiderio e con invidia. Il marchese Renica, rimasto tre giorni senza nuove di suo figlio, cupo e silenzioso, volgeva le spalle con impazienza a chi, colpito da quella grande sventura nazionale, sfogava un dolore che era il dolore di tutti. Quel dolore avrebbe voluto poterlo avere anche lui e subito; era un dolore che secretamente invidiava; ma poi, stizzito anche di questo sentimento che gli pareva meno nobile e generoso, ma che cacciato ritornava con una tetra insistenza, fuggiva i suoi di casa, fuggiva tutti, passando solo nella camera delle ore insoffribili, eterne. Una voce sinistra era stata ripetuta presto per la città sul conto di don Emanuele, ma non era giunta in casa Renica. Gli amici del marchese eran venuti più volte a domandare al portinaio della casa se c’eran notizie. Avrebber voluto salir le scale e domandarne al marchese; ma poi, dopo esser rimasti lì a pensarci su qualche minuto, se n’erano andati per la loro strada dicendo tra sè: «Se non si sa niente, è segno che non c’è niente.» Ma intanto le voci sinistre si facevano più insistenti. Si parlava d’una lettera d’un uffiziale in cui si diceva che tra i morti di quella triste giornata c’era Emanuele Renica. Don Gilberto e l’ingegnere Mevio erano subito andati in traccia di questa lettera, ma non n’eran venuti a capo, e anzi era parso loro che tutto fosse una favola. Altre voci dicevano invece che Emanuele era ferito, altre che era prigioniero, altre ch’era sano e salvo e che l’avevan veduto il giorno dopo la battaglia. Chi l’aveva veduto? Un soldato, dicevasi, del suo reggimento, capitato a Milano, il quale aveva parlato con un medico militare, dicevano alcuni, o con un uffiziale, dicevan altri, o con un signore che ora indicavano, ora non sapevano chi fosse. Gli amici del marchese si mettevano su tutte queste tracce; ma nè il medico, nè l’uffiziale, nè il signore ne sapevano nulla. Il marchese intanto ignorava tutte queste angosce de’ suoi amici, ma ne aveva una lui nel cuore ch’era più grande di tutte. Finalmente, la mattina del quarto giorno, don Gilberto con la faccia ilare, e tutto festoso, entrò nello studio del marchese Antonio, fece chiamar Giorgio, la marchesa Giulia, e gridando «buone nuove! buone nuove!» raccontò che un uffiziale di stato maggiore, col quale aveva parlato in persona poco prima, gli aveva detto di non aver sentita nessuna cattiva notizia a proposito di Emanuele, e che anzi gli era parso d’averlo veduto il giorno innanzi tra un gruppo di uffiziali; poi gli aveva nominato il villaggio sulla riva destra del Mincio dove Emanuele si trovava probabilmente in quel momento. Queste parole fecero trasalire il marchese Antonio, che con sorpresa di don Gilberto, di Giorgio e della marchesa Giulia si fece ancor più pallido e cupo di prima. «Dunque son corse delle cattive nuove!» pensò il marchese tra sè; e appena don Gilberto ebbe finito di ripetere una volta ancora tutto il racconto dell’uffiziale di stato maggiore, il marchese Antonio disse a un tratto che sarebbe partito quel giorno stesso, per andar lui a cercar di suo figlio, e per vederlo co’ proprii occhi. In queste poche parole del marchese c’era stato qualcosa di così solenne e di così triste, che nessuno aveva avuto più il coraggio di aggiunger altro, nè di rallegrarsi delle buone notizie portate da don Gilberto. Il marchese Antonio, pochi minuti prima di partire, stava riponendo in fretta alcune carte nelle cassette d’una scrivania, quando a un tratto un passo greve e sconosciuto, che sentì nella stanza vicina, gli annunziò la venuta di qualcuno. Levò gli occhi verso l’uscio bruscamente, con un piglio che esprimeva a un tempo il corruccio verso l’importuno che veniva, e l’ansia di sapere chi fosse. L’uscio si aperse: era un soldato di cavalleria. Il marchese lo fissò, lo riconobbe, balzò in piedi, fece per pronunziare una domanda, tese le braccia verso il soldato come per dirgli «parla! parla!» ma gli si offuscarono gli occhi e quasi svenne. Il soldato, ch’era l’ordinanza di don Emanuele, teneva in mano un involto e un elmo pesto e rotto. Ci fu un lungo silenzio. Il marchese era rimasto con le mani nei capelli e con gli occhi spalancati e fissi al suolo. Il soldato, nell’asciugare una lacrima col rovescio della mano, alzò timidamente lo sguardo sul padre del suo antico uffiziale, col timore in cuor suo d’aver detto troppo in una sol volta.... e non aveva detto ancor nulla! Alla vista di quel signore d’aspetto così severo, di que’ capelli bianchi, che irti e scomposti gli circondavano la testa come un’aureola del dolore; alla vista d’una desolazione così grande, che sul volto di quel vecchio pareva ancor più sacra e maestosa, il soldato, compreso di rispetto, portò la mano alla fronte, e rimase diritto e immobile nella posizione del saluto. Quando il marchese si scosse, e i suoi occhi poteron vedere, allora poterono anche piangere, e il suo primo atto fu di stringere nelle sue braccia il soldato, e di appoggiare la fronte dove forse l’aveva appoggiata suo figlio prima di morire. Enrichetta era a letto da più giorni con una febbriciattola che ormai le ripigliava ogni tratto, quando suo padre stravolto, costernato, venne a dirle, tutta in una volta, la nuova ora sicura della morte di don Emanuele. Il buon Giovanni ne era così fortemente addolorato, che in cuor suo se la prese un po’ con sua figlia per non aver potuto in tutto quel giorno strapparle di bocca una parola di dolore che facesse eco al suo. E fu lo stesso nei giorni seguenti: egli cercava tratto tratto con qualche esclamazione o con qualche parola di rimpianto di tornare col discorso sul povero don Emanuele; ma Enrichetta taceva sempre. Allora egli se ne andava indispettito, e borbottando tra sè di nuovo tutto quello che aveva pensato più d’una volta sulle stravaganze delle donne. Finchè una mattina, e fu pochi giorni dopo, Enrichetta levatasi, disse a suo padre, che si sentiva assai meglio, che le pareva proprio d’essere pressochè guarita, e che era decisa di approfittarne subito per seguire un proposito che aveva in cuor suo, quello di raggiungere senza altri indugi il marito. Si pensi come cascasse dalle nuvole Giovanni a un simile discorso. Sulle prime ci credette poco, fece le viste quasi di non badarci; ma Enrichetta insisteva e con un tono risoluto, insolito in lei. Allora prese a maravigliarsene e a gridare ch’eran pazzie; poi dalle maraviglie passò ai ragionamenti, pigliando la cosa un po’ con le buone e un po’ facendo il burbero; ma tutto fu inutile. Enrichetta era calma e risoluta; i ragionamenti, l’affanno di suo padre le davano una commozione di più, ma lasciavano ferma e intera la sua risoluzione. «Ho indugiato abbastanza!... ho mancato abbastanza al mio dovere.... al dovere di seguire mio marito fin dal primo giorno!... Che moglie son io? Se mio marito si trova tra gli stenti, tra i pericoli, il mio dovere, il mio desiderio non è quello forse di dividerli con lui?...» Queste eran le sole parole che Giovanni aveva potuto avere in risposta, e intanto vedeva ogni giorno sua figlia disporre le sue cosucce per partire davvero, e ben presto. «Partire.... partire è presto detto!» esclamò un giorno finalmente Giovanni, che aveva sperato in questa faccenda di non dire la sua ultima ragione, e di risparmiare a sua figlia, fin che l’avrebbe potuto, una cosa tanto amara. «Tu non sai che l’impieguccio del povero Massimo non sarebbe bastato a farlo vivere in questi due anni!... C’eran de’ debitucci quand’è partito.... e poi s’è dovuto spendere per mandargli quelle poche masserizie.... e s’è dovuto viver noi.... ci fu anche questa muta.... e il povero Massimo non li aveva i quattrini per andare fin laggiù.... gli hanno dato venti centesimi per chilometro! Dunque cosa s’è dovuto fare? Quel pochino del mio che avevo messo da parte.... se ne è andato quasi tutto!... Ora, per fare un viaggio di questa sorte, dove li troverai tu i denari?... perchè ce ne vuole un monte!... e io, pover uomo, vorrei averli.... ma non li ho!...» «Oh, troverò bene qualcuno che faccia la limosina a una povera donna che vuol morire vicino a suo marito!» esclamò Enrichetta con un accento così straziante che il povero Giovanni ne fu spaventato, e buttatosi nelle braccia di Mevio, ch’era capitato in quel punto, gli andava dicendo ansiosamente: «Ho fatto male a parlar così?... ma pure è la verità!... oh, aiutateci voi!... dite voi cosa deve fare questo pover uomo!» L’ingegnere Mevio, cascato in mezzo a quella scena di dolore senza esserci preparato, era rimasto lì senza parole, afflitto e imbarazzato anche lui, cercando, ma non trovandoci un rimedio. Per quella volta dovette accontentarsi di mettere assieme poche parole di conforto, che poi gli parvero, ripensandoci, le parole più scipite di questo mondo; ma stizzito giurò a se stesso di far qualcosa di meglio, e mantenne la parola. Pochi giorni dopo infatti ricomparve con la faccia contenta d’un uomo che s’è tolto un peso giù dalle spalle, e che viene a dire: «Ho trovato il bandolo!» «Insomma, cari miei,» prese a dire Mevio, «a quel che è stato non pensiamoci più. Su, fatevi animo.... mettiamoci un poco tutti di buon umore! Dovete sapere che nel pensare a quell’imbroglio che vi affliggeva tanto l’altro giorno.... a un tratto m’è proprio piovuto, come si suol dire, il cacio sui maccheroni. Un tale è venuto a portarmi una sommerella.... una certa sommerella che non credevo d’aver così presto; ed eccola qui. Ora siamo a cavallo: la signora Enrichetta potrà fare il viaggio quando le torni, potrà raggiunger suo marito, come è ben giusto.... ma non facciamo complimenti! questa volta comanda Mevio, oh per bacco!... È una sommerella sulla quale non contavo, capite! dunque me la restituirete quando vorrete. La fortuna gira: fin qui la vi è andata male, adesso vedrete che la si cambierà!... Quanto a voi, Giovanni, perchè ho pensato anche a voi, sarà meglio che restiate qui; così facciam le cose una per volta. Il viaggio costa caro.... e poi, cosa fareste laggiù?... Nell’amministrazione del marchese c’è un lavoro straordinario da fare, come vedrete a suo tempo, e si è pensato che voi sareste proprio l’uomo fatto apposta! Sicuro!... Al marchese ne ho già parlato, e lui ne è contentone....» «Dite davvero?» «Datemi la mano! Dite di sì, e la cosa è fatta!» «Eh!... il marchese!... è un uomo fine quel marchese!» osservò Giovanni. «Si vede che sa conoscere gli uomini, perchè....» «Buon Mevio! Oh quante buone azioni lei fa in una volta!... se sapesse!... mi perdoni s’io non ho parole....» andava dicendo Enrichetta. «Cerimonie! cerimonie! Cosa dice mai, signora Enrichetta!» «Perchè» continuava Giovanni «convengo anch’io che nell’amministrazione del marchese un uomo, come direbbero, del mio stampo è necessario! Perchè, scusate, Mevio, ma nello studio del marchese ho veduto dei registri con certe intestature, in una certa calligrafia che.... diciamolo, non è al livello della casa!... Mentre io.... vedrete! conservo ancora alla mia età un _gotico_ col quale sfido qualsiasi giovane!...» E di questo tenore chiacchierarono per un pezzo. La sommerella offerta da Mevio fu accettata, e nessuno andò a cercare come l’avesse avuta. Enrichetta, aiutata da Mevio, fece il piano del suo viaggio; Giovanni fece quello della sua permanenza, e trovò un’idea, quella di mettersi a dozzina dal suo amico Ambrogio. Alla fine Mevio se ne andò, le mille volte benedetto, tra i sorrisi, i ringraziamenti e gli augurii che si scambiarono a vicenda. Un po’ di consolazione era così ricomparsa nella casa d’Enrichetta. Era ricomparsa per rimanervi?... Fissato il giorno della partenza, Enrichetta scrisse a Massimo, e principiò a dar assetto alle cosucce che avrebbe portate con sè e a quelle che lasciava a suo padre. Si