*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74686 *** GIOVANNI FALDELLA ROVINE _Degna di morire — La laurea dell’amore_. MILANO _TIPOGRAFIA EDITRICE LOMBARDA_ di F. MENOZZI e COMP. =STABILIMENTO= _Via Andrea Appiani, N._ 10. =SUCCURSALE= _Via Carlo Alberto, Bottega_ 27. Proprietà letteraria. Milano, 1879 — Tipografia Editrice Lombarda. Via Andrea Appiani, 10 AD ACHILLE GIOVANNI CAGNA VERCELLI. _Amico_, Vinco gli scrupoli di una omonimia materiale, alla quale tu ci devi tenere meno di me, e ti dedico, caro Cagna, questa biografia del letterato inedito, figlio della _Madre dei Cani_. Te la dedico; perchè in essa ho incastrato, come meglio ho saputo, qualche, osservazione dal vero, che tu mi avevi riferito col tuo brio vigoroso. Te la dedico, perchè tu, discorrendo, mi ricordi il protagonista di questo racconto storico, per la prontezza del pensiero baldo e capriccioso e il calore dell’espressione affilata e luccicante. Te la dedico infine; perchè tu, molto diversamente dal tipo disgraziato qui ritratto, unisci felicemente al culto dell’arta quello del lavoro utile e della famiglia; e lo scopo di questo mio racconto (a dimostrazione por via dei contrari) è appunto quello di predicare l’unione dei suddetti culti corrisposti. Sei pregato di fare buon viso alla mia piccola offerta. Intanto tu, pure attendendo alle tue contrattazioni di cereali, e rimanendo contento e orgoglioso del blasone d’artiere trasmessoti da quel degno, fiero e intelligente carattere di tuo padre, stipettajo, — tu seguita nei ritagli di tempo rubati al riposo o allo svago, seguita a scrivere le tue brave smanie di poesia, d’arte e d’amore. Saluggia, 30 agosto 1878. _Tuo aff._ GIOVANNI FALDELLA. ROVINE RACCONTO BIOGRAFICO. I. =Cani!= La scena non ha luogo in teatro, ma in famiglia, dove i suddetti quadrupedi si acquistarono una importanza ragguardevole. Uno scolaro usciva dal ginnasio dominato dall’appetito e dalla contentezza. Era riuscito il secondo della scuola, cosa che non gli era mai capitata nella vita; lo gattigliava a flor di pancia un vuoto voluttuoso; gli splendeva in testa la speranza di un _accessit;_ udiva già il suo nome tintinnare nella distribuzione dei premi, sentiva muoversi leggera leggera la bisaccia dei libri sulle spalle; pensava ai grissini e ai peperoni del desco materno, all’effetto luminoso che avrebbe prodotto il suo annunzio in casa; e con una fame, che avrebbe addentato i pilastri dei portici, egli disprezzava le bacheche dei confettieri, disprezzava gli zamponi dilembati rossamente, i tagli dei presciutti marmoreggiati succosamente, il morbido ed acuto gorgonzola e tutte le altre ghiottonerie, che dalla vetrina di un salumajo agganciano le viscere di uno scolaretto. Come era fulgido Pinotto sotto i Portici di Po! Svoltò in una di quelle forme di torrioni, che sono i cortili torinesi; infilò una scaletta. Sembrava si arrampicasse a quattro gambe; sembrava avesse le ali; sembrava una rana; sembrava un’anitra; sembrava abboccasse con la testa curva l’orlo di ogni gradino; a momenti, che non sembrava quel poveretto? Finalmente eccolo sul suo pianerottolo. Oh quanta luce egli getterà fra i suoi cari con la notizia che finalmente è riuscito il secondo della scuola! Ma appena egli pose il piede nel tinello, si smorzò la sua luce; chè trovò nell’atmosfera della stanza e nei volti di sua mamma e di sua sorella quella mutezza plumbea, che assumono le famiglie nelle più rilevate calamità casalinghe, quando è giunto il telegramma della morte del nonno, o quando è venuto l’usciere per una esecuzione mobiliare. Pinotto fece uno sforzo, e non riuscì.... ne fece un altro e riuscì a dire: — Mamma! Carolina! Se sapeste! Finalmente sono _andato_ il secondo della scuola, e il professore mi ha detto, che, se seguiterò così, piglierò l’_accessit_ in fine dell’anno. La mamma e la sorella, voltandosi dall’altra parte, risposero l’una con una spallucciata rabbiosa e l’altra con una spallucciata piagnucolosa. Pinotto affiochì, si avvicinò alle loro gonne fredde, e affisse i suoi occhi pavidi nei loro volti di una impenetrabilità profonda. — Che cosa è stato? — egli domandò tremolando come una foglia. La mamma si spiccò da lui, senza dargli retta di uno sguardo; e la sorella si mise a _tirar su_, e tirando su spiccicò fra la compressione delle lacrime: — c’è.... c’è.... c’è...; — quindi con una voce da vitella sgozzata: — c’è.... che Glafir ha la to...osse; — e giù uno scoppio di pianto. Pinotto scaraventò contro la finestra la sua bisaccia, il cui bottone di acciaio ruppe un vetro; quindi scappò come un fulmine, senza il cappello in testa. II. Chi era Glafir? Era un cagnolino tozzo, dal collo corto e dalle gambe cortissime, grasso come una caciuola marzolina, pigro come una marmotta, che tossiva e starnutiva con mille stenti e putiva come un avello. Da un anno la mamma Placida e la sorella Carolina lo lavavano, lo profumavano, lo pettinavano, gli dirizzavano la scriminatura sulla testa, sulla schiena e persino sulla coda, gli allacciavano i riccioli con nastrini di seta molticolori; gli facevano _dindindare_ una sonagliera intorno al collo; gli lasciavano fare tuttociò che voleva sulle sedie, lo rabbatuffolavano sopra il canapè e poi lo alzavano di peso, se lo accostavano alla bocca, e sembrava volessero mangiarlo con baci e baci; di buon mattino se lo cucciavano sul copripiede del letto; e il venerdì, il sabbato, e negli altri giorni, in cui Santa Madre Chiesa proibisce di mangiar di grasso, esse mandavano dal beccajo a comperare del manzo appositamente per il signor botolino. Quel mattino esso aveva mangiato una tibia di pollastrino, grufolando fra la spazzatura del pianerottolo; e quell’ossicino gli era restato nella gola. Aveva tossito e starnutato più miseramente del solito; onde mamma e figliuola non avevano fatto altro che ripetersi per tutta la mattina: — Bisogna guardarsi.... Glafir non è un cane da lasciargli mangiare le ossa. — Bisogna guardarsi.... Poverino! — Diamogli il caffè. — Proviamo l’acquavite. — Proviamo l’acqua teriacale. — Stai meglio, Glafir? Oh bel fanciullino! — Ti è passata, Glafir? — III. Pinotto, ridisceso sotto i portici, con il volto stravolto, senza niente in testa, pareva a tutti quello che egli era: uno scappato di casa. Benchè ardesse un sole canicolare, egli non osò rimanere sotto i portici, e andò sul marciapiedi della via. Gli bollivano addosso tutte le rivolte ingenue di un monello, tutte le rabbie erudite di uno scolaretto. Giurava e rigiurava seco stesso che non sarebbe più ritornato a casa: avrebbe anche fatto lo spazzacamino o il venditore di zolfanelli e lo strillino di giornali; avrebbe dormito alla notte con la testa nuda sulla gradinata delle chiese; avrebbe anche fatto il tiraborse, se gli fosse venuto il bisogno; ma l’avrebbe fatta vedere a sua mamma e sua sorella.... Già esse, a sua ricordanza, grande tenerezza non glie l’avevano mai dimostrata forse per il loro perpetuo malumore della morte del babbo.... Ma che cosa ne poteva lui, se il buon babbo li aveva abbandonati tutti così giovane? Oh sarebbe stato meglio per tutti e per Pinotto specialmente, che il babbo fosse ancora vivo! Oh! se il babbo fosse ancora vivo, Pinotto non sarebbe stato costretto a fuggire di casa per la preferenza data a una bestia.... Oh no! sicuramente non sarebbe stato costretto... Però, via... quantunque la mamma e la sorella non si fossero mai dimostrate pazze di affezione per lui, pure si poteva ancora vivere prima che quel maledetto uffiziale, il quale affittava da loro una camera mobiliata e stava continuamente nel vano della finestra con Carolina, andandosene via, avesse lasciato per ricordo a costei quel cagnolino. Maledetti tutti e due! il luogotenente e il luogotenuto. Dopo che Glafir si era piantato in famiglia, mamma e sorella non avevano visto altro di più bello; avevano osato persino chiamarlo _bel figliuolo, angelo_, nomi che spettavano a lui Pinotto. Invece per lui c’era venuto e c’era sempre stato un muso più duro del solito. E quella mattina, in cui egli aveva conquistato il secondo posto della scuola e la promessa di un _accessit,_ che cosa gli avevano valuto quel posto e quella promessa di un _accessit?