sarebbe detto che non avesse più altri pensieri; si sarebbe detto che la natura le avesse dato una forza che non aveva avuto mai. Non c’era più traccia di quel languore che pochi giorni prima pareva la consumasse: c’era in lei una vigoria, un ardore, un impeto di volontà affatto perduti da un pezzo, e che nel riaccendere i colori spenti del suo viso le davano l’espressione d’una nuova beltà. Suo padre si congratulava in cuor suo d’una guarigione venuta così a tempo; non aveva più timori per il viaggio, e nel vedere la sua figliola affaccendarsi a quel modo, e far tutto di così buona voglia, trovava altrettanti argomenti per quietare l’animo suo e per rassegnarsi a quella separazione. Il bambino d’Enrichetta, che oramai aveva quattr’anni, sapendo di dover partire anche lui, per non perder di vista la mamma a buon conto le trotterellava dietro fin d’ora, a ogni passo, nell’andare e venire ch’ella faceva per le stanze da mattina a sera. In capo a una settimana Enrichetta fu pronta a partire. Aveva disposte con previdenza amorosa tutte le cosucce che potevano abbisognare a suo padre, e messo in bauli e casse quel tanto che poteva portare con sè per rendere meno grave il piantar casa nella sua nuova dimora. A queste cure, a queste fatiche non aveva dato altro riposo che la notte, e allora la stanchezza veniva a chiuderle benefica gli occhi. Qualche povero avanzo delle mussole e delle trine che una volta eran passate maestosamente dinanzi alla folla degli ammiratori in una festa, e che ora giacevano sciupate, dimenticate tra le cianfrusaglie d’un cassettone, nel ricomparire avevano evocato d’improvviso qualche rapido richiamo.... richiamo che Enrichetta aveva subito cacciato, soffocato, togliendo gli occhi da quei poveri cenci, e ritornando dov’era più affaccendato il tramestìo della casa. Una voce secreta guidava Enrichetta in ogni atto, in ogni parola, sebbene a lei paresse di non aver più in mente che un solo pensiero, quello di partire, e nel cuore un solo dolore, quello di lasciar suo padre. Quella voce secreta le ripeteva di fuggir lontano; le diceva che sotto altro cielo avrebbe cominciata una vita nuova, più tranquilla e forse più felice; le diceva pure che là avrebbe potuto anche rivolgere alle rimembranze del passato un mesto pensiero, perchè là, e non altrove, quel pensiero sarebbe stato un pensiero d’addio! Enrichetta ubbidiva a quella voce; ma l’ultimo giorno, la vigilia della partenza, le poche sue forze non la sorreggevano più. Non le rimaneva che qualche ultima faccenduola, e tra l’una e l’altra metteva de’ lunghi intervalli, lasciandosi cadere su una poltrona, e cercando d’esser lasciata sola nella sua camera. Nel riandare col pensiero a una a una le cose fatte in quei giorni, si ricordò d’uno stipetto in cui doveva aver riposto qualcosa di cui s’era dimenticata. Si rizzò lentamente, cercò lo stipetto, l’apri, ci trovò alcune lettere di qualche amica, poi degl’inviti, qualche cianfrusaglia, e un involto piegato con cura e legato da un nastrino di seta. Nello spiegare l’involto si ricordò di ciò che ci aveva riposto: era una rosa di nastro turchino da cui scendevano due lunghi capi di seta. Enrichetta prese quella rosa e quei nastri, e ricadendo nella poltrona, li pose sulle ginocchia, e stette a guardarli lungamente. Le sue pallide guance si riaccesero a un tratto.... Quali pensieri le irradiavano la fronte, e la rendevano in quel momento bella come una volta? La sua mente errava come in una visione; le pareva di udire la piccola orchestra che in un angolo della sala del marchese accompagnava le ultime danze d’una festa; la festa s’era diradata; sul viso dei rimasti cominciava a scendere come un velo il pallore della fatica; eppure ognuno raddoppiava le sue forze; le danze continuavano meno ordinate ma più gaie, e pareva nata in tutti un’intimità maggiore dell’usato. Un ballerino provetto dirigeva con gravità le figure d’un _cotillon_, sviluppando in cento modi il tèma della dama che sceglie un nuovo cavaliere, e del cavaliere che cerca una nuova dama; il cavaliere prescelto, prima d’aver in premio un giro di valzer, veniva decorato dalla dama con un fiore alla bottoniera; i cavalieri poi, nel cercare la dama, le presentavano una rosa di seta, da cui scendevano due lunghissimi nastri; e se la dama accoglieva il cavaliere, questi le appuntava la rosa alla spalla su quel pochino di manica concesso dall’abito scollato. Ecco venire con la rosa dai nastri don Emanuele, il cavaliere più elegante e desiderato della festa. Più d’una desidera in cuor suo d’esser prescelta.... e don Emanuele corre a offrir la rosa ad Enrichetta, e gliel’appunta con lo spillo; le passa il braccio intorno alla vita, la stringe a sè, e parte girando più volte la sala vorticosamente con lei. «Lasci appuntato quel nastro.... non me lo renda.... lo tenga in mia memoria....» le aveva susurrato don Emanuele, mentre i nastri svolazzando s’eran loro attortigliati dintorno e li avevano stretti in un nodo. Nella musica stessa della danza c’era qualcosa che trascinava, che seduceva; e ora quelle note ritornavano tutte nella fantasia d’Enrichetta, e le ridestavano a una a una le memorie di quella festa.... il bagliore de’ lumi, l’eleganza delle sale, lo sfarzo delle amiche, la ressa degli ammiratori, le parole adulatrici, le danze, don Emanuele, il nastro.... quel nastro, che ora aveva dinanzi, che teneva nelle sue mani, e che era proprio quello che le aveva appuntato don Emanuele. «Lo tenga in mia memoria....» ripensò Enrichetta dopo aver passata la mano sulla fronte come chi si risveglia e cerca discernere dove finisca il sogno e dove ricomincino le realtà della vita. «Egli non c’è più!... Lo posso tenere questo nastro.... portarlo meco.... è una memoria... d’uno che non è più.... oh! sì, lo porterò meco...» E rizzatasi stava per riporre la rosa e i nastri in una cassettina da viaggio, quando udì i passi di qualcuno che veniva. Levò gli occhi, vide uno aprir l’uscio, e riconobbe il marchese Renica. Quanto era mutato! Era quella la prima volta che il marchese Antonio usciva di casa dopo il giorno che abbiam veduto comparirgli nello studio l’ordinanza di suo figlio. Nessuno de’ suoi amici aveva potuto nè parlargli, nè soltanto vederlo: aveva però fatto chiamare l’ingegnere Mevio e gli aveva domandalo della signora Della Valle. L’ingegnere Mevio gli aveva parlato delle angosce d’Enrichetta e della sua decisione di partire. In que’ giorni tutto era venuto in uggia al marchese, tutto gli era insoffribile, fin la presenza d’un amico; ma quando gli balenò in mente il pensiero di salutare la signora Della Valle, di rivederla, sentì che il respiro gli si faceva più largo, e che gli scendeva nel cuore un primo sollievo. Il cuore gli aveva detto in quel momento che Enrichetta sola, e non altri, avrebbe capito il suo dolore. Ma che sarebbe egli andato a dire alla signora Della Valle?... Questo pensiero gli aveva suscitato nell’anima mille dubbi, lo aveva tormentato, combattuto; ma poi non aveva esitato più, ed Enrichetta se l’era veduto comparire dinanzi. Enrichetta, a quella vista improvvisa, sentì una fitta al cuore come il giorno in cui suo padre era venuto a dirle la morte di don Emanuele. Si appoggiò a una sedia con la mano prima di poter movere un passo verso il marchese; ma quando si mosse, le fu più difficile ancora il non gettarsi nelle sue braccia. Il marchese Antonio le stese la mano, Enrichetta la strinse; nè l’uno nè l’altra poteron fissarsi negli occhi; nessuno dei due potè pronunziare una parola. Ma che rimaneva loro a dire?... In quel punto udirono nella stanza vicina i passi di qualcuno che s’avvicinava. Il marchese strinse ancora una volta, e più fortemente, la mano d’Enrichetta, e fece atto di partire; ma Enrichetta con un gesto leggero della mano lo trattenne.... Alzò gli occhi, quasi domandasse al cielo una buona ispirazione; poi con un atto deciso e rapido andò a riaprire la sua cassettina da viaggio, ne levò la rosa coi nastri, e senza dir parola la consegnò al marchese. Il marchese s’accorse di ricevere un deposito, che da quel punto diventava cosa sua e sacra per lui; strinse una volta ancora la mano d’Enrichetta con l’espressione non solo del dolore, ma con quella dell’affetto, e nascose la commozione che oramai era più forte di lui, uscendo o piuttosto fuggendo rapidamente di lì. In quel mentre entrava da un altr’uscio Giovanni, che veniva con una cera complimentosa per riverire il marchese. Non è a dire come rimanesse lì mortificato e goffo vedendo, dopo aver guardato due o tre volte all’ingiro, che il marchese non c’era più! Maledì in cuor suo quei pochi minuti che aveva creduto di impiegar così bene nel mutar l’abito e metter in sesto la cravatta, e che l’avevan tradito; poi, in tono piuttosto brusco, si rivolse a sua figlia. Enrichetta in un angolo della camera pareva tutta occupata da qualcuna delle solite faccenduole; suo padre le fece in un fiato cinque o sei domande, e stette ad aspettar la risposta. Dopo aver asciugate in secreto due grosse lacrime, Enrichetta sentì scendere a un tratto nel suo cuore la pace serena d’una volta. Da quanto tempo non l’aveva più riavuta!... Com’era soave e benefica! Enrichetta rispose a tutte le domande di suo padre, gli rispose mettendogli le braccia al collo, e col suo bel sorriso, quello che da un pezzo nessuno le aveva più veduto. Il suo cuore le aveva detto finalmente che il passato era finito davvero, e ch’era principiato l’avvenire. Il buon Giovanni, che, tutto considerato, ne capiva sempre meno, dopo una crollatina di capo riprese anche questa volta i suoi soliloqui sul tèma difficile del capire le donne. XIV. Partita Enrichetta col suo bambino, Giovanni cominciò a poco a poco ad assuefarsi al nuovo tenore di vita e alle nuove occupazioni che gli aveva procurate Mevio. Passava le giornate intere nelle stanze dell’amministrazione del marchese, ora chiacchierando con qualcuno, ora attendendo a qualche lavoruccio che gli aveva affidato Mevio, o facendo intestature nuove ai registri «con una mano di scritto che finalmente» come diceva lui «era al livello del casato.» A casa sua poi, cioè in casa d’Ambrogio che ben di cuore se l’era pigliato a dozzina, si svagava un po’ con delle lunghe chiacchierate, confidando all’amico tutto il da fare che gli dava l’amministrazione del patrimonio del marchese, tutti i guai che ci aveva veduti, e tutto quello che farebbe lui se fosse solo a comandare. Non è a dire però che non avesse la sua spina secreta nel cuore. Cercava bene di cacciare i fastidi e i pensieri malinconici un po’ con le chiacchiere e un po’ con le intestature; ma i fastidi rimanevano, e i pensieri malinconici ritornavano, come fanno sempre, e per non far torto neanche a Giovanni. «Cosa sarebbe successo?... Come la sarebbe andata?... Ed Enrichetta!... Poverina!....» pensava ogni tanto tra sè. «È partita, è vero, con la faccia che pareva contenta.... diceva di star bene.... ma se fosse stato tutto uno sforzo per non affliggermi!... E il viaggio.... e il clima nuovo per lei non le risveglieranno quella febbre che ha avuta per tanto tempo?... Quella febbre!... quella febbre!... E poi, a pensarci, intanto che diceva di partire così di buono umore, non la finiva più di salutar tutti e tutto, fin le pareti delle stanze, fino i mobili, e in un certo modo!... Poi quando fu alla stazione e si voltò a guardare il Duomo.... capisco che anch’io quando vedo il Duomo.... ma però lo saluterei con una faccia tutta diversa!» Anche la prima lettera che gli arrivò, per quanto egli dicesse ad Ambrogio che le notizie eran bonissime e che tutto andava benone, non era fatta per mettergli in testa un altro ordine di pensieri. Dopo il viaggio la febbre era ricomparsa, poi era cessata; ma Enrichetta, per prudenza s’intende, non si levava ancora dal letto, e faceva scrivere la lettera da Massimo. La lettera finiva, è vero, con molte parole di speranza nell’avvenire; ma a trovarci ancora in simili parole un argomento di consolazione bisognava davvero metterci una gran buona volontà. Giovanni ce ne metteva, ma poi mentre si avviava in cerca di consolazioni si accorgeva a un tratto d’aver fatto, senza volerlo, una strada ben lunga per la china dei cattivi pensieri. Allora scotendosi, se la pigliava col suo cattivo naturale, e cercava di svagarsi ripigliando il filo delle chiacchiere con Ambrogio, o i ghirigori d’una calligrafia più studiata. Di lettere sul fare della prima ne capitaron parecchie; e ogni volta Giovanni ci si metteva proprio di cuore per farsele parer buone, ma ogni volta trovava un argomento di meno. Con chi poi ne lo interrogava, mutava discorso volentieri, perchè capiva che le parole lo servivano male in questo argomento, e temeva di far nascere in chi lo ascoltava alcuno di que’ dubbi che gli erano già molesti abbastanza. A questo modo passò un buon mese, e mentre cominciava a dire in cuor suo: «Eh!... chi sa? dopo la pioggia viene il bel tempo.... e dopo un mese cattivo ne potrebbe venir uno buono!» a un tratto non ricevette più nuove di sorta. Eravamo ai primi di settembre, in quei giorni in cui le masnade della reazione avevano assalito Palermo e desolate le terre vicine. Le notizie scarse, confuse, che venivano mano mano, riempivano gli animi di trepidazione e di orrore. Si pensi come fosse in croce il povero Giovanni! E per di più tutti lo fermavano per strada, lo interrogavano, volevano le notizie: c’era fino chi le pretendeva, perchè avendo egli i suoi in Sicilia, ne doveva venire di conseguenza ch’egli sapesse tutto quello che vi succedeva. E il povero Giovanni, che vedeva passare i giorni e le settimane senza che gli arrivasse qualche notizia, non reggeva più a questo doppio tormento; e dopo essersene confidato con Mevio, non mise piede più neanche nello studio del marchese per non veder anima viva, e per non dover confessare con qualcuno di non sapere più nulla nè di sua figlia nè di suo genero. Queste benedette notizie non arrivarono che dopo alcune settimane, e non furon proprio di quelle fatte per dar ragione al proverbio che dice: nessuna nuova, buona nuova. Giovanni ebbe finalmente, e in una sol volta, quattro lettere, due vecchie e due di data recente. Cos’era successo in tutto quel tempo? Cosa c’era in quelle quattro lettere? Per saperlo, la più spiccia è dir quattro parole sul conto d’Enrichetta, e raccontare in breve le vicende che capitarono al povero Massimo, intanto che suo socero aspettava le lettere, e mentalmente lo strapazzava di santa ragione. Enrichetta aveva presto sentito scendere nel suo cuore ciò che aveva tanto sperato, la pace. Il suo cuore aveva battuto fortemente una volta ancora quando imbarcatasi aveva veduto un primo lembo di mare dividerla dalla spiaggia, e il lembo farsi grande, e la spiaggia farsi lontana. Poi da quella spiaggia aveva veduto dipartirsi, come una lunga striscia, la strada da lei poco prima percorsa, la strada che conduceva alla sua città natale, alla sua casa.... e intanto che col pensiero la rifaceva, il suo cuore aveva sentito ancora il tremito angoscioso d’una volta. Ma in breve la spiaggia e le colline che le facevano corona non furono più che linee vaghe, sfumate, a cui mano mano succedeva uno spettacolo più grande, quello del cielo e del mare che si riunivano in una placida e maestosa armonia. Allora nel cuore d’Enrichetta quell’ultimo eco del passato prese a farsi lontano, lontano, e presto si perdette nella contemplazione d’un avvenire pieno di speranze e di pace. Quando Massimo si trovò nelle sue braccia Enrichetta e in collo il suo bambino, quanti affetti in una volta gli contesero il cuore come se tutti lo volessero tutto per sè! Gli parve come d’essere tornato proprio sotto il suo vecchio cielo, nella sua casa di Milano; gli parve di non essersene allontanato mai. Egli avrebbe giurato che quel giorno non era che un domani felice de’ suoi più bei giorni del passato! E le sue disgrazie? e la memoria affannosa che ne aveva portato in quel lontano soggiorno? tutto gli pareva scomparso in quel momento. Era tornato accanto alla sua famigliola, e le fatiche del viaggio le aveva lasciate sulla soglia. Enrichetta trovò tutto quello che la speranza gli aveva promesso. Ebbe l’affetto di suo marito come lo voleva il suo cuore; quell’affetto che sa trovare ogni giorno una premura, una buona parola, un atto cortese, un nulla, quei nulla che sono per certe anime lo scudo che le fa uscir vittoriose dalla battaglia della vita. Con questo scudo Enrichetta potè riandare le memorie del passato; tutte le potè riandare! E ripensando alle inezie lusinghiere, ai sogni della vanità che le furono così fatali; ripensando alle seduzioni d’un giorno, alle debolezze del cuore, prendeva coraggio nel sopportare le presenti difficoltà della vita, e le guardava con animo rassegnato e sereno, poichè, se aveva avuto in passato il suo tanto di colpa, vedeva in esse il suo tanto di espiazione. Questa nuova pace era un benefico ristoro dell’anima; ma veniva essa in tempo per ridonare a Enrichetta le forze battute e corrose da tante disgrazie? La febbre e il languore che nei primi giorni del suo arrivo le avevano dato un poco di sosta, ricomparvero presto e più gravemente di prima. «Oh perchè tornate? perchè!» aveva detto Enrichetta affannosamente a se stessa, sentendo di nuovo quei brividi di febbre che le erano così noti. «Ma adesso sono contenta!... adesso devo star bene! non devo più ammalarmi! oh no, non voglio esser malata!» E fin che lo potè, cercò ingannare se stessa e suo marito; ma fu uno di quegli inganni che duran poco, e che rendono poi la confessione più amara. Era un paesuccio povero e fuor di mano quello ch’era toccato a Massimo di residenza. Ci si teneva in allora un impiegato di Questura, ma per eccezione, e precisamente perchè, in grazia di certi provvedimenti straordinari per la sicurezza della provincia, ne avevano fatto un punto strategico. Per chiamare il medico bisognava far molte miglia, e così per avere le medicine e tutto quello che poteva abbisognare, non solo per un malato, ma per chiunque non fosse uno di que’ poveri abitanti del luogo. La strada poi non era nè la più comoda, nè la più sicura. Enrichetta non domandava nulla, non si lagnava di nulla, ma il povero Massimo si struggeva e quando la sua buona volontà e le sue premure tornavano inutili, si lasciava cascar le braccia scoraggito; e ora levava gli occhi al cielo, ora fissava qualche punto lontano, pensando a quelli che vivevano là, e invidiandoli, perchè gli pareva che là ci sarebbe stato tutto il bisognevole, e che là la sua Enrichetta avrebbe potuto risanare. Siccome poi le disgrazie, quando hanno preso uno a perseguitare, le molte volte non lo lasciano che quando di burrone in burrone l’hanno tirato giù fin al fondo del precipizio; così al povero Massimo, che pure era disceso ben bene, ne capitò presto una nuova a dargli l’ultimo tracollo. Un ordine improvviso gli ingiunse di portarsi immediatamente in una vicina borgata, dove si temevano de’ disordini, sul far di quelli che succedevano in que’ giorni a Palermo, e dove si riunivano a buon conto le poche forze dei paeselli all’ingiro. Massimo dovette ubbidire sull’attimo: ebbe appena il tempo di raccomandare sua moglie a un buon uomo, il sindaco del paese, di far la valigia, e di raccapezzare ancora una speranza, quella di tornar presto. Appena giunto in questa tale borgata, un suo superiore, con la faccia poco rassicurata e meno rassicurante, gli spiegò di che si trattava; gli diede cioè una sequela di cattive notizie, e l’ordine di tenersi pronto giorno e notte per mostrarsi poi a un bisogno conciliante e severo, energico e longanime. Due giorni dopo, mentre stava leggendo alcune righe che gli aveva mandate quel tal sindaco per dargli le nuove d’Enrichetta, nuove poco buone che dicevano e non dicevano, e gli lasciavano la testa piena di dubbi e d’angustie, vennero a un tratto a chiamarlo in tutta fretta. Per le strade, nelle piazze, si vedevano de’ capannelli, e c’era gente che andava in giro col fare torbido e minaccioso. Massimo passò la mano sulla fronte come per mettere in sesto la sua povera testa; poi levò in fretta la sua ciarpa da un cassetto, se l’aggiustò ad armacollo sotto l’abito mentre scendeva le scale, e prese la corsa finchè giunse mezzo rifinito allo sbocco d’una strada, dove un drappello di carabinieri e di soldati tratteneva a fatica un’accozzaglia di gente che schiamazzava, e cercava di irrompere, mandando grida minacciose. Gli parve in quel punto di trovarsi ancora dinanzi a una certa folla di malaugurata memoria, quella tale che egli aveva cercato di persuader con le buone, e che intanto s’era raddoppiata, aveva saccheggiato un uffizio, e cagionati quei malanni di cui egli aveva pagata la sua parte di spese, buscandosi una ramanzina e una muta. Massimo ordinò al tamburino di dare il segnale, e fece la sua prima intimazione: la folla gli rispose con una salva di fischi e di complimenti d’occasione. Fece la seconda intimazione, e questa volta con la voce alterata d’un uomo a cui la testa comincia ad annebbiarsi e il sangue a bollire: fece la terza, e la risposta fu una tempesta di ciottoli. Ordinò la carica. Si pensi che parapiglia, che gridare, che scappar generale!... Ma nel trambusto ci fu chi tirò qualche colpo di pistola, a cui i soldati risposero con qualche colpo di fucile. Dopo pochi minuti tutto era sgombro e silenzioso, ma giacevano per terra alcuni feriti: tra questi c’era un brav’uomo, anzi uno dei notabili del paese, che passando a caso era stato travolto dalla folla proprio nel momento delle botte e, come succede, ne aveva pigliata una lui. Il poveretto moriva il giorno dopo. Quel che ne nascesse è facile pensarlo. Finita la burrasca, passata la paura, cominciarono con calore i commenti e i giudizi sull’accaduto. Il fatto era grave; e la colpa di chi era? Pigliarsela co’ capi del tafferuglio era un rimestare di nuovo nelle passioni, era un far torto al buon nome del paese; pigliarsela col prefetto della provincia, col capo della Questura, coi soldati, eran cose in cui parecchi ci vedevano un tantino d’imprudenza; pigliarsela col delegato Della Valle era un affare meno complicato e che poteva aggiustar le ova nel paniere. Bisogna dire che la pensassero proprio così, perchè a un tratto il povero Massimo diventò, sulle bocche di tutti, l’uomo feroce e sitibondo di sangue, l’autore unico ed esecrato di ciò che chiamavano chi l’assassinio, chi la strage, e chi i _vespri_ governativi. Il superiore, che aveva bisogno di tirarsi d’impaccio anche lui, per prima cosa non volle sentir scuse: ricordò al signor Della Valle che nelle istruzioni che gli aveva date, c’era la moderazione e la longanimità, e lo rimandò nel villaggio dov’era prima; poi fece il suo rapporto al prefetto. Massimo tornò al capezzale d’Enrichetta, le narrò a poco a poco una parte dell’accaduto, e tenne per sè ciò che lo angosciava di più. Non le parlò delle voci accusatrici che si erano levate da ogni parte contro di lui, e che ora gli tornavano ogni tratto all’orecchio, lo seguivano, l’opprimevano. «Ma son dunque un colpevole io?» esclamava qualche volta da solo. «Non ci sarà nessuno che prenderà le mie difese? Nessuno che mi ascolterà?... Ma io sono un onest’uomo? Sono innocente io!...» E quando gli uscivano questi lamenti, questi gridi dell’anima, durava poi non poca fatica a richiamare la testa a casa perchè non gli desse di volta, e a ricomporsi per tornare nella camera