_ Tutto ciò era stato un bel nulla; perchè? perchè Glafir aveva la to...osse.... Oh Dio! Dio saccoccino! Un cane guardato meglio di una creatura ragionevole, fatta ad immagine di Dio, guardato meglio di un fratello di un figliuolo.... Pazienza, se il secondo posto egli non se lo fosse meritato? Ma egli lo aveva guadagnato di _buon giusto,_ con i suoi sacrosanti sudori, senza protezioni, senza raccomandazioni, senza regalare al professore una bottiglia di vermutte, o una scatola di sardine, o un pajo di pantofole; perchè la mamma Placida e la damigella Carolina si sarebbero fatte ammazzare.... si sarebbero fatte.... piuttosto che portare un grappolo d’uva o un garofano al professore del loro Pinotto, e piuttosto che ricamargli una berretta con il fiocco! — IV. L’idea della berretta con il fiocco fece sentire al giovinetto il sole, che gli arroventava il capo scoperto; onde egli si trasferì dall’altra parte dei portici, e quivi seguitò ad almanaccare e a congiurare con sè stesso. — Oh! Chi ha torto in questa questione è anche la società del genere umano. Sicuro! Nelle storie si trovano dei tiranni, che hanno esiliato, rinchiuso e perseguitato Temistocli, Aristidi, protestanti, valdesi ed ebrei; ma non ce n’è ancora stato uno buono a dare un po’ di ghetto o di ostracismo a questi signori cani, che si introducono nelle famiglie ad appropriarsi indebitamente l’affezione dovuta a figliuoli.... Oh, se i nostri consoli sapessero quello che si fanno! — In questo punto alla immaginazione bollente e ridente dello scolaretto si aperse una vallea di una arditezza geografica, a cui banditi da un editto divino, fustigati da sergenti della Guardia Nazionale, spaventati dalle trombe del giudizio universale, colti da sfrombolate davidiche, concorrevano i cani dell’universa terra: giungevano a squadroni, a torme; ce n’erano di tutti gli stampi: veltri del medio evo coperti della loro mantellina di raso con la cassa del petto in curva gentile come i fianchi di un violino, — cani côrsi, con la loro sezione di muso camusa e digrignata come la faccia della morte, — cani che parevano pecore, lavori di monache, ricami di cuscino; avevano tutti la lingua lunga, le costole palpitanti al pari di un mantice; alcuni saettavano l’aria con balzi eleganti; i bassi Glafiri incespicavano ad ogni tratto e facevano pallottola di sè stessi; alle lanciate dei sergenti della Guardia Nazionale, alle sassate dei Davidi guaivano tutti e alzavano, ciascuno una gamba posteriore. Quando tutti si trovarono nella nuova terra di Canaan loro assegnata dalla giustizia eterna, si sentirono serrare alle spalle un muraglione della China, che doveva circuirli per _omnia saecula saeculorum_. Condannati a stridere nel loro Kanato essi si governavano, si mordevano, si mangiavano e si sterminavano fra loro: ritornavano ciò che erano prima del loro incivilimento, lupi e sciacalli. Intanto un angelo gentile con una trombettina da un soldo correva per le famiglie dell’umanità ad annunziare la buona novella: — Bambini, allegri! chè i cani sono andati via, quelli che rubavano i cuori delle mamme e delle sorelle. — Questa fantasmagoria scaricò un po’ la testa a Pinotto dell’odio che lo aveva invaso, mentre egli si trovò davanti alla bottega d’un pizzicagnolo. Ecco lì i tagli lucenti e netti del salame crudo, le teste umide e grigiolate profumatamente del salame cotto, un cuneo di gorgonzola, che gli apriva le insidie del suo seno. Pinotto si ricordò che non aveva fatto l’asciolvere, si sentì strizzare le viscere, venirgli la pancia come un soffietto e discendergli qualche cosa. Egli avrebbe dato della fronte in quei cristalli per mangiare di quelle leccornie. Allora la servilità dello stomaco gli profugò la superbia della testa. Egli pensò, che aveva avuto torto; aveva avuto torto sicuramente a fare quella cattiveria, a fuggire di casa, a rompere un vetro, e.... per che cosa? per la gelosia di un cagnolino, il quale forse poteva aver ragione, lui. Povero Glafir! Sicuro! aveva ragione lui...! Se è ammalato, se ha la tosse.... Povera bestiolina! bisogna avergli rispetto.... e domandargli scusa, se fa bisogno.... e poi la mamma gli vuol bene e comanda così.... E il proverbio dice che chi maltratta il cane.... E i comandamenti di Dio ci obbligano ad ubbidire padre e mamma, se si vuole vivere lungamente sulla terra... E poi Pinotto non è buono a fare lo spazzacamino, egli avrebbe vergogna a strillare i giornali e i fiammiferi.... — Così ruminando, con una fame, che la vedeva, lo scolaretto, grondon grondoni, ritornò indietro; girò i pilastri con una andatura tremola, come il riverbero di uno specchio rotto; salendo le scale con il ticche tacche nel cuore, egli si preparò sulla bocca il più bello e commovente _perdono!_ da povero innocente. Ma comparso sulla soglia della sua casa, non ebbe tempo di pronunziarlo quel _perdono!_ perchè zònfate! L’uragano di uno schiaffo lo stramazzò in terra. Appena potè rilevarsi da quel coperchio di dolore, che lo aveva offuscato, egli strillando e camminando ginocchioni, andò ad avvinghiarsi convulsivamente e quasi ermeticamente alle gambe di sua mamma. — Mamma! mamma! perdono! domando perdono!... ho fame.... — Se hai fame, birbante, guarda lì.... Mangia ciò che ha avanzato Glafir.... Così imparerai a fare il matto, a rompere i cristalli e a scappare di casa all’ora della colazione. — A quella proposta quel bambino si sentì asciutto di lacrime e quasi impietrato; stette cinque minuti senza pensieri, quasi senz’anima; poi si riscosse ad una violenta interrogazione che gli fece la fame e le rispose di sì; si mosse come un’ombra, e andò in un canto a pigliare per terra un piattino nero, che conteneva un intruglio bianco, la minestra lasciata stare dal cagnolino; provò ad accostarsi alle labbra una cucchiajata di quel rimasuglio; ma, appena i suoi nervi sentirono quella schifezza, andarono in rivoluzione. Egli ebbe un sussulto rabbioso di vomito asciutto, lasciò cadere sul pavimento tutto ciò che aveva nelle mani; cadeva egli stesso da tutte le parti, eruttava pianti, schiuma, sospiri, guaiti.... Pareva che quel fanciullo avesse perduta la sua intelligenza piccina davanti a quel baratro di umiliazione e di crudeltà materna. La signora Placida si percuoteva le mani, e rivolta alla figliuola diceva: — Carolina! Carolina! ci mancava anche questo.... che questo