d’Enrichetta e parere quello di prima. In que’ giorni aveva scritto due lettere a suo socero, ed erano le due di data più recente delle quattro che gli abbiam vedute capitare. In queste ultime Massimo raccontava a Giovanni i fatti com’erano avvenuti; lo supplicava di far conoscere la verità, di difenderlo contro le accuse che sarebbero arrivate fino a Milano, fino al suo paese, e di trovare qualche anima compassionevole ed amica che dicesse in alto una buona parola per lui. «Oh! poveri noi! anche questa!» si mise ad esclamare Giovanni nella sua camera, com’ebbe lette le lettere. «Adesso chi sa che roba di fuoco diranno di noi i giornali! Mi ricordo dell’altra volta!... Ma quel benedetto figliolo! cosa gli è venuto in mente di pigliarsela così calda!... Io, a’ miei tempi, quand’ero nella guardia nazionale, un po’ con le buone, un po’ con quattro scappellotti, ma sempre nella legalità, li sapevo ben io mandar a casa questi tali che, si sa, di tanto in tanto hanno bisogno di vociare e di fare schiamazzo! È sempre stato impetuoso quel Massimo!... sempre impetuoso!...» Ma qui gli veniva in mente quell’altro guaio capitatogli per essere stato troppo paziente, e dopo una pausa conchiudeva: «Proprio come quello che menava l’asino al mercato!... Ma intanto» continuava dopo averci pensato su ancora «intanto cosa si fa?... Qualcosa bisognerà fare, perchè chi sa dove lo mandano questa volta?... Più in giù non è possibile.... dunque!... Eh! bisognerà moversi subito, non perder tempo, trovare qualche buon santo.... Ma chi trovare!... Andrò da Mevio!» E contento della buona idea che gli era venuta, pigliò il cappello e la mazza, e andò diviato dall’amico. Giovanni trovò in compagnia dell’ingegnere Mevio uno che vedeva per la prima volta, e che ad occhio gli parve un campagnolo. Come l’ebbe squadrato, fece capire a Mevio con una smorfia che aveva qualcosa a dirgli da solo a solo; poi principiò a discorrere con un certo fare disinvolto che contrastava non poco con la faccia stralunata con cui era entrato nella stanza poco prima. «Oh! a proposito!... «saltò su Mevio interrompendo il discorso e additando Giovanni al campagnolo. «Ecco il socero di Massimo: le notizie ve le potrà dar lui. E questo brav’uomo» continuò presentando Martino a Giovanni «è un parente di vostro genero, uno di Castelrenico, che appunto era venuto a domandarmi nuove di Massimo e di sua moglie....» «Precisamente!...» prese a dire Martino. «E intanto sono ben contento di questa congiuntura che mi fa fare la conoscenza del signor socero dell’avvocato..... voglio dire.... come si chiama quell’impiego?... e se avesse qualche notizia la sentirò proprio con tanto piacere, perchè mi dicono che il nostro Massimo l’abbian mandato in un così brutto paesuccio....» «Cioè, brutto.... un paese piccolo!» saltò su Giovanni «un paese, se volete, un poco lontano....» «E che dopo essere stato a Milano....» «Ecco! precisamente! Vedo che siete un uomo che capisce! Milano è un gran Milano! ne convenite anche voi, eh? Ma non ce n’è che un solo! è l’unico suo difetto!» «Le notizie però son buone?... Oh! questo mi allarga il fiato!...» riprese Martino. «Soddisfacenti.... soddisfacenti» saltò su, interrompendolo, Giovanni, con un fare tra l’imbarazzato e l’infastidito. «Perchè m’avevan detto» continuò l’altro «che la moglie del nostro Massimo, voglio dire la sua signora figlia, fosse un poco ammalata.... o per dir meglio, paresse che in questi ultimi tempi....» «Cioè.... cioè....» fece per rispondere Giovanni, ma intanto s’era voltato da una parte, aveva pigliato in mano un libro e levato il fazzoletto di tasca, cercando di interrompere il discorso e di sviare la commozione. «Ma.... ecco,» continuò Martino: «casa mia è una casa alla buona, ma c’è posto che ne avanza; l’aria poi di Castelrenico è numero uno! e, se qualche soldato dei nostri piglia le febbri, non ha che a tornare in paese e ne guarisce subito. Insomma quello che vorrei dir io è che.... ma proprio senza complimenti, che se la sua signora figlia volesse prendere una boccata d’aria buona.... la mi farebbe davvero un piacerone.... l’avrei proprio per un onor grande.... Ecco cosa volevo dire!» Giovanni strinse la mano a Martino, fece per rispondegli qualche ringraziamento, ma non potè. Non potè, perchè i cattivi pensieri ch’egli soleva cacciare a uno a uno, mano mano che si presentavano, ritornavano poi a dargli l’assalto tutti in una volta se faceva tanto di lasciar penetrare nell’animo un poco di commozione; e allora rimaneva lì prostrato e senza difesa. Martino però non s’accorse di tutto questo. Poco dopo salutò cordialmente Mevio e Giovanni; e con un «dunque siamo intesi» se ne andò! Giovanni, rimasto solo con Mevio, levò di tasca le lettere, gliele diede, ed ebbe appena fiato di dire: «Leggete!». Intanto che Mevio leggeva, Giovanni gli guardava negli occhi con la speranza di vederci il riflesso di qualcosa che fosse meno triste di ciò che aveva lui nel cuore in quel momento. Era come la sua ultima speranza; ma la faccia di Mevio, mano mano che i suoi occhi scendevano giù fino a pie’ di pagina, perdeva a uno a uno i tratti della sua giovialità. Giovanni seguitava a fissarlo, e Mevio prendeva sempre più un’espressione severa, una certa espressione che destò a un tratto un ricordo a Giovanni, e gli fece pensare: «È la faccia di quando arrivò la notizia ch’era morto don Emanuele!» Questo pensiero appannò gli occhi del povero Giovanni che, lasciatosi cadere su una sedia, rimase col capo tra le mani finchè Mevio ebbe finito di leggere tutte e quattro le lettere. «È un piovere sul bagnato!... questo è il guaio maggiore!» disse Mevio nel ripiegare le lettere. «Avevo già veduto qualcosa nei giornali....» «Nei giornali? Allora siamo fritti!» esclamò Giovanni rizzandosi in piedi. «Povero Massimo!... e cosa dicono i giornali?... no, no, non ditemelo per carità!» «Abbiate pazienza! I giornali raccontano il fatto; raccontano che un delegato di Questura.... ma finora il nome di Massimo non è venuto fuori.» «Ci verrà! oh! ci verrà! Quando tutti dicevano che il nostro Massimo era un gran brav’uomo, allora i giornali non dicevano niente! Ma adesso sentirete! Oh! poveri noi!» «Calmatevi, caro Giovanni; capisco, la cosa può esser seria.... però....» «Però?» «Insomma uno, quando sa di non aver nulla sulla coscienza, può domandare che si faccia.... non saprei.... un processo, e allora la verità a poco a poco viene a galla....» «Ma intanto? L’avete detto anche voi che è un piovere sul bagnato! e questa è una gran parola, sapete! Se ci fosse ancora qualche paese più lontano, me lo vedrei già rotolato giù chi sa fin dove... e direi, pazienza! Ma il paese più lontano non c’è, e questa volta me lo rimandano a casa.... a casa diritto diritto: mi par già di vederlo!» «È un guaio anche per voi e per Massimo che al marchese sia capitata quella gran disgrazia!... Se fosse stato qui, le portavo a lui queste lettere subito, e scommetto che non vi lasciava in asso; vi avrebbe dato qualche buon parere, vi avrebbe forse diretto o raccomandato a qualcuno. E una parola d’un uomo come il marchese, che ha in alto amici a bizzeffe, e a cui fan di cappello tutti le poche volte che si lascia vedere, una sua parola detta a tempo avrebbe forse potuto far sospendere qualche giudizio precipitato. Perchè il pericolo sta qui! Cansato questo pericolo, uno allora può far sentire le sue ragioni, e le cose a poco a poco si aggiustano. Ma bisognerebbe non perder tempo, e il marchese, voi lo sapete, non è a Milano. Se fosse a Castelrenico, meno male, ci farei una corsa e per domattina vi saprei dire qualche cosa. Ma, pover uomo! parenti, amici, seccatori d’ogni risma avrebbero voluto soffocarlo di condoglianze, non foss’altro per essere in regola con l’etichetta; e lui invece non voleva veder nessuno. Così, per paura che non lo lasciassero tranquillo neanche a Castelrenico, se ne è andato in quel suo podere di Piemonte, dove è più sicuro di non veder gente.... Ma ehi! Giovanni! cosa fate? per Bacco, non lasciatevi andar d’animo a quel modo!... insomma.... gli scriverò.... se volete ci vado in persona e mi faccio fare una brava lettera per qualche pesce grosso.... Ehi! Giovanni! datemi ascolto!... un giorno più, un giorno meno.... non vorrà essere proprio oggi o domani che sentenzieranno sul conto di Massimo.... eh! avranno tutt’altro per il capo, caro mio, in questi giorni, con quel po’ po’ di trambusto!... Ma insomma, Giovanni, non mi date retta?... Mi par quasi di non esser più il vostro Mevio!» Il povero Giovanni s’era di nuovo lasciato cadere sulla sedia, nascondendo la faccia tra le mani; non ascoltava più le parole del suo amico e pareva assorto da un dolore più forte di prima. Mevio cercò di confortarlo in ogni maniera, ma per un pezzo non gli riuscì di fargli aprir bocca. «Se la matassa s’è ingarbugliata, vedrete che troveremo ancora il bandolo,» seguitava a dire Mevio. «Pericoli, quanto all’impiego, non ce ne saranno. E poi.... e poi, se anche lo sbalzassero dall’uffizio, a un altro impiego, ve lo prometto, ci penso io. Penseremo a qualche impiego d’altro genere.... per esempio....» «Oh! cosa mi parlate mai dell’impiego!» esclamò finalmente il povero Giovanni.... «Che l’impiego se ne vada!... che è ormai l’ultimo de’ miei pensieri! Non è all’impiego che penso io! non è il pensier dell’impiego che mi sta sul cuore!... che mi toglie il respiro in questo momento!... È alla mia Enrichetta che io penso!... è alla mia Enrichetta!... Le avete lette bene quelle lettere! Non vi pare?... E se non vi pare, è perchè.... Ditemi un poco, sapete voi cosa sono i presentimenti?... Ebbene, ne ho uno io!... uno ben triste!...» E non potè finire perchè diede in uno scoppio di pianto, mentre rizzatosi in piedi si gettava nelle braccia dell’amico. Quanto all’impiego rimedi non ce n’era più. Tra i mezzi d’acquietare gli animi in quel paese dov’era successo il tafferuglio, c’era stata in quei giorni anche la destituzione dall’impiego del delegato Massimo Della Valle. XV. Sul finire di quello stesso mese di settembre in cui erano succeduti gli ultimi avvenimenti del nostro racconto, un uomo vestito a bruno usciva una mattina da una delle porte di Milano, e preso uno de’ viali che fiancheggiano la strada maestra, continuava il suo cammino lentamente, misurando il passo coi passi d’un bambino, vestito a bruno anch’esso, che conduceva per mano. Per arrivare a quella porta aveva dovuto fare tre o quattro lunghe strade, e le aveva fatte d’un passo meno lento, e col fare d’uno a cui dànno noia la gente, le case, i rumori della città; d’uno che cerca la solitudine e l’orizzonte spazioso e quieto. Il bambino che lo seguiva aveva dovuto percorrere quel tratto quasi tutto di corsa e saltellando; e quel passeggio a gambe levate gli era stato argomento d’una allegria che faceva non poco contrasto con l’aria malinconica di chi lo conduceva. Chi passava dava a costui alla sfuggita un’occhiata compassionevole, ed una più compassionevole ancora a quel vispo bambino, che nel primo mattino della vita portava già il vestito della sventura e del lutto. «Povero bambino!» dicevano mestamente in cuor loro «ha perduta la sua mamma!» e avrebbero voluto saper chi fosse, fargli una carezza, dargli un bacio in luogo della mamma che non gliene avrebbe dati più. Uno poi, che aveva fatto atto di fermarsi, e s’era voltato a guardare il bambino e l’aveva seguito con gli occhi, nel ripigliare la strada s’era messo a borbottare tra sè: «Anch’io da bambino fui vestito così! e cosa volesse dir quel vestito lo capii dopo... l’ho capito una prima volta, me ne ricordo ancora, quando non mi potei difendere contro un compagno più grandicello e prepotente, col gridare, come facevan gli altri, _lo dirò alla mia mamma!_... E poi, dicono che una parola amorevole, un consiglio d’una madre, non si dimenticano più! E vengono le volte in cui s’ha bisogno di richiamare un consiglio!... s’ha bisogno d’una memoria da rispettare!... Oh! se l’avessi trovata una buona parola dentro di me!... chi sa!...» E aveva svoltato alla prima cantonata per non avere la tentazione di guardare ancora quel bambino, e per cacciare una folla di tristi pensieri. Altri, dopo una prima occhiata mesta a quel fanciullo, avevano continuata la loro strada col passo più svelto e con la faccia di chi pensa a una buona nuova. Quale pensiero aveva attraversato d’improvviso la loro mente? Quello, forse, che rientrando in casa ci avrebbero trovato ancora la loro mamma. Il povero Massimo, poichè era proprio lui l’uomo vestito a bruno che conduceva il bambino a mano, com’ebbe lasciato dietro di sè le ultime case del sobborgo che qua e là fiancheggiano il viale, cominciò a levar gli occhi, che aveva tenuti fin lì fissi al suolo, e a guardare i bei prati, i bei campi che gli si stendevano dinanzi, e dopo questi le prime linee rialzate e vagamente interrotte delle colline, e la gran costiera finalmente delle prealpi e delle alpi, che gli chiudevano l’orizzonte coi loro maestosi profili, frastagliati da cocuzzoli biancheggianti e da ombre severe. Quello spettacolo, che pure egli aveva veduto le mille volte, pareva avesse in quel punto su l’animo suo un fascino tutto nuovo. Camminava, e non sapeva levar gli occhi da quella parte d’orizzonte; era assorto, ma pareva che il respiro gli si facesse più libero e l’animo più sollevato. Che cos’era venuto a sviare per un momento la costante malinconia de’ suoi pensieri? Cosa cercava egli con lo sguardo così fisso? I suoi occhi seguivano quelle ombre, quelle insenature, quelle vette che da tanto tempo non aveva vedute, e che ora mano mano andava riconoscendo. Eran tutti profili cari al suo cuore, e che sapeva lo dovevano condurre a uno che gli era il più caro di tutti, il profilo dei monti che stavano dietro Castelrenico. Appena lo intravide e lo riconobbe, il suo cuore battè violentemente, e il suo viso ch’era così pallido e triste, si fece a un tratto rosso, e prese quasi un’espressione di gioia. Si fermò, e stette un pezzo a fissare quel punto; intanto che il suo bambino era tutto in faccende per un grillo che aveva veduto presso la siepe, e non arrischiandosi di pigliarlo, gli salterellava intorno mandando gridi d’allegria. Massimo riprese il cammino, ma ogni tanto levava gli occhi e guardava ancora que’ monti. La sua mente era come trasportata da un’onda di pensieri nuovi: quella nebbia, che dopo le sue ultime disgrazie non gli lasciava veder più nulla dinanzi, in quel momento pareva si diradasse per fargli intravedere un porto tranquillo. Tornare a Castelrenico dopo esserne uscito pieno di progetti e di fumo? tornare umile, avvilito, come chi torna da una sconfitta? farsi guardare con pietà dopo che l’avevano guardato con invidia?... Mai! Con questa risposta aveva sempre troncato ogni pensiero, ogni domanda che avesse osato di farsi innanzi, per quanto sommessamente, a parlargli di Castelrenico. Ma ora che in compagnia de’ pensieri gli veniva dinanzi quella faccia benedetta de’ suoi monti, quel mai era lento a ricomparire, impedito da tant’altre cose che questa volta parevano più frettolose di lui. Le ubbìe compagne del mai si facevano piccine piccine, nella sua mente, intanto che il campanile di Castelrenico, la piazza, il caffè, l’osteria, gli amici d’un tempo diventavano grandi grandi, e li illuminava come una nuova luce che li faceva parer tutti le più belle cose di questo mondo. Massimo continuava a camminare. Camminava col passo più celere, e pensava a quando, dopo essersi dilungato un po’ troppo fuori di Castelrenico, se ne tornava affrettando il passo; e gli pareva quasi che alla prima svolta avrebbe trovata la solita scorciatoia che pigliava quando voleva giungere più presto in paese. Tanto era diventato padrone di lui in quel momento il suo Castelrenico! E intanto camminava.... ma il suo bambino, che cominciava a essere stanco, ora si sedeva su un mucchio di ghiaia, ora pigliava la rincorsa, ora tirava la falda del vestito del babbo, e cercava di fermarlo con una domanda. Era un pezzo che nell’animo del povero Massimo, addolorato da tante disgrazie, non si faceva strada un pensiero di pace, un qualcosa che lo togliesse per un minuto dalla sfiducia in cui era caduto. Il suo animo non cercava di dimenticare nessuno de’ suoi dolori, uno de’ quali, il più grande di tutti, gli era sacro e indistruttibile. Eppure quel lumicino che veniva a un tratto a rompere la nebbia scura che l’opprimeva, gli dava come un riposo soavissimo; e avrebbe voluto in cuor suo che quel minuto fosse lento a passare, tanto lo gustava! Ma anche quel poco ristoro fu breve. Il suo bambino a un tratto gli si piantò dinanzi, e tirandolo per l’abito gli domandò fissandolo in viso: «Questo è il luogo dove ci sono sepolti i morti?» Massimo alzò gli occhi, e s’accorse d’essere vicino alla cancellata d’un cimitero. Il bambino, vedendo l’espressione di dolore che a un tratto pigliava la faccia del babbo, soggiunse subito: «Babbo, non ho più paura io dei morti!... non ho più paura, perchè adesso tra i morti c’è la mia mamma!...» Massimo, a cui scoppiò il cuore a quelle parole, prese il bambino in collo e lo coperse di baci e di lacrime. Quel raggio di conforto era sparito; i tristi pensieri erano tornati in folla, e con essi una puntura dolorosa di più, quella che il suo bambino gli aveva data senza saperlo. Conducendo il suo bambino a mano tornò in città, e s’avviò verso casa col capo basso, ripensando, nel rifare quelle strade, ai casi suoi, con l’eguale malinconia e l’eguale sfiducia di prima. Eppure quel lumicino lontano che per un minuto gli aveva fatto intravedere il porto, non doveva essere un’illusione del tutto. Giovanni, come abbiam veduto, era andato a vivere in casa del suo amico Ambrogio. Tutti e due poi, quando Massimo dopo le sue ultime disgrazie capitò a Milano, adattandosi alla meglio, avevano trovato modo di alloggiare anche l’avvocato e di dargli una delle stanzucce del loro piccolo quartierino. Era dunque verso la casa dove abitava Ambrogio che Massimo faceva ritorno; e quella strada, quella casa, ch’eran lì a ricordargli che senza il buon cuore d’un galantuomo forse non avrebbe saputo dove cercare un ricovero, tanto le sue tristi vicende l’avevano ridotto a mal partito, non eran fatte neanche loro per dargli quel poco conforto che uno cerca tra le pareti domestiche. Fatta la scala, aperto l’uscio, vide su una sedia un cappello a cencio e una grossa mazza, e udì la voce di qualcuno che parlava forte col socero nella stanza vicina. Si fermò, e il suo primo pensiero fu di riaprire l’uscio e ripigliare le scale, tanto il suo animo rifuggiva in quel momento dal veder gente, dal mostrare ad altri il suo dolore, dal voler parere rassegnato, o dal ricevere conforti. Ma intanto il suo bambino aveva spalancato l’uscio, e gridando: «il babbo! il babbo!» era entrato nella cameretta dove c’era Giovanni in compagnia dell’ingegnere Mevio e d’un altro. Massimo, pochi minuti dopo, si trovava tra le braccia robuste d’un uomo che gli era corso incontro, e che senza poter proferire una parola l’aveva serrato al suo cuore con una stretta convulsa e vigorosa. Quell’uomo era Martino; e tanto lui che Massimo rimasero così abbracciati un pezzo senza che l’uno potesse staccarsi dall’altro, senza che a nessuno dei due potesse venire una parola sulle labbra. Ma tutto era detto. Mevio, che sapeva a tempo capire anche le cose delicate, vide ch’era bene lasciar soli quei due, almeno per qualche minuto; e pigliato a braccio Giovanni, a cui invece pareva necessario di rimaner lì per spiegare a Massimo il come e il perchè Martino fosse venuto, con una parola all’orecchio lo condusse nella stanza vicina. Ma fu per poco. «Vi pare?» cominciò Giovanni a dire subito dopo. «Li sentite voi dire una parola?... È una conversazione che continua sul tenore di quella di poco fa! Ci vuol me a rompere il ghiaccio!... ci vuol me!» E questa volta Mevio non riuscì a persuaderlo di lasciare i due cugini in pace. Al buon Giovanni pareva di tanto in tanto di saper essere d’animo più forte di suo genero. Ma poi quando vedeva un po’ di tregua sulla faccia di Massimo, allora cominciava a perder lui la parola; si guardava in giro come se cercasse la sua figliola; e si vedeva scendere sul poveretto quel dolore che sulla fronte d’un vecchio, a cui la vita più non promette che scarsi conforti, è sempre così cupo e profondo. Giovanni, quando tornò nella cameretta, vide i due cugini seduti accanto silenziosi, col capo basso, e con le mani dell’uno nelle mani dell’altro. Nell’aspetto di tutti e due c’era una calma così severa che non era fatta per dar coraggio a nessuno che avesse voluto disturbarla. Il rompere il ghiaccio non parve dunque una cosa così facile neanche al nostro Giovanni, il quale, dopo esser rimasto lì un poco sui due piedi senza aprir bocca, pigliò una sedia e si mise a sedere. Poi fece due o tre volte come per dire qualcosa, ma le parole non volevano uscire. Alla fine fece un gran sforzo ed esclamò: «Mah!» con un gran sospiro, e non potè dir altro. Chi ruppe il ghiaccio fu Martino, che a un tratto rizzatosi diede a tutti una forte stretta di mano, e disse: «Insomma.... andiamo. Ho un affare qui col nostro ingegnere Mevio.... ne ho poi un altro con voi, Massimo, ma non è questo il momento. Questa sera vengo a pigliarvi; vi devo dire qualcosa, e faremo quattro passi in compagnia. La riverisco, signor Giovanni! Massimo, a rivederci!» Martino non si fece aspettare. Imbruniva appena quando ricomparve; e a riceverlo questa volta c’era anche Ambrogio, di cui avrebbe fatto a meno volentieri. Egli, ch’era venuto per pigliarsi Massimo a braccetto, e far subito que’ quattro passi in compagnia, dovette invece far conversazione con Ambrogio, il quale, se gli capitava in casa qualcuno, si credeva in dovere, per riceverlo proprio a modo, di domandargli i fatti suoi e di raccontargli i propri. Finalmente Martino, fatto le sue scuse, si congedò, pregando Massimo a uscire con lui, com’era l’intesa. «Mio caro Massimo» prese a dire Martino quando fu in strada, ma dopo aver fatto un bel tratto in silenzio, «voi mi dovete fare un gran piacere. Sono in un imbroglio, sapete? in un imbroglio dal quale non mi potete levare che voi!» «Io?» esclamò Massimo con un certo accento pieno di mestizia e di amarezza. «Sì, voi! Ma prima statemi a sentire, perchè bisogna che vi metta un poco al fatto delle mie faccende; le quali faccende sono benedette dalla Provvidenza, e mentre mi poteva capitare.... insomma la mi è andata bene, e in grazia soprattutto di quel mio Tonino, che è un bravo figliolo, sapete!... così giovane! un figliolo che ruba un mestiere, come diciam noi, basta lo vegga una volta!... e se me ne ha insegnale delle cose!... In grazia, come dicevo, di Tonino, ho impiantato delle cose ch’eran nuove nei nostri paesi; ho cominciato a guadagnar qualcosina, ho aggiustate le mie magagne, ho fatto venir delle macchine, e, alle corte, adesso mi trovo sulle braccia un lavoro così spropositato che non riesco sempre a tenergli dietro. Cioè, in quanto al lavoro, con qualche buon operaio che in questi anni ho tirato su a mio modo, lavorando io, lavorando il figliolo, si dà passo agl’impegni, e la cosa cammina. Ma, voi lo sapete meglio di me, quando le faccende son molte, anche la penna e la carta vogliono la loro parte; e qui comincia il guaio! Ogni tanto io devo andare ora in un paese, ora in una città, per fare un contratto, per ricevere un pagamento; e allora.... senza