dannato si facesse venire i vermi. Va un po’ a chiamare il medico. — Il medico venne, e, dopo aver guarito Pinotto con una settimana di cura assidua, diede alla mamma e alla sorella per metodo di cura preservativa il suggerimento, che gli evitassero qualsiasi occasione di spavento. V. Ma un altro metodo di cura preservativa seppe trovare da sè stesso il ragazzo. Egli, persuaso che la predilezione di sua madre e di sua sorella per il cane non era guaribile, ragionò così: — Quale necessità ho da strusciarmi per avere i primi posti nella scuola e l’_accessit_ in fine dell’anno? Tanto per mia madre e per mia sorella ciò non sarà mai una consolazione, ed esse non tirerebbero fuori una bottiglietta d’aceto nemmanco per _bagnare_ il primo premio, se lo guadagnassi.... Il meglio si è che le pigli per il loro lato debole e faccia la corte al cane: così spero che mi raddoppieranno la pietanza. — In effetto Pinotto divenne tutto ossequio e riverenza verso Glafir. Appena entrato in casa, domandava a sua mamma notizie di lui; gli si metteva intorno a fargli mille smancerie, a interrogarlo, se aveva dormito bene, se aveva sbadigliato bene, se aveva fatto bene tutti i fatti suoi; dandogli sempre del signor lei con puntuale buffoneria. Cionondimeno la mamma gelosa e superba del suo monopolio cagnesco, lo guardava con una cera stupida e piena di compassione, quasi volesse dire: — Che ragazzo ho mai io! Non è nemmanco capace a fare due carezze per bene a un cane! — Ma quando poteva trovarsi a tu per tu con Glafir, egli si rifaceva con franca usura del corteggio da impostore, che si era messo a fargli in presenza della mamma e della sorella. Allora cominciava a dargli del tu con una pedata che gli faceva strizzare la coda in mezzo alle gambe; poi lo costringeva a star ritto in un angolo, cresimandolo con reiterati buffetti; gli accendeva sotto i baffi dei puzzolentissimi zolfanelli da cucina; e fu parecchie volte ad un pelo di impiccarlo. Quindi conchiudeva sempre: — Bisogna proprio ringraziare la Provvidenza perchè ne ha fatta una giusta: non ha data la voce umana ai cani come agli organi delle chiese. Guai se tu potessi parlare, o Glafir, il linguaggio che mia madre parla e capisce.... e raccontarle i dolci trattamenti che ti uso a quattr’occhi! Povero Pinotto! Non mangeresti più un uovo al tegame.... Non è vero, Glafir? Rispondi alle mie _par....role...._ — E giù una nuova pedata. VI. Così crescendo al disamore della mamma e della sorella, Pinotto divenne un piccolo demone beffardo. Passato al liceo, senza menzione onorevole, egli, mantenendosi quanto agli studi in una mediocrità più bronzea che aurea, era però riverito e temuto dai compagni e dai professori, molto più che se fosse stato il primo della scuola. I professori cominciavano a pensare a lui, appena usciti di casa, se si accorgevano di aver messo in testa la tuba nuova; essi riflettevano, ch’era miglior partito ritornare indietro a riporla nella cappelliera; perchè niun cappello era oramai più sacro, dopo l’entrata di Pinotto nel Liceo. Infatti si attribuiva a lui, sebbene non se ne abbiano mai avuto le prove materiali, il terribile caso di un gatto morto trovato dentro il _cilindro_ del Preside nella stessa anticamera della Presidenza. Egli era poi addirittura celebre nel far correre per le vie i cani, i piccoli seminaristi e i ferravecchi ambulanti. Era stato egli quel birbo che aveva tagliato la corda del pozzo al padre del suo compagno di scuola Aurelio Auricola, e perciò li aveva fatti piangere tutti e due e digiunare per una intiera settimana padre e figlio Auricola, di cui l’uno era più avaro dell’altro. Un giorno invitato in campagna dal suo compagnone Edoardo a visitare una stuoja di bachi da seta, egli tenendo sempre irriverentemente il sigaro in bocca, col solito cappello in testa, si mise a spandere grosse boccate di fumo su quei poveri filugelli. Essi disturbati, storditi e dilaniati rizzavano e scuotevano i loro capettini orbi ed ubbriachi in mezzo a quella nebbiaccia e manifestavano un dolore muto, ma così parlante, che la povera madre di Edoardo, la quale li allevava essa e se ne formava la delizia, ebbe voglia di piangere e di ricusare il desinare a quel monello. VII. Erano già trascorsi sette od otto anni dalla scena del cane, quando Pinotto in casa e a scuola si dimostrò serio, tanto serio, che ricusò l’invito di fare sul cartolaro del vicino il solito ritratto del professore di greco, quasi offendendosene. Chi sa che cosa era mai accaduto? Era accaduto, ch’egli era entrato in quel periodo letterario e specialmente drammatico, cui attraversano quasi tutte le gioventù, come attraversano il periodo religioso e quello della tosse asinina. Una sera egli era andato con la famiglia di Edoardo venuta a Torino, era andato al teatro Gerbino a sentire l’_Otello_ da Tommaso Salvini, e n’era uscito mancomale con la testa in visibilio, con la scimitarra del Moro e la pezzuola di Desdemona nel cuore. Nella notte, passioni colossali, ruvidezze tragiche, asinate comiche, applausi, _bis!, fuori!_, versi e coturni gli picchiarono e gli scalpitarono nella testa come cavalli di un circo. Levatosi da letto fece quattordici o quindici proponimenti, e tutti drammatici, fra cui i seguenti: presentarsi alla compagnia del Gerbino e diventare un tiranno come Salvini da interrorire il pubblico, o un brillante come Pieri, da far schiattare dal ridere persino i violini dell’orchestra; scrivere una tragedia di soggetto classico senza le regole aristoteliche dell’unità di tempo e di luogo, per esempio l’_Assedio di Troia_, con scenari in Grecia, dentro e fuori della città assediata e nell’Olimpo, e con l’azione durativa per tutti i dieci anni dell’Assedio; scrivere una ettologia drammatica, _I sette peccati mortali_, un dramma per ogni peccato, cinque atti per dramma, in tutto trentacinque atti; scrivere cento e più produzioni spicciole, di cui egli trovò tutti i titoli e compilò l’elenco accuratissimo seguente: — _La sfida e l’onore_, dramma serio in sei atti con prologo, — _Il Preside del Liceo_, farsa tutta da ridere, — _Il dito mignolo_, scherzo comico, — _Zeri squartati_, id. — _Mascherina ti conosco!_ commedia in due atti, — _Le bestie_, commedia satirica in cinque atti, — _Il brodo delle undici ore_, dramma in quattro atti, — _La spada di Damocle_, commedia di cinque atti in versi sciolti, — _La cantoniera_, id. (stile del cinquecento), — _Titiro e Melibèo_, commedia pastorale, — _Battista l’Orafo_, scene medio-evali, — _Il colèra morbus_, dramma istruttivo, morale, igienico, — _Il testamento olografo_, commedia a tesi, — _Guittone d’Arezzo_, commedia storica, — _Vele perdute_, bozzetto marinaresco, — _L’Inaugurazione del Monumento a Carlo Alberto_, azione mimica con prosa e canto di circostanza, — _Turchi e Cristiani_, dramma di effetto, da potersi tradurre in francese, — _Gentiluomo e Barabba_, id., — _Il giuoco della morra_, dramma popolare, — _Pallida!