dire che Tonino solo non basta più perchè ci sia sempre quel tal occhio aperto su tutto, quel tal occhio senza il quale le cose fan presto a mettersi fuori di careggiata!... allora, dicevo, ci siamo!... ci siamo a quel tal imbroglio della carta! Ogni tratto mi trovo dinanzi a ingegneri, ad avvocati, alla carta bollata.... e allora, che ne so io? In qualche impiccio, a dirla, ci son già cascato. Tutti in Castelrenico, tutti mi vanno dicendo: Mastro Martino, voi avete bisogno d’un uomo di proposito, d’un uomo a cui stia bene la penna in mano! E guardate, Martino, che penna, carta e calamaio sono una gran cosa!... Se ci fosse qui l’avvocato Massimo!» «Oh! che dite mai!... si ricordano ancora di me?...» «Vi pare? Non c’è giorno che non si parli di voi in Castelrenico!... Dunque dicevo.... cioè dicono.... se ci fosse qui l’avvocato Massimo! oh! allora sì che le vostre faccende andrebbero a dovere!... E quando questi han finito, comincia Tonino: — Caro babbo, così non si cammina!... intanto che si tengono gli occhi sul lavoro non si può tenerli sui libri: nella fabbrica dov’ero io c’era uno studio che pareva un uffizio, e lì, da mattina a sera, c’era un signore con gli occhiali, serio, che non rideva neanche la domenica. — Capite, cosa mi dicono tutti? Ora sono sei mesi che mi guardo intorno per cercare anch’io qualcuno di proposito, ma.... di quei di fuori non ne conosco, e di quei di Castelrenico.... sicuro che, se li sentite al caffè, la sanno lunga a uno a uno più di tutti i ministri messi insieme, ma... a dirla tra noi... è meglio lasciarli legger le gazzette! Intanto però io sono impacciato come un pulcino nella stoppa, e così non si va!... Dunque... dunque non ce n’è che uno che potrebbe levarmi d’impiccio... che potrebbe essere la fortuna mia e de’ miei figlioli... ma non ho il coraggio di domandargli questo favore. Capite, Massimo? Ma voi non mi rispondete!... per carità, se ho detto qualcosa fuori delle convenienze, non abbiatelo a male, perchè io sono un uomo alla buona...» «Oh! voi siete un uomo generoso... ed io sono un disgraziato che deve, perchè è giusto, pagare la pena de’ suoi errori!... un disgraziato per sua colpa... che non è degno di stringere quella mano che voi gli stendete con tanta generosità!...» «Oh! se avete imparato a dir queste cose a Milano, dirò anch’io che avete fatto un cattivo negozio ad andar via da Castelrenico!... Scusate se parlo così. Del resto, le botte di questo mondo sono spesso botte da orbo, che vanno anche sulle spalle di chi le merita meno. Sapere chi merita fortuna e chi non la merita!... son conti che non li può fare che Domeneddio!... Se vi son toccate delle disgrazie, ebbene, non cerchiamo più in là! Forza ai remi! e se il vento v’ha ricacciato in mezzo al lago mentre cercavate una riva, forza ai remi, e cercatene un’altra!... Voi non avete bisogno di me, perchè se la prima strada non v’ha guidato bene, ne potrete trovare in Milano un’altra che vi guidi meglio. Ma io ho bisogno di voi; dunque, strada per strada, pigliate intanto la mia, e camminiamo insieme! Se non vi piacerà, sarete sempre in tempo di pigliarvene un’altra, per bacco!... Ouf! in questa vostra Milano fa un gran caldo, sapete, anche quando negli altri paesi l’estate è finita!...» E così dicendo si levava il cappello e si asciugava la fronte, perchè, sebbene spirasse un’aria quasi fredda, Martino in quel momento sudava come sotto una solata di luglio. Massimo era agitato, confuso; non capiva più dove fosse e dove andassero i suoi pensieri. Le parole di Martino a poco poco gli facevano intravvedere quella mèta che cominciava a essere la seduzione più forte del suo cuore; gli risvegliavano quella commozione che aveva sentito scendere nell’anima al rivedere il profilo delle sue montagne. Ma poi quel tornare a capo basso nel suo paese, dopo esserne uscito così pieno di fumo; quel ricevere asilo da uno, di cui, un tempo, aveva quasi sdegnato i saluti; quell’invito che forse era un’elemosina.... eran dubbi che venivano a tormentarlo, eran pensieri che venivano a cozzare coi pensieri di prima, e lasciargli la mente tutta buia e scombussolata... «E se fosse vero che Martino ha bisogno di me?...» cominciava Massimo a pensare spinto dal secreto desiderio di stringere quella mano che gli veniva stesa.... «Se il partito che mi offre fosse il più onorevole che mi rimane?... Se un rifiuto paresse un’offesa?... Se potessi davvero esser utile a questo brav’uomo!...» Ma poi era da capo ad esclamare tra sè: «Oh! no, no.... è un atto di compassione! è un sacrifizio che Martino s’impone, e che io non devo accettare!» E in mezzo a queste contraddizioni, a questa battaglia che gli era sorta nel cuore, non poteva trovare una parola da rispondere a Martino. Dopo un lungo silenzio, Martino prese a dire in tono più calmo e con un accento quasi malinconico: «Insomma prima di negarmi il vostro aiuto, prima di preferire un’altra strada, pensateci bene, caro Massimo. Pensate a tante cose.... pensate anche che una boccata d’aria dei nostri monti sarà un gran ristoro per la vostra salute, e un gran sollievo per il vostro animo!... Pensate anche al vostro bambino, che è un bel bambino, ma che m’ha l’aria d’uno di quei fiori che non hanno veduto mai altro sole che quel poco che capita sul davanzale d’una finestretta e dietro un’inferriata. Ripiantatelo all’aria libera, in mezzo a una bella aiuola, dove lo vedrete riavere i suoi bei colori, venir su rigoglioso, robusto, senza che il vostro cuore abbia mai un giorno di dubbio o di ansietà!...» In quel punto le fiammelle sfolgoranti d’una bottega da caffè illuminarono traverso le vetrate i nostri due personaggi. Martino diede un’occhiata a Massimo, e gli vide scendere sulle gote due grosse lacrime. «Che bestia! che bestia!» disse tra sè il povero Martino. «Cosa ho detto mai!... Come faccio adesso ad accomodarla?...» Ma poi, come uno a cui viene un’idea, saltò su a voce alta: «Massimo! venite a prendere un caffè!» E l’idea del caffè, per sviare i pensieri di Massimo, gli parve così buona, che ci si mise con tutte le sue forze; e Massimo che sulle prime cercava schermirsene, dovette cedere, e lasciarsi condurre nella bottega dalle braccia vigorose del cugino. Più tardi Martino accompagnò Massimo a casa; ma nè in bottega nè in strada non riprese più il discorso di prima. La mattina seguente, Martino andò di buon’ora da Mevio, gli ripetè i discorsi fatti con Massimo, e gli raccontò per filo e per segno come l’era andata. A Martino pareva che la non fosse andata troppo bene; aveva paura, come diceva lui, d’aver fatta una frittata; e poi nella notte gli eran venute in mente tante e tant’altre ragioni che gli parevan tutte migliori di quelle che aveva dette. Ma come si fa? Quel giorno stesso egli doveva ritornare a Castelrenico per le sue faccende; e così la speranza che l’aveva fatto correre a Milano, quella di condursi a braccetto Massimo a casa sua, era bell’e svanita. Mevio lo tranquillò; trovò bonissimi i ragionamenti fatti e si prese l’impegno di darvi un’ultima mano. «Lasciate fare a me,» concluse Mevio. «Cose di questa fatta le non si decidono intanto che si fan quattro passi, o che si prende un caffè: ci penserò io a persuader Massimo, e a togliergli ogni ubbìa di testa. Tra quindici giorni Massimo sarà in casa vostra....» «Col bambino e col socero, s’intende!» «Eh sì! Fate proprio una carità fiorita, perchè il povero vecchio ha speso per Massimo fino all’ultimo soldo del suo piccolo patrimonio, e ora, poveretto.... insomma è una gran carità!» «Cosa dite mai! In casa mia c’è da fare per tutti, e qualcosina farà anche il signor Giovanni. Non si tratta di elemosina per nessuno, ma di lavoro: tenete a mente questa parola! E così siamo intesi, e confido in voi.» Due mesi dopo, l’avvocato Massimo, procuratore della ditta di Martino Della Valle, ritornando da una corsa fatta per affari, fermatosi un paio d’ore a Milano, andava in fretta a salutare l’amico Mevio, e a domandargli se gli occorreva qualcosa per Castelrenico. «Grazie, caro avvocato; salutatemi Martino e Giovanni, e tutti quei del paese. Del resto, le faccende seguitano a maraviglia, nevvero? Vi trovate sempre bene? Siete contento? Lavorate molto?...» «Oh! io devo benedire a ogni ora Martino e voi per tutto il bene che mi avete fatto! M’avete proprio salvato; m’avete condotto in porto! Ma...» «Ma?...» «E i poveri naufraghi?... Però la mia Enrichetta riposerà presto nel camposanto di Castelrenico. Ho destinato a ciò i primi frutti del mio lavoro. Lavoro molto, ma con questo pensiero nell’anima il lavoro mi dà un conforto che nessuna parola m’aveva dato fin qui.» XVI. Ora che abbiamo ricondotto a casa il nostro personaggio principale, e che abbiamo veduto gli eventi rabbonirsi, dopo essersela presa con lui così fieramente, per quel tanto di fumo che gli era salito alla testa, non ci resterebbe altro che di fare una riverenza a quei lettori che fossero arrivati pazientemente fin qui, ringraziarli dell’averci fatto compagnia, e dir loro: la nostra storiella è finita. Ma siccome da una compagnia tanto cortese non si vorrebbe staccarsi mai, così abbiamo pensato di andare in cerca, per un’ultima volta, dei vari personaggi che hanno figurato qua e là nel nostro racconto; sapere che cosa sia succeduto di loro, e salutarli anch’essi, tanto più che il caso di rivederli è poco probabile. Per trovarli dunque riuniti quasi tutti lasciamo passare un anno, e andiamo a Castelrenico. Un anno basterà, perchè dopo, per quanto ne sappiamo noi, nessuno di loro ha fatto nulla di particolare che meriti d’essere raccontato. A pie’ del monte che sta dietro Castelrenico, proprio dove una volta scendeva in tanti rigagnoletti quell’acqua che aveva anch’essa avuta la sua parte a far dare a Martino il soprannome di _matto_, sorgono adesso tre fabbricati, uniti tra loro da una cinta di muro, che racchiude pressochè tutto quel tal prato che aveva fatto, ma inutilmente, tanta gola all’amico Simone. I rigagnoletti, di cui molti andavano perduti per le fessure del monte e per gli strati soffici del prato, riuniti adesso in un sol corpo, corrono rapidi e a guisa di torrentello lungo i fabbricati, e movono delle grandi ruote che stanno a fianco di questi. Chi passa lungo il muro di cinta ode, misto al rumor cupo delle ruote che girano lentamente, e a quello dell’acqua che batte e spumeggia intorno ad esse, un frastuono confuso, dissonante, di martelli, di seghe, di ruote e rotelle e rotelline che cigolano in tutti i toni e che pare dicano tutti assieme quanta vita, quanto lavoro, quanto amore del tempo ci sia lì dentro. In uno dei fabbricati stanno accatastati fusti e toppi; ci sono le grandi seghe, e si fanno panconi e assi d’ogni sorta. In un altro più piccolo si fanno tutti i lavori da bottaio; e nel fabbricato di mezzo, che è il più grande, si fa ogni sorta di lavori da legnaiolo, mobili, quadretti lisci e intarsiati per pavimenti, bussole, usci, persiane, scuri; c’è anche l’abitazione di Martino e della sua famiglia, di Massimo, di Giovanni, e di qualche operaio. Martino è sempre in faccende; è dappertutto: non c’è lavoro del suo opificio a cui non abbia data, prima di sera, un’occhiata cinque o sei volte almeno. Se vede qualcosa che non sia fatto a modo suo, allora poi non sa resistere; si mette in maniche di camicia, dà mano alla pialla, a uno scarpello, a un tornio, e, dimenticandosi d’essere il padrone, lavora come un dannato e col gusto d’una volta. Se poi ha qualche minuto di respiro, allora, a gambe larghe e con le mani dietro le reni, si mette lì ad osservare le macchine che lavorano. Le guarda, non sa staccarne gli occhi, sorride di compiacenza, e, con qualche crollatina di capo, pensa tra sè: «Guarda un poco con che precisione lavora quel ferro!... così da solo!... si direbbe che nel mestiere la sa lunga più di me!... e che ragiona come un cristiano!» Non la pensa così sua moglie. La buona Caterina, in casa non osa più fiatare contro le macchine; però, se è sola, affretta il passo volentieri quando attraversa qualche stanzone dove ce ne sia qualcuna; e in cuor suo non è del tutto persuasa che in quelle ruote e rotelle e rotelline, in que’ ferri, in quelle lame dentate, che stridono, vanno, vengono, girano da sè, non ci sia qualche incantesimo, qualche diavoleria. Anch’essa è in faccende da mattina a sera, ma a far la massaia; tiene a cintola un mazzo di chiavi che saranno almeno venti; si pensi quanto da fare le dànno! Martino, son due anni, le ha regalato un abito di seta: le venne qualche volta la tentazione di metterselo, ma poi non ne ha avuto mai il coraggio. Aspetta sempre una qualche grande occasiono per decidersi; ma quando l’occasione capita, allora quell’abito le mette tanta soggezione! e comincia a pensare a quello che dirà la gente, a quello che dirà la Ghita, per dirne una, la vedova del bottaio, che tutti chiamano la signora Ghita, eppure non ha l’abito di seta nemmen lei. «No, no!» conchiude ogni volta dopo averci pensato su «non voglio che si dica che mi è andato il fumo alla testa!... non voglio umiliare le mie amiche, le donne del mio tempo!» E infatti, per la signora Ghita principalmente, questo sarebbe un affar serio. I Della Valle le hanno già fatta questa del metter su lavoro da bottaio, di lavorare in grande e in un certo modo che non era quello del suo povero Andrea, e se poi le facessero anche quest’altra dell’abito di seta, sarebbe in verità un passare ogni misura, un tentare la sua prudenza. Povera signora Ghita! La sola cosa che la conforta un poco è che a lei tutti dicono _la signora Ghita_, mentre la Caterina, sebbene ci sia chi pretende che il suo uomo adesso nuoti nell’abbondanza, pure non c’è uno che non la chiami ancora la Caterina! Ma non è solo l’abito di seta che mette soggezione alla Caterina: dopo che suo marito ha cambiato condizione, si direbbe che le mette soggezione anche la gente che può incontrar per la strada. La si vedeva poco in giro una volta, ma adesso la non si vede quasi più; e la sua scusa è sempre che «quando s’ha una nidiata di figlioli non c’è tempo d’andar a spasso.» La nidiata però è ben piccola, e «fossero le nidiate di figlioli tutte così!» dicono in paese quelli che ne hanno una davvero. Tonino è ormai un uomo fatto: ha diciott’anni appena, ma è alto, robusto, serio; è sempre intento da mattina a sera alle macchine e ai lavori che dirige lui; parla poco, e lo vedono così poco all’osteria, che in paese cominciano quasi a chiamarlo _matto_ come il padre. La Beppina s’è fatta anch’essa una giovanetta, e tra qualche anno la signora Ghita sarà in pensiero per trovarle un marito. Intanto essa aiuta la mamma in tutte le faccenduole di casa, ed è la sola persona a cui Caterina dia in qualche occasione il mazzo delle chiavi. Gli altri due bambini, quelli che abbiam veduti in principio del nostro racconto far la guardia ai fagioli che bollivano nella pentola, divenuti grandicelli anch’essi, ora vanno a scuola: la bambina va alla scuola di Castelrenico; e il fratello, che è maggiore di lei, fu messo a dozzina in una grossa borgata della provincia, e va alle scuole tecniche. «Avrei avuto il coraggio di mandarlo a imparare anche il latino!» aveva detto una volta Martino in confidenza al curato. «Sicuro! perchè un tempo avevo una grand’opinione del latino!... Ma dopo che ho veduto il latino fare all’avvocato Massimo lo scherzo di mandarlo in rovina!... un uomo come l’avvocato!... cosa vuole? mi sono messo in diffidenza, e ho detto tra me: no, no, non mettiamo i figlioli nelle tentazioni! ci mette così poco il fumo a montare alla testa!» Qualche ragionamento sul fumo che monta alla testa l’aveva fatto più d’uno in Castelrenico, dopo che si riseppero i casi disgraziati di Massimo. Più d’uno aveva rifatti i suoi progetti; più d’uno aveva lasciato cadere qualche sogno ambizioso, s’era deciso a sneghittirsi e a non aspettar più a bocca aperta che cascasse la fortuna dalle nuvole. Abbiam detto più d’uno, e si può esser contenti; ma non mancarono anche quelli che furono d’un parere diverso. Si pensi a tutti i discorsi che si fecero in Castelrenico quando videro Massimo tornare mogio mogio, non più impiegato, non milionario, non ministro, e, per dirla, senza un soldo in tasca! Quelli che in paese passano per i più pratici delle cose di questo mondo, dissero subito ch’era una commedia, ch’era forse una cosa tutta intesa col Governo per qualche scopo diplomatico, e conchiudevano che «fidarsi è bene, e non fidarsi è meglio!» Gli altri, un poco meno furbi, erano persuasi in cuor loro che a Massimo fosse andata male davvero; ma a buon conto tacevano e stavano a vedere. A poco a poco però questi ultimi, ch’erano in gran maggioranza, cominciarono a farsi coraggio; e dopo poco tempo in Castelrenico si discorreva liberamente che Massimo, dopo tante spacconate, se n’era tornato con le pive nel sacco, a farsi ospitare da Martino per di più, dopo essersi mangiato fino a un soldo il fatto suo. Il pensiero delle pive nel sacco parve una buona ragione per perdonare all’avvocato Massimo anche a quei tali che con tanta invidia l’avevan veduto partire, e che l’avevano avuta così fieramente con lui per quel tanto di fortuna che aveva sognato. A mantenerli poi in questa buona disposizione c’era per molti un altro riflesso. «Guardate un poco,» dicevano; «l’avvocato Massimo ha voluto girare il mondo, salire in alto, e con tutto il suo talento è andato in rovina!» Da questo tiravano la conseguenza che quelli ch’erano rimasti a casa, e quindi loro, dovevano avere un talento di gran lunga maggiore. Massimo però non ha voluto approfittar troppo finora di questa indulgenza e di questo perdono. Se s’imbatte in qualche vecchio amico, fa volentieri, se ne ha il tempo, quattro chiacchiere o quattro passi in compagnia; ma è cosa che succede di rado, perchè se ne sta quasi sempre nello studio, anche la sera, ad attendere alle molte faccende dell’azienda di Martino; e passano alle volte le giornate intere senza che nessuno lo veda uscir di casa. Nel caffè della _Fratellanza_ non ci ha ancor messo il piede. Il sollievo che gli è più caro è quello di condurre il suo bambino a passeggio, o d’andare sull’imbrunire verso il cimitero dove adesso è sepolta la sua Enrichetta, o alle volte, quando Mevio capita in Castelrenico, di fare con lui qualche lunga camminata. Con Mevio ritorna spesso su tutte le cose del passato, e nello sfogar l’animo gli piace di fermarsi ogni tanto e di mettere, come pietre miliari, prima di proseguire, le conclusioni della sua esperienza. Nulla ha voluto tener nascosto al suo buon amico; e un giorno nel parlargli della sua Enrichetta, gli disse come prima di morire ella gli avesse confessato quel fascino che aveva tormentato il suo cuore. Alla poveretta non bastò l’aver vinto, volle sentirsi dire che era perdonata! Massimo più volte aveva principiata e interrotta la penosa confidenza col suo amico; ma poi l’aveva compiuta, parendogli di rendere alla bell’anima della sua Enrichetta un omaggio di più. «Ed è così che uno sa essere di aiuto e di guida alla sua giovane sposa?» aveva conchiuso con un sospiro pieno di amarezza. «Povera giovane! mentre il suo animo si schiude alle impressioni d’una vita nuova, il suo compagno di cammino, la sua guida la conduce di sua mano in mezzo a tutte le seduzioni; le fa conoscere quello che il mondo ha di più lusinghiero, di più seducente; e poi, quando ne l’ha inebbriata, la riconduce tra le pareti della casa, dove si incarica di farle conoscere la noia, di non farle più udire una parola confidente, cortese, amorevole; e di mostrarle, se occorre, tutte le varietà delle parole brusche e dei musi lunghi! Brava la guida! E poi.... e poi quando tutti assieme si è ribaltati in un fosso, si grida che la colpa è di chi stava in vettura!... Povera Enrichetta!... perdonami!... a quale difficile prova, stolto! ho messo la tua virtù!» E Giovanni? Giovanni, che a Milano si lasciava chiamar così, ma che a Castelrenico guai se non lo chiamano il signor Figini, perchè non permette ai campagnoli tanta confidenza, comincia ad abituarsi alla nuova vita, sebbene dica ancora di tanto in tanto che «a non veder più le strade con quel bel lastricato di pietra viva, con quelle belle case tutte in fila a quattro e fin a cinque piani; e a trovarsi invece, così.... in mezzo alla campagna, come Adamo, è cosa che proprio toglie il respiro!» Quando non ne può più, va sull’altura della casa per vedere il Duomo di Milano. «Eccolo là! ecco la guglia maggiore!... capite? la si vede fin qui!...» Ma quei del paese gli rispondono: «Signor Figini, lei sbaglia! quel punto bianco che lei vede laggiù è il campanile della chiesa di sant’Antonio, che è la chiesa parrocchiale di....» Ma Giovanni non li lascia finire: «Oh! sapete che ne avete delle belle voi altri di Castelrenico! Voler conoscere la guglia del Duomo più di me! più d’un milanese di Milano!... e voler dire che la guglia maggiore è il campanile di sant’Antonio! ah! ah!... La vi piace quella guglia? La vorreste per voi eh?... Non siete di cattivo gusto!...» E ogni volta ride così di cuore alle spalle di quelli di Castelrenico, che è uno spasso a vederlo. Quantunque ci sia questo disparere sul campanile di sant’Antonio, e ce ne sia qualche altro su altri modi di vedere, il signor Figini gode in Castelrenico d’una certa riputazione. Le comari sopra tutto lo hanno in concetto d’uomo di proposito; e siccome egli ha sempre in pronto qualche sentenza o qualche proverbio, così quando si vuole un parere proprio coi fiocchi, si va dal signor Figini. Anche i celioni e gli sfaccendati del caffè lo ascoltano volentieri, e salvo a rifarsene alle sue spalle, lo stanno a sentire qualche volta anche con la bocca aperta; per esempio quando racconta le sue storie del tempo passato, o i casi terribili capitati a lui quand’era sergente della guardia nazionale. In ognuna di queste storie c’è sempre una risposta, un detto, con cui ha messo in un sacco più d’uno che aveva creduto d’imbarazzar lui; e questa, ben inteso, è tutta gente che metteva soggezione a chi si sia per la gran furberìa o per il gran talento. Queste chiacchiere Giovanni le fa quando l’azienda di Martino gli lascia, come dice lui, un momento di riposo, perchè il suo da fare è molto, e la sua responsabilità è grande. Egli dà le paghe agli operai, fa scappare i fanciulli che vengono a spiare in corte dal cancello, e fa le intestature ai registri; cosa anche questa assai meno semplice di quel che pare, perchè le intestature egli le fa in carattere ora corsivo, ora tondo, ora gotico, a seconda dei casi, perchè ha sempre usalo farle, come dice lui «in caratteri allegorici.» Al nostro Giovanni poi capitò una giornata campale, e di cui vorrà parlare per un pezzo, proprio in quel tempo in cui siamo venuti a ritrovare col racconto i nostri personaggi. Il marchese Renica, che dopo la morte di don Emanuele s’era chiuso, come abbiamo veduto, in una sua casuccia di campagna fuor di mano, dopo averci passato un anno, era venuto in Castelrenico senza toccar Milano. Con lui c’era sua nuora e suo figlio Giorgio; poco dopo era capitato anche don Gilberto. Il consigliere Rocca, sapendo che il marchese non faceva più la partita, non s’era ancor lasciato vedere. Or bene, una mattina il signor Giovanni, mentre stava appuntando un lapis con grande attenzione, sentì il cane guardiano abbaiare dal suo casotto in un tono ch’era più alto del solito. Uscì in corte a vedere cosa ci fosse di straordinario, e