_ commedia di sentimento in tre atti, — _Pace, guerra e convento_, dramma diurno domenicale, suddiviso in sette quadri, con prologo, epilogo e combattimento ad arma bianca, — _Il ratto delle Sabine_, commedia togata, — _La calata di Annibale_, tragedia, — _Ugone mangiaferro_, id., (costume del mille), — _Vedi Napoli e poi muori_, commedia di tre atti in versi sciolti, — _La guerra delle ragazze bramose di marito_, commedia d’intreccio in cinque atti (imitazione goldoniana), — _Bastardo! — Lo spilorcio, — Il carabiniere, — L’aguzzino, — L’atlante, — Lui, — Lei, — Noi_, commedie di carattere, — _Madama Pataffia_, commedia in vernacolo piemontese, — _Non da vend...!_ id., — _La croce del genio,_ lavoro di polso, — _Chi più ne ha, più ne metta_ — _Cercar Maria per Ravenna — La pelle dell’orso — Nebbie d’autunno — Giuseppe Giusti_, proverbi in versi martelliani, — _Il quarto piano_, commedia sociale, — _La cocca — Misteri di soffitta — Il portinaio del n. 13_, — _Le pericolanti, — La Traviata riverita_, id. — _Il caffè Parigi_, scene della vita universitaria — Parrocchia e municipio, abbozzo di costumi in provincia — _Il mio cappello — La pasta dei topi_, monologhi — _L’Ippopotamo_, commedia in versi sdruccioli di sedici sillabe — _Granchio e Ventola_, quartine rimate (contin. dal Giusti) — _Quella pira!_ ossia _La Strega al rogo — Un duello all’ultimo sangue — Castore e Polluce — La recidiva — Padroni belli — La patria in pericolo — Galoppino — Gli ubbriachi — Una battaglia di serve — Le speranze d’Italia — Don Ambrogio — Un temporale di Biella — Lo studente all’esame e la cuoca del professore — Il debito pubblico — I convittori — Grillincervello — Ciceruacchio, tribuno del popolo — L’imperatore Teodosio — Le Società operaie — Il macchinista e l’artefice — Giuda Iscariota — L’Ebreo Errante — L’Anticristo — Il morto vivo — Re Bomba — Franceschiello — I Francescani — I Francobolli — I Francesismi — Pietro Micca — Il due dicembre — Caligola — Il confessore — I cugini — Gli amici — I fratelli — Le sorelle — Amalasunta — Viola mammola — La contessa nera — Il pretore di Mandamento — Il marchese Lupo di S. Medesimo — Prete Pero — Gambastorta — La Marsigliese — Ermengarda — La battaglia di Maclodio_, tutte commedie, tragedie, drammi, opere, o balletti da destinarsi, a cui aggiunse l’_Atmosfera_, dramma scientifico-fantastico. Egli gongolava nel ripassare quell’elenco, mentre embrioni d’intrecci drammatici gli formicolavano nella testa. Mancomale, gli pareva di avere già stese le commedie, tragedie, ecc., di cui aveva trovato il titolo e già assaporava la voluttà di sentirle recitare e di vederle pubblicate. Che bella figura doveva fare nelle vetrine dei librai il _Florilegio drammatico di Giuseppe Panezio, tragedie, commedie_, ecc! Quel _Florilegio_ egli lo leggeva già stampato nei bei ghirigori di quei caratteri di lusso, che hanno la cuffia arabescata, la coda da scojattolo e le zampe di mosca, tutto ciò sopra una superba copertina verde e ghiacciata. Tutta questa sua confusione di disegni sbalorditoi, si concretò infine nel cominciare una tragedia di soggetto romantico in istile classico, _Alboino_, non compreso nell’elenco. Egli attendeva amorosamente e gelosamente a questo lavoro, e vi portava un pensiero così assiduo, che i suoi compagni vedendolo continuamente astratto cominciavano a dire: Pinotto diventa anche lui un minchione; — e i professori trovando, ch’egli non sapeva mai la lezione, e non faceva più addirittura i temi, e aveva persino perduta quella sua antica e maliarda usanza di dar loro soggezione e quasi d’intimorirli, si permettevano di dargli dei grossi pensi. Però.... che cosa erano mai le derisioni dei compagni e i castighi dei professori davanti alla gloria? Nè questa gloria egli la agognava solo per sè; da bel cuore, quanto non si sarebbe da nessuno sospettato, Pinotto voleva darne una grossa fetta a sua mamma e a sua sorella; anzi nella propria gloria egli vedeva più che tutto la loro allegrezza; e si diceva spesse volte nel suo sè: — Ah! mia mamma si accorgerà della differenza che passa fra un figliuolo, che è buono a fare delle tragedie, e un cane, il quale è solo capace di stracciare la fodera del sofà! — Questo suo sogno era circonfuso di molto pudore; tantochè per scrivere l’_Alboino_, egli si trincerava dietro un bastione di libri legati, acciocchè niuno sguardo profano pervenisse sulle pagine vergate dal suo furore poetico, e quando andava a scuola, le chiudeva nel cassetto con un doppio giro di chiave. Ma un giorno la mamma e Carolina, insospettite di quel secretume, fecero una violazione di tavolino, e, sforzata la serratura, n’estrassero il corpo del delitto. Pinotto, di ritorno dalla scuola, salendo le scale, sentì uno strano vocio in casa sua, come un abbajamento di cani e di ragazze. Appena giunto nell’anticamera, egli restò freddo, vedendo il suo scartafaccio in mano a sua sorella, che, china a terra, lo leggeva a Glafir ritto in un angolo. — Bravo! ben arrivato! Giusto lei, signor autore tragico! Non sapevamo mica... Gli facciamo i nostri complimenti.... Belle cose! Gli batteremo poi tanto le mani.... Bene! Bene! C’è già qui Glafir che studia la sua parte.... Non è vero, Glafir? Coraggio! Fallo un po’.... Se lo facevi già prima tanto bene!... Non avere il timor panico per la presenza dell’autore.... Fallo un po’.... _Bo.... Bo.... Boino! Boino! — _ Glafir si mise ad abbaiare da minchione; e la sorella contenta come una pazza. — Sì! _Boino! Boino!_ Bravo Glafir! Bravissimo! _Boino! Boino!_ Hai sentito, fratello? Glafir si è già presa la prima parte, quella di Alboino. — Allora la madre per coronare l’opera: — Pinotto! Invece di occuparti di queste minchionerie, faresti meglio a _studiare d’aritmetica_, e a imparare a servire la messa, come faceva da buon cristiano la buon’anima di tuo padre, quando era alla tua età. — Pinotto andò a piangere in un luogo innominabile ed uscì da quel pianto più beffardo e più cattivo di prima. VIII. Andato a scuola, — mentre il professore di matematica, che aveva il vizio di ripetere _per avventura_ ogni due minuti, spiegava sulla lavagna una _formula per avventura più lucida del cristallo_ e mentre dominava nella scolaresca il più religioso silenzio, Pinotto emise una voce parlamentare. — Domando la parola. — Che cosa vuole? — gli chiese il professore, interrompendo la sua formula, con un viso da carceriere spaventato. E Pinotto con la placidità angelica di chi ha mille ragioni dalla sua: — Favorisca scusarmi, signor professore, se l’ho _per avventura_ disturbato. Voleva dirle soltanto che dal mio posto non si possono vedere le cifre che ella scrive _per avventura_ sulla lavagna. Il professore, sentendo nelle vibrazioni sicure della voce di Pinotto e vedendo nella faccia invetriata del medesimo risorgere l’antico e terribile suo persecutore, per quietarlo, fu lestissimo a restringersi in un angolo della lavagna, riducendosi tutto storto, e più sottile che potè. — Così ci vedrà per avventura.... — Grazie, egregio signor professore! Intanto, profittando della nuova positura dell’egregio signor professore, gli soffiò nella schiena da un cannoncino di penna d’oca quattro scarafaggi. Quindi immediatamente: — Signor professore.... — Ebbene! che cosa c’è di nuovo adesso? Io per avventura.... — Si guardi.... Ella ha _per avventura_ una bestiolina sul colletto.... — Grazie, grazie! — rispose il bersagliato professore, vieppiù oscurandosi e spingendo via da sè l’animaletto con la punta della penna. — Signor professore.... — Ma.... per avventura.... — Ella ha un’altra bestia, anzi due bestie.... tre bestie, signor professore, che si arrampicano _per avventura_ sulla sua schiena. — Sì! sì! Grazie. Così dicendo la povera vittima diede una scrollatina alla giubba per liberarsi di tutto quanto il bestiame appiccicatogli, che cascò sul piedestallo della cattedra, poi lo pestò, strisciando i piedi con fretta rabbiosa. — Oh, signor professore. — Auff! mio Dio!... Mi lasci stare.... Voglia terminarla finalmente di.... — Scusi.... Ella non ha più _per avventura_ veruna bestia.... Desideravo soltanto pregarla, che stesse pure comodo, avendo scoperto finalmente la vera ragione, per cui dal mio banco io non posso vedere le cifre, qualunque sia la posizione che ella si degni di prendere, egregio signor professore, _per avventura_, alla lavagna.... Sono.... le orecchie del mio amatissimo amico Aurelio Auricola nel banco dinanzi, quelle che mi impediscono _per avventura_ la visuale. Quindi la prego in cortesia di voler traslocare l’onorevole (frugando con il dito mignolo in un orecchio) Auricola dal primo banco e di mettervi nel suo posto un altro compagno di orecchie _per avventura_ più decenti. — La scolaresca zittiva con una voglia frenetica di ridere. Il professore si sentiva scappare dalla testa persino la soluzione della sua formola, e le trottava dietro in silenzio per raggiungerla; onde Pinotto, fatto più baldanzoso nella sua canzonatura, riprese: — Signor professore, se ella _per avventura...,_ — strisciando con un languore ineffabile su quel _per avventura_. A questo punto il professore si riscosse, illuminato dalla necessità di porre un argine a tante offese sue e del suo intercalare, e proruppe: — Taccia, signorino, e... faccia silenzio. Mi sono accorto, sa, che ella vuole disturbare l’ordine della scuola con i suoi motteggi.... Ella vuole compromettermi.... Ho capito.... Impertinente! Che cosa vogliono dire tanti _per avventura_ detti a marcio sproposito? Ella m’intende e mi capisce.... Ma io saprò far rispettar me ed i miei _per avventura_...... Io farò chiamare il preside.... il bidello.... La farò cacciare dal Liceo.... Così le insegnerò io ad essere per avventura meno discolo.... Impertinente! — Lo scolare con la solita sua calma da diplomatico: — Non _salti_, egregio signor professore.... _Non dia ne’ lumi_.... Io impetro puramente e semplicemente l’esercizio di un diritto che _per avventura_ mi spetta... Mia mamma paga la minervale, ed io venendo a scuola ho diritto di vedere e di imparare ciò che ella ha la bontà di scrivere sulla lavagna, facendo eziandio tesoro delle sue _frasi da ritenersi_. È un diritto che io sono disposto a far valere _per avventura_ davanti a tutte le autorità, _vuoi_ civili, _vuoi_ scolastiche, sì militari, sì politiche, deliberato eziandio a porgere una acconcia petizione alle Camere.... Ella capirà.... — Taccia... e parli..... — Farò così.... Ella capirà che io non posso esercitare il mio diritto e il mio dovere di apprendere l’umano scibile, che _per avventura_ nelle scuole si imparte, se _dovunque il guardo io giro, Immenso Dio!_ veggomi davanti l’amico Auricola, che mi nasconde ogni scienza ed arte con il padiglione delle sue orecchie. — A questo _padiglione_ la scolaresca scoppiò in una risata, che teneva da lungo tempo repressa: e rise _per avventura_ lo stesso professore, il quale spinto dal desiderio di ritornare alla sua formula e di sfogarsi sopra un facile paziente, non che di stornare da sè la parte di ridicolo, che gli spettava, si rivolse ad Aurelio con una durezza da croato: — E lei si alzi, Macaruffo Lasagnone! Lasci il suo posto, sciocco! e vada a sedersi nell’ultimo banco sotto il Crocifisso.... Così per avventura non farà più ombra a nessuno con le sue vele, orecchiuto asinello. — Il povero capro espiatorio, verde come un ramarro, fece il trasporto della capitale, fra il tumulto delle risa dei compagni, che movevano le loro mani nella vicinanza delle orecchie, come fossero palette, dando alla vista un effetto di conigli; tumulto che il professore fece tosto cessare, ripigliando la spiegazione della sua formula. Terminata la scuola, quando gli studenti uscirono fuori a respirare l’aria libera, Pinotto quatto quatto prese d’assalto le orecchie di Aurelio, e tirandole con grande forza si mise a ragliare come un asino di cartello: — Ij.... à.... Ij.... à.... Ij.... à — frammettendo agli Ij... à il fischio rantoloso dei cantori di maggio. IX. Divenuto più prepotente di prima, Pinotto anelava di trovarsi lontano dalla sua famiglia per essere maggiormente in libertà, ed anche per togliersi davanti il testimonio quotidiano della sua disaffezione verso la madre e la sorella. L’occasione gli venne opportunissima, terminato il liceo. Allora con la scusa di saltare un anno di università, egli ottenne dalla mamma di andare a studiar matematica nella università libera di Camerino. Quivi, padrone finalmente di sè stesso, libero di mettersi un paio di guanti nuovi alla festa, libero di andare a scuola negli altri giorni o di andare a cavallo, libero di giocare al faraone e d’andare a letto nell’ora che gli piaceva di più, egli studente _puro sangue_ si sentiva rinato; e in questa baldoria di libertà personale e di felicità, egli sentiva a un tempo di riamare sua madre e sua sorella. — Povere donne! — egli diceva fra sè: — Ho torto io a pretendere, che esse sappiano più di quello che hanno studiato. Con i loro difetti e con la loro semplicità, esse mi sono ancora più care.... Quando ritornerò a casa, voglio dare a loro un abbraccio stretto così!... — E al buon giovane pareva già di abbracciarle. Di lettere ne mandava di rado a casa, perchè anzitutto egli tra il proteggere le ballerine, il fumare, lo spolverare i calzoni con il frustino, il far la corte alla figliuola del colonnello di fanteria ed altre studenterie universitarie, non trovava il tempo per iscrivere, e poi quattro soldi gli scappavano sempre per una tazza di caffè o per quattro sigari Cavour, o per una mancia ad una portinaia, che recasse un vigliettino amoroso, e non ne aveva mai quattro che gli puzzassero per la compera di un francobollo. Ma senza scrivere pensava continuamente alla famiglia. — Povera mamma! Chi sa che cosa farà adesso? Povera vecchia! Si incamminerà a messa.... A quest’ora forse Carolina laverà il cane e la mamma lo terrà su ritto e fermo, che non si muova. Povere creature! — Finito il primo anno di università, egli ritornò a Torino, come andasse a nozze. Divorò la scaletta piena di tanti ricordi elementari, ginnasiali e liceali. Alcuni sgorbi da lui disegnati con il carbone parecchi anni prima sulla muraglia del pianerottolo, fra cui il ritratto di un asino e quello di Aurelio Auricola, gli diedero una stretta al cuore. Vista la mamma, le si buttò addosso, come volesse mangiarla. — Caro Dio! A momenti mi soffochi e mi mandi la cuffia per traverso! Che soldataccio! Sono queste le creanze degli studenti di Pisa?... — Vengo da Camerino, mamma, e non da Pisa.... — Non importa.... Vieni pure di dove vuoi; ma hai imparato poco, mio caro, se sei ancora così disadatto.... Ebbene, del resto, hai finito tutto? L’hai presa la laurea? — Che laurea! Ho appena finito il primo anno.... — Oh cara vita! Quante bugie! Non mi avevi detto, che andavi così lontano, andavi a Pisa.... — A Camerino, mamma! — Pisa, verdone o