vide nientemeno che il marchese Antonio con suo figlio, la marchesa Giulia e don Gilberto, i quali entravano in quel punto dal cancello. «Oh! chi vedo io mai!... E non averlo saputo!... riceverli così in mal arnese!... mi scusino!... loro hanno voluto incomodarsi.... hanno voluto venire in questo nostro stabilimento.... mi hanno voluto onorare....» E, intanto che Giovanni diceva così, il marchese, dopo averlo salutato cortesemente, gli aveva domandato se c’era Martino, e se Martino permetteva che si visitasse la sua fabbrica. Giovanni, persuaso d’esser proprio l’uomo che ci voleva per far gli onori a una così illustre comitiva, facendo il sordo, aveva già dato principio a una descrizione sommaria delle cose da vedere. Ma il marchese s’era piantato sui due piedi; e Giovanni dovette decidersi a chiamare un manovale, e a mandarlo in cerca di Martino, dicendogli piano all’orecchio «e che metta il vestito delle feste!...» Non potendo avere quella visita tutta per sè, Giovanni volle averne almeno una parte, e intanto che aspettavano Martino, condusse il marchese e la comitiva nello studio, per mostrar loro i suoi registri e quelle famose intestature. «Prima che venissi qua io, di queste cose non se ne facevano!... Cosa dico? non si sapeva neanche cosa fossero!... Buona gente questa di Castelrenico!... Oh! in verità, a dirne male sarebbe proprio peccato!... Mah!... loro signori mi capiranno!... non è dato a tutti di nascere dove.... c’intendiamo noi! e se non ci arrivano a certe cose, siamo giusti, la colpa non è tutta loro!... Si direbbe proprio che le guglie del Duomo hanno il loro influsso!... Dunque dicevo.... cosa dicevo?... oh! volevo dire che l’arte calligrafica, che ho fatto conoscere io per il primo in questi paesi, ha un’importanza per il buon andamento d’uno stabilimento industriale.... un’importanza ch’io chiamerei, senza complimenti, fondamentale! Io considero la cosa sotto tre punti di vista: primo punto....» Ma per fortuna al primo punto arrivò Martino, e ai nostri visitatori furono risparmiati tutti e tre. La visita durò un paio d’ore. Il marchese Antonio volle vedere a una a una tutte le macchine; volle osservare minutamente tutti i lavori, facendo a Martino domande sopra domande a proposito di tutto. Martino rispondeva col suo fare alla buona, e con quel buon senso, che quando è proprio di quello vero, piace e colpisce come una cosa bella e rara. Più d’una volta, intanto che il marchese osservava con attenzione qualcosa, Martino guardandolo con un’occhiata lunga e compassionevole, disse tra sè: «Com’è mutato quel pover uomo!» E infatti, gli erano cascati sulle spalle tanti anni, in quell’anno, che non sarebbe stato facile riconoscerlo alla prima. Pure la sua fronte pallida e pensierosa, il suo occhio triste e quasi spento, parevano riavere ancora qualche scintilla del fuoco che ci aveva brillato una volta, mano mano che nel far dire a Martino le vicende della sua vita, lo seguiva in quella lotta ostinata che questi aveva giorno per giorno sostenuta e vinta con la sola scorta d’una indomabile volontà. Don Gilberto, dopo aver anch’esso sulle prime lodato moltissimo tutti i lavori, cominciò presto a mostrare una certa predilezione per le sedie, e a pensare tra sè che la cosa andava un pochino per le lunghe. Anche la marchesa Giulia, ch’era in cuor suo del medesimo parere, ogni tanto, imitando don Gilberto, gli si sedeva accanto a riposare un minuto, e a scambiare qualche chiacchiera sopra qualche altro argomento. Don Gilberto faceva mostra volentieri di dividere con la marchesa un poco di noia elegante; ma in realtà, a saper bene le cose, anche a lui quell’annetto di più, sebbene l’avesse passato senza un fastidio al mondo, aveva giovato pochissimo, e lo star su due piedi un pezzo non era più affar suo. Quel guaio della gotta oramai non lo si poteva più nascondere; e don Gilberto, prendendo le mosse da lontano, aveva finito con annunziarlo ufficialmente; ma poi, a ogni proposito, tirava in scena de’ personaggi d’ogni paese, ch’eran tra i primi potentati della politica o della moda, e che avevan tutti questo suo stesso maluccio, del qual maluccio sapeva discorrere con sì bel garbo, che pareva quasi una cosa di poco buon genere l’esserne senza. Il marchese, prima di partire, strinse la mano a Martino e gli disse: «Ricordatevi che mi dovete rendere questa visita, e che me la dovete rendere con usura! Non ho mai fatto complimenti con nessuno; sicchè, dicendovi che ogni volta che vi lascerete vedere in casa mia mi farete un piacere, vi dico una verità; e ve la dico di cuore!» L’andare, proprio in persona, in casa del marchese, era in Castelrenico un onor grande; e Martino, anche quando non ci andava che il cugino, l’avvocato Massimo, se ne gloriava non poco per la sua casa. Martino dunque rimase lì, a quell’invito, tutto confuso; cercò di balbettare qualche parola di complimento, e si fece tutto rosso in faccia, un po’ per la soggezione, e un po’ per una certa soddisfazione dell’animo, che in quel momento gli diceva che le sue fatiche gli avevano fatto guadagnare qualcosa di più che de’ quattrini. Anche sul volto del marchese, che in quel punto s’era tutto rianimato, c’era la soddisfazione di chi ha detto una cosa di cui si trova contento. Poteva la scena finir lì! Ma, nell’accompagnare il marchese e la comitiva fino al cancello. Martino prese a dire il suo gran dispiacere di non aver potuto far loro conoscere il suo Tonino, «quel bravo figliolo! che è stato, bisogna proprio che lo dica, la mia mano diritta nel fare tutto quello che loro signori han veduto!... Oh! senza lui non facevo neanche la metà!... Ma è andato, fin da ieri, fuori di paese con Massimo. Anche Massimo sentirà con dispiacere che loro signori sono stati qui, proprio in un giorno in cui lui non c’era!...» La fronte del marchese cominciò a rannuvolarsi. Il marchese non aveva più veduto Massimo da due anni, e precisamente da quando era partito da Milano per l’impiego. «Oh! ecco uno che viene a proposito!» saltò su a dire Martino nell’aprire il cancello.» Farò conoscere loro un altro mio figliolo.... che è quel giovanotto che viene alla nostra volta... È il figliolo che ho mandato a studiare, e che adesso è qui in vacanza. Ha l’argento vivo addosso!... ma un buon figliolo! È un diavolo.... ma il cuore è buono!... studia e si fa onore!... È il mio secondogenito.... e lo chiamo il mio cattivo soggetto!...» E appena ebbe dette queste parole, Martino vide il marchese farsi pallido come la morte, e appoggiarsi al braccio di suo figlio Giorgio come uno che sviene. «Oh! che bestia!» pensò Martino mordendosi le labbra. «Cosa ho detto mai! Il secondogenito.... sicuro!» Martino avrebbe voluto accomodarla in qualche modo, ma il marchese non gliene lasciò il tempo; e prima che il figliolo di Martino fosse arrivato al cancello, egli s’era già dilungato per una stradicciola opposta. Martino, per accomodarla, dopo aver passati tre o quattro giorni di cattivo umore, e a pensarci su, si decise di andare a far visita al marchese. E bisogna dire che della sua visita fosse rimasto molto contento, perchè fu veduto uscir dalla casa del marchese, attraversare la piazza, tutto attillato s’intende, parlando tra sè, fregandosi le mani, con la faccia allegra più del solito. Quelli del caffè della _Fratellanza_, vedendolo passare, diedero in una gran risata; ma Martino non se ne accorse, e tirò via per la sua strada. Del qual caffè della _Fratellanza_ bisognerà pure che diciamo una parola prima di accomiatarci, perchè anch’esso è una delle nostre vecchie conoscenze. Nel caffè della _Fratellanza_, sebbene ci si proclamino ogni giorno le più ardite aspirazioni sociali, le cose son rimaste tali e quali le abbiamo vedute sei anni fa. Il fornello e la caffettiera sono sempre nel medesimo angolo; le bottiglie, che stanno in mostra, sono ancora le stesse; vuote adesso come allora, son lì con le loro etichette che da un pezzo non sono più che un epitaffio. Alla solita ora viene la solita gente, si mette al tavolino, gioca a briscola e discorre, a spese s’intende, del prossimo. Di nuovo non c’è che Simone. Quel Simone che abbiamo veduto prestar le dieci mila lire a Martino, si è fatto uno de’ frequentatori più assidui del caffè. Era furbo, aveva comperato il codice, ma con tutto questo è incappato in qualche affaruccio ingrato: ebbe de’ processi, e s’è ridotto al verde. Ora non gli è rimasto che il caffè, dove sentenzia su tutto quello che succede in Castelrenico e, all’occorrenza, in Europa, perchè legge i fogli. La morale ha in lui un giudice pratico e severo; e se qualche volta è un po’ sospettoso, lo è per zelo del bene pubblico. Quando Martino, passando per la piazza, aveva fatto sghignazzare quei del caffè, Simone stava appunto raccontando un fatto che gli pareva tenebroso, e che denunziava per ciò alla pubblica discussione. E il fatto tenebroso qual era? Massimo avendo risaputo dalla sua povera Enrichetta che l’ingegnere Mevio le aveva prestato mille lire per andare in Sicilia; coi primi denari che guadagnò restituì la sommerella all’amico, il quale la rese a chi gliel’aveva data in secreto, al marchese; e il marchese Antonio la regalò allo spedale di Castelrenico. Simone parlava di questo dono: trovava che un dono del marchese poteva benissimo avere un fine contrario al pubblico bene; e che gli amministratori dello spedale lo dovevano rifiutare come sospetto, e incompatibile con gli interessi del popolo. Queste parole erano state approvate da tutti i presenti, e soprattutto da un tale di nostra conoscenza, quel della pipa di gesso. Il quale, per finire la rassegna dei nostri personaggi, è sempre lì, da mattina a sera, a quel medesimo posto dove l’abbiamo veduto la prima volta: le sue aspirazioni sono sempre ardite, ma personalmente è rimasto stazionario come il caffè. Non c’è in progresso che le scuciture della giacchetta, e quella tale indipendenza dei gomiti dalle maniche. Il suo tempo lo passa alternando una fumata con un bicchierino di acquavite e una partita a briscola, con una forbiciata al prossimo. A questi passatempi, che furono sempre i suoi quattro vizi prediletti, adesso ha aggiunto anche la politica, a cui s’è dato come se fosse un vizio di più. Si guardi un poco in quanti modi diversi si considera la politica a questo mondo! È dunque inutile dire che la sua politica è sulla medesima linea delle carte sporche, della maldicenza, dell’acquavite, e del fondo della pipa. Ci resterebbe a dire, poichè siamo al caffè, e dei molti discorsi che si fecero a proposito delle cose che abbiamo narrate fin qui, e delle conclusioni che se ne tirarono. Una conclusione bell’e fatta, ora che il nostro racconto è finito, si pensi se ci tornerebbe comoda! Ma dobbiamo fare una confessione; e la confessione è che nel caffè della _Fratellanza_ questa nostra storia è raccontata da capo a fondo in un modo affatto diverso del nostro. Le conclusioni dunque sono proprio le opposte di quelle che vorremmo dir noi: le nostre sarebbero molto semplici; le loro sono più complicate: affar di scuola. In questa diversità di conclusioni, non volendoci rassegnare a dirittura a quelle del caffè, e non presumendo tanto di noi da voler dare le nostre, prenderemo una via di mezzo. Lasceremo che le conclusioni le faccia il lettore, il quale, se troverà verisimili le cose che gli abbiamo narrate, e se vorrà, senza aspettare il testo del caffè, accontentarsi del nostro, saprà cavarne lui una morale di gran lunga più savia di quello che sapremmo far noi. FINE. INDICE. AVVERTENZA Pag. I UNA SCAPPATA FUORI DEL NIDO. — Memorie di Alberto 1 LO SCARTAFACCIO DELL’AMICO MICHELE 97 L’AVVOCATO MASSIMO E IL SUO IMPIEGO 289 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74597 ***