canerino fa tutto lo stesso.... Non mi avevi detto che andavi.... dove sei andato, per finire più presto? Caro Dio! E adesso mi conti che non è ancora finita questa storia. È lunga, sai! Mi costa, sai, mantenere un figlio fuori di casa a fare il signore.... Ah! era meglio che tu avessi imparato subito qualche mestiere, e ti fossi messo a fare il sellajo, come lo faceva onoratamente la buon’anima di tuo padre. Santa Pazienza! Santa Pazienza! E adesso, quanti anni ti rimangono ancora da fare? Quanti? — Quanti! Quanti! Cinquecento, — rispose il figlio con un dispetto pochissimo dissimulato. — Persino il portinaio da basso sa, che per pigliare la laurea da ingegnere ci vuole maggior tempo che per prendere quella da ciabattino.... Ma Ella, signora madre, più che tutta la scienza, forse amerebbe meglio che io le portassi innanzi un bel basto da somaro lavorato con le mie proprie mani, non è vero?... Quanti! Quanti! Piuttosto io dovrei domandare a Lei, signora madre, quanti cani si sono introdotti nella nostra casa, durante la mia assenza. Oh, buon giorno, sorella. — In quel punto si era aperto l’uscio interno dopo pareccbie graffiature; ed insieme con Carolina aveva fatto irruzione una cagnara di sette cani, prima di tutti Glafir, il quale, riconoscendo Pinotto, si degnò di schiacciarsi in suo onore sul pavimento, dondolandosi e poi facendogli intorno quattro o cinque salterelli da ranocchio. Roma, la compagna data a Glafir, e i suoi cinque cagnolini, che come dice la Scrittura, _ignorabant Ioseph_, cioè non conoscevano Pinotto, lo guardavano con certi occhi _sui generis_, proprio cagneschi, quasi volessero dire: che cosa è venuto a fare questo forestiero in casa? Che diritto ha egli di trattare con tanta domestichezza le nostre padrone? Anzi Roma, dopo essere dimorata un poco nella sua posizione di ignoranza sospettosa, si mise ad ululare a canne ritte e spalancate verso Pinotto; ed uno dei suoi cagnolini, incoraggiato da questo contegno materno, si avvicinò alle gambe di lui per addentargli i calzoni. Allora Carolina: — Zitta, Roma! Vieni qua.... Poverina! Non ti conosce ancora.... Vieni qua; te lo presento io. Questo qui è quel birbo di mio fratello, di cui abbiamo parlato tante volte insieme, e che si piglierà ben guardia dal farti qualsiasi disprezzo. Del resto noi gli tireremo le orecchie; non è vero, Roma? Ah, che bellezza di una cagnetta! Che cosa ne dici, fratello? È vera _grifona_, sai. Oh, dillo tu, Roma, dillo tu, se non sei proprio una gran bella bestiolina.... Devi sapere, Pinotto, che ce l’ha regalata, appena sei partito tu, il teologo Sturlimandi, ce l’ha regalata, perchè la sua cuoca non aveva nessuna pazienza a tenere queste bestie fine, come devono essere tenute. Egli l’aveva portata da Roma un anno fa, dove era andato per vedere i vescovi del Consiglio Catecumenico; e l’ha proprio avuta da uno dei primi amici del maggiordomo di un cardinale; per cui questa bestia quasi si può dire papale. Sicuramente! È per questo che il teologo l’ha voluta chiamare Roma. La birrichina, appena venuta da noi, ha subito comperato i suoi cagnolini. Li abbiamo allevati tutti, perchè sono tanto belli.... cioè ne abbiamo fatto perdere soltanto uno, perchè era nato quasi morto. Se avessi veduto, che importanza si dava questa cagnolina, quando era in _pagliola!_ Voleva che le dessimo da mangiare noi nella cuccia, proprio come ad una mammina. Poi, quando abbiamo dovuto battezzare (uh! uh! che eresia dico mai! volevo dire metterci il nome a tutti i suoi birrichini), abbiamo voluto fare le cose proprio come si deve, e li abbiamo denominati in inglese, come è l’ultima moda; anzi per avere i nomi inglesi proprio giusti, siamo persino andate in compagnia del teologo a parlare con un prete sopra la Gran Madre di Dio, il quale è stato a predicare in Inghilterra. Ecco: questo qui si chiama _Dear_, che vuol dire carino, questo qui _Black_, che vuol dire Moretto, questa qui è tota _Miss_ e questa qui madama _Lady_. Finalmente questo birrichino, che voleva morsicarti i calzoni, indovina un po’ come si chiama?... Questo non si chiama più in inglese, si chiama _Come te_.... Ah! Ah! Ah! Gli abbiamo voluto mettere questo nome faceto per minchionare la gente. Qualche curioso domanda: Come si chiama questo cagnolino? E noi senza offenderlo: _Come te, Come te_. Non è una cosa da crepar dal ridere, caro fratello? Se vedessi poi, che prodezze sanno fare tutti quanti! _Come te_, quando gioca con il gatto della portinaia, è un vero amore. Lo dicono tutti. — X. Pinotto non potendo più resistere a quel panegirico cagnesco lo troncò: — Basta, basta! Ho inteso; mi rallegro tanto.... — In quel punto, se avesse ascoltato la sua voglia, avrebbe pigliato in una bracciata tutta quella canaglia e l’avrebbe scaraventata nella via a costo di contravvenire a qualche regolamento municipale fracassando il cielo di un omnibus o la testa dei passaggieri, ma seppe frenarsi e domandò licenza di uscire subito, per andare a vedere qualche amico. Appena disceso nella strada, inciampò un sergente furiere, suo fratello di latte, a cui piaceva ubbriacarsi. — È la Provvidenza che mi ti ha mandato innanzi, Teodoro. Se non avessi incontrato te, sai, sarei ritornato indietro e avrei commesso un canicidio di sette persone. — Al caffè, dopo la sbornia, trovò Edoardo ed altri amici, che lo invitarono con loro in campagna. Così egli poèò sottrarsi per un mesetto alla stucchevole necessità di vivere con tanta _cagneria_. Ma ritornato finalmente fra le mura domestiche, egli fu condannato a pensare cento volte al giorno: — Come sono felici coloro, che vivono lontani dalla famiglia! Escono dall’ufficio, vanno a pigliare il vermouth, vanno a pranzare in pensione. Chi ne racconta delle più grosse è più bravo; alla sera al caffè, e sempre allegri! Essi non hanno mai fra i piedi un cane casalingo, o il malumore di una madre o di una sorella o altro accidente di famiglia che loro rivolti l’anima. — Per la noja dei cani egli non poteva più nemmanco soffrire la dieta di casa. — Sempre spinacci! Sempre spinacci! Sempre zuppa! Sempre zuppa! — L’immagine delle bistecche del caffè del Cambio gli pareva il _non plus ultra_ della felicità terrena. Ogni anno, ogni mese, ogni giorno, ogni minuto, gli facevano vieppiù afa quel continuo parlare e quel continuo preoccuparsi dei cani, in cui infierivano sua madre e sua sorella. — Guarda, Pinotto! _Dear_ ha un mantello così fino che sembra seta. — Quest’oggi davanti al caffè Fiorio due signori si voltarono per guardare _Come te_. — Ah! Se volessimo vendere _Roma_, ci darebbero per lo meno novanta lire! Quante contesse la vorrebbero questa brutta leccapiatti! — Anzi la comprerebbero gli inglesi, la comprerebbero!... A tutto questo mare di fastidio diede il trabocco un avvenimento da _gazzettino della città._ XI. In tutto il vicinato per cagione dei disturbi di quel popolo di bestie, la signora Placida e la damigella Carolina erano molto mal vedute, anzi erano chiamate addirittura l’una _la Madre_ e l’altra _la Sorella dei Cani_. Sola a trattare con gentilezza officiosa verso le medesime era _Ortensia la verdurera_, che abitava una soffitta al disopra della famiglia Panezio. Essa, quando le incontrava per la scala o sul pianerottolo, si fermava rispettosamente per dar loro il passo e non risparmiava mai i suoi complimenti alla madre, alla figliuola e alla tribù dei cani; anzi una volta diede persino una crosta di formaggio a _Come te_. L’Ortensia aveva la faccia rosata ed i capelli grigi, ed era un donnone membruto, pesante e quasi emisferico, come ha tutti i diritti di essere una vecchia erbajuola. Ebbene, una mattina la grossa Ortensia usciva dalla sua soffitta, mentre _Come te_, ancora tutto sonnacchioso, uscendo dal suo rastrello, andò a cucciarsi sotto il primo gradino del quarto piano, e lì se ne stette acciambellato e immobile, come un biscione, che facesse la siesta dopo essersi imbottito di un uccellino. Intanto l’erbajuola discendeva gravemente e fatalmente le sue scale. All’approssimarsi del rumore di quelle pedate elefantesche, il malaugurato _Come te_ non pensò punto di muoversi; ma dondolava poltronescamente la testa quasi per cacciare la dormiveglia, che gli si era appiccicata addosso. Quaicc!... Ad Ortensia venne il fulmineo raccapriccio di avere schiacciato qualche lordura molle, se non che uno strillo di bestia, che vuol mordere e spira, la fece avvertita di avere sfracellato il povero _Come te_, il quale pareva addirittura squagliato e attaccato al pavimento come un sacchetto di songia. Staccatolo dalla lastra e levatolo per uno zampino, ancora caldo, la vecchia avrebbe voluto risuscitarlo medicandolo con la sciliva; quando si spalanca il rastrello e si annunzia con una sonora rastrellata la signora Placida. Vedere quello spettacolo, inveire come un’ossessa, arrotarsi come un’asina, poi rivoltarsi come una vipera e vibrare una enorme ceffata sulle guancie rosate di Ortensia, fu tutt’uno. Questa, che tutta mortificata, con il cadavere di _Come te_ penzolante da due dita, era disposta a domandarle scusa, — a quell’assalto divampò in tutta la sua escandescenza di erbajuola, lanciò il defunto _Come te_ fra i piedi della signora Placida, e piantò due pugni sui galloni in minaccia formidabile. — Madama! Ah, Madama delle mie prime ciabatte! (Le erbajuole, anche quando si prendono per i capelli non trascurano di darsi della _madama_ e lo pretendono per sè stesse) — .... Madama del latte d’oca e dell’anticristo!... Le mani addosso a me, le mani addosso a me, che non ho paura nemmeno di un reggimento di dragoni! A me che sono un trono di Dio! A me, che le rompo i denti, anche fosse un croato, se non avessi paura di sporcarmi.... A me, che sono capace di mangiarla in un boccone lei e i suoi undicimila cani!... Ah! Cane di un Dio!... — E s’avventa alla cuffia della signora Placida, la scrolla, la strappa. La _Madre dei cani_ cerca di difendersi dando, come può, delle pugnate sulla schiena grassa di Ortensia, che non patisce quelle piccolezze. I capelli grigi delle due vecchie lucevano come fili di ferro elettrici. Ne seguì una deplorevole colluttazione. Carolina uscì strillando dal suo cancello e con lei il reggimento dei cani superstiti, che si misero ad abbajare. Tutto il vicinato si agglomerò di su e di giù pella scala, prendendo di mezzo le combattenti. — Ha ragione Ortensia. — Ha torto madama! — Ha torto il padrone di casa, che lascia nidiare tanti cani in questo palazzo, che è sempre stato come si deve. — Ha torto anche il questore. — Il barbiere corse a prender un catino d’acqua per ismorzare le due furie. Patacciumm! In questo punto comparve sulla scala Pinotto, che veniva di fuori. — Per carità! Mamma, si rispetti, guardi come è bagnata.... Entri in casa.... Venga con me.... — Anche tu, Pinotto.... Invece di far rispettare tua madre! Ma.... adesso non si può proprio pretendere più nulla nemmeno dai figliuoli. Ah! L’ho sempre detto io, che non c’è più religione. Non si ascoltano più i comandamenti di Dio.... — Per carità, mamma! Mi ascolti.... me. Si rispetti; non istanno bene le piazzate. — E facendole forza la trascinò in casa. L’erbajuola, con le spalle fumanti, seguitata da un mormorio di approvazione, risalì verso la sua soffitta, e appena fu nel suo quinto cielo lanciò da basso un’ultima saetta partica: — Madama del mio scaldaletto! (dandosi una patta di dietro). Madre dei cani! — E la signora Placida di rimando, uscendo di nuovo dal cancello, con il viso inferocito in su: — Madama di due quattrini in aria! Madama dei cavoli marci! — Gli astanti per una parte e Pinotto dall’altra impedirono ulteriori battibecchi per quel giorno. Il giorno seguente la signora Placida riceveva una citazione di comparire davanti al Giudice Conciliatore, a fine di essere condannata al pagamento a favore della istante Ortensia Mellario della somma di lire trenta per _schiaffo ricevuto_; e contemporaneamente la Ortensia Mellario era evocata a comparire alla stessa udienza dello stesso Conciliatore per ivi vedersi condannata al pagamento a favore dell’attrice signora Placida Panezio della proposta somma di lire cento per _cane ucciso e varî effetti di vestiario manomessi_, il tutto con gli interessi dalla giudiziale domanda, la protesta dei vacati e il favore delle spese. Da queste citazioni gemelle scaturirono tre lepidissime scene giudiziarie, delle quali si potrebbe trarre moltissimo partito, se le medesime non fossero già state sfruttate alla distesa nelle _Rassegne dei tribunali_. La prima scena ebbe luogo prima dell’udienza nell’anticamera del Conciliatore; la seconda davanti il Conciliatore, che, riunite le cause, si dichiarò incompetente per giudicare d’ambedue, nell’una per ragione di _materia_ e nell’altra per ragione di _valore_; la terza infine, la più violenta di tutte, capitò dopo l’udienza in via delle Finanze; mancomale in tutte e tre il dignitoso appellativo di _madama_ fu sempre accompagnato dagli epiteti _meno lusinghieri e meno parlamentari_, come si espressero i gazzettinisti. Le due litiganti, dopo le più scandalose _madamate_, si staccarono più accanite di prima: e pure terminarono il loro diverbio all’unissono, brontolando tutte e due la stessa sentenza votiva, cioè _che il cielo fulminasse quella giustizia di Pilato!_ XII. Questo stato di cose canino era oramai insopportabile per Pinotto, il quale, a forza di pensarci su, finì per accettare _un’idea luminosa_, che gli era apparita nel cervello per suggestione del suo antico compagno di scuola Aurelio Auricola, allora sostituito procuratore non del Re, ma del Causidico Capo Barattini. Pinotto era maggiore di età, quindi aveva diritto di entrare nel pieno possesso della eredità intestata morendo dismessagli dal fu suo padre, salva la porzione legale di usufrutto materno, e salva la legittima del sesto spettante a sua sorella secondo il Codice Albertino, sotto il cui impero il _de cujus_ erasi reso defunto. Aurelio s’incaricò egli stesso di consultare i notai, gli uffici di registro e le ipoteche, e dopo queste ricerche venne a dirgli che poteva pertoccargli subito in sua parte dispotica una ottantina di migliaia di lire. Fu un lecchetto irresistibile per Pinotto, interrotto da qualche amarezza di rimorsi preventivi, a dileguare i quali il sostituito procuratore si offerse di fare tutto lui. Infatti, mentre Pinotto andò di nuovo in campagna dall’amico Edoardo, lasciava la sua procura ad Auricola; e questi cominciò a scrivere una lettera gentile alla signora Placida, poi si recò a visitarla personalmente, ma inutilmente; infine concluse: se la signora Placida è dura, con una piccola citazione, la faremo venir tenera. Appena ricevute le _copie_, la signora Placida andò su tutte le furie, poi si recò a prendere un consulto da un avvocato classico, non che da un ex-cancelliere, suo conoscente e dal suo confessore teologo avvocato Sturlimandi; e avuta da tutti la risposta, che pur troppo suo figlio era assistito in diritto, sborsò ad Aurelio le ottantamila lire, dicendo però a lui e ripetendo a tutti i conoscenti, ch’essa aveva perduto suo figlio. Pinotto, avuto nelle mani quel marsupio, cominciò a lasciarne un buono strappo ad Aurelio, dichiarandogli la propria ammirazione, assicurandolo ch’era addirittura un grand’uomo e nominandolo suo ministro di grazia e giustizia; quindi prima di partire da Torino, per isgombrare subito tutti gli scrupoli possibili ed immaginabili dalla nuova strada trionfale, che gli si apriva dinanzi, cominciò con una solenne birboneria. Invitò tutti i suoi numerosi amici e con maggior contentezza e preferenza di cuore i nemici ad _un’orgia_, come diceva testualmente il biglietto d’invito. Intervennero alla medesima, oltre moltissimi giovanotti, alcuni personaggi maturi e rispettabili, e trovarono alcune giovani persone di sesso diverso, vestite con molto sfarzo ed eleganza, ma molto meno rispettabili dei predetti. Venne invitato anche Aurelio Auricola, a cui non pareva vero di dover pigliare parte a quel finimondo di baldoria, egli che non aveva ancora mai speso più di 15 centesimi in un colpo per i suoi minuti piaceri e che un sigaro da un soldo lo faceva durare per un’intiera settimana, usando spegnerlo dopo due o tre boccate e quindi avvilupparlo in un cartoccio di gazzetta o in una scatoletta di lamiera vuota di fiammiferi. Aurelio intervenne con un vestito da sacrestano e con un cilindro ammaccato da fiaccherajo, che furono il tema di parecchie risate in tutta la notte. Alle due del mattino, Pinotto, tenendo un mantile sulle spalle, come fosse un manto, reggendo tragicamente un candeliere con una mano e portando un inaffiatojo in testa, declamava il monologo di Amleto: _Essere o non essere_. Una di quelle signore pochissimo rispettabili si proponeva di andare al Veglione dello Scribe a cavallo di un asino. Parecchi invitati di ambo i sessi ballavano sotto la tavola. Un avvocatino, supino per terra e con un imbuto in bocca, si faceva versare dentro del vino, come lui fosse un bottale. Aurelio guardando attorno, che nessuno lo guardasse, rimpinzava di confetti le lunghe saccocce di dietro dal suo frac da sacrista. Passata una settimana giusta da quella nottolata, gli invitati, senza sapere l’uno dell’altro, si recarono poi tutti a farsi visitare da un medico famoso e convennero tutti nel giurare che quel birbante di Pinotto lo aveva fatto apposta.... a lasciare loro quel brutto ricordo. XIII. Che cosa faccia un giovinotto di ingegno cervellotico, mezzo artista, a ventidue anni, libero di sè, avendo a sua disposizione qualche decina di migliaja di lire, senza un affetto e senza un impegno di famiglia, è presto detto. Compera intiere biblioteche di libri nuovi: tutta la raccolta del Le Monnier, quelle della Tipografia Editrice Lombarda, tutti i Barbera e la cassetta dei Barberini, tutte le fodere rosse del Silvestri, tutti i classici latini pubblicati dal Boucheron, tutti gli Economisti di Pomba e tutta l’edizione definitiva delle opere di Balzac. Gli sembra di dovere nello spazio di due minuti secondi sprofondarsi in tutti gli abissi della scienza e poi sbadiglia, tagliando i fogli a qualche fascicolo. Si diverte a far correre una rozza da nolo, come fosse un cavallo da corsa conquistatore di bandiere; gongola dei suoi affanni e delle sue spossatezze come di cose artistiche; e la finisce con una pistolettata per fare un’opera di misericordia, e per godere i tratti scultorii di una _morte equestre_. Compera uno struzzo e una bestia feroce per ispaventare gli amici e per imitare Alfonso Karr; e poi vende le sue rarità zoologiche ad un macellajo. Viaggia di qua e di là senza costrutto. Affitta al piano nobile un alloggio mobigliato elegantissimamente, da prima ballerina; e poi affitta magari contemporaneamente uno stabbio ad un quinto piano. Piglia una sedia chiusa al teatro nelle sere preziosissime, in cui c’è la prima rappresentazione di un capolavoro sospetto o in cui recita un artista celebre di passaggio, come Rossi o la Ristori; ed egli, appena sentita la musica di introduzione, che nei teatri di commedia è quasi sempre orribile, esce fuori e lascia il suo seggiolone vuoto, che sembra aspetti qualche principe di Carignano; e non si degna nemmanco di sentire un’acca della nuova _produzione_ o di vedere il naso celebre, che tutti gli altri pigiati, con la lingua fuori dei denti e lo stomaco rotto, anelano d’applaudire. Egli disprezza tutti: i moscardini come asini e gli studiosi come pezzenti. Veste come marchesini i figliuoli del portinajo, che prima andavano strappati e scalzi. È ricevuto, come uno dei primi nel gran mondo, perchè porta le migliaja di lire in palma di mano e le spende con una prodezza e una freddezza da disgradarne Rodschild; ed è ricevuto come uno dei primi nel mondo letterario, perchè egli ha sempre un capolavoro inedito, che nessuno non ha ancora potuto criticare, perchè nessuno non ne ha ancora letto una riga. Pare che gli passino rasenti le cariche di ministro e di ambasciatore e ch’egli sbadigli loro dietro. Egli commisera cordialmente i suoi compagni che mettono su studio o accettano un impiego e dice con sicurezza, che nei nostri tempi un giovane d’ingegno non ha più bisogno d’inebetirsi per non morire di fame, perchè ci sono tanti concorsi di cattedre, premi, ecc. Intanto egli, vedendosi assottigliare velocemente il proprio peculio, pensa vagamente a qualche rinfranco straordinario. Veramente egli non ha ancora tutti i comodi per degnarsi di diventare un grand’uomo; ma pure deve spicciarsi per quella materialità del mangiare bene e del vestire meglio. Il bisogno epicureo di fare il signore vieppiù gli si avvicina; e i grandi posti vieppiù si allontanano da lui, si allontanano.... Ma, neppure vedendosi crescere la marea delle necessità, egli non sa adattarsi a disegni modesti. XIV. Pinotto ritornò presto a Torino. Quivi un giorno, andando a passeggio con l’amico Edoardo il quale gli manifestava il disegno di diventare uno dei primi avvocati in una città di provincia, egli lo condusse sopra un colle, come fece il diavolo con Gesù Cristo, e gli disse: — Tu tiri di conquistar Verona o Vercelli, ma io appena mi accontento di conquistare il mondo. — Ciò detto, si calzò due guanti di color grigio perlato, a doppia cucitura e a doppia bottoniera, e si diede una stiratina ai baffi, quasi ciò gli bastasse per prendere il genere umano di sottogamba. Risoltosi al fine a fare qualche cosa, mandò un suo imparaticcio a una Accademia o a una Giunta incaricata di dare un premio alla migliore commedia o alla migliore monografia sui Giurati o sui Zampognari in Italia. Il premio egli non lo buscò a quel concorso; anzi a tempo debito, il suo manoscritto gli venne restituito indietro ancora _intonso_, come egli potè materialmente assicurarsi, verificando tuttavia attaccati insieme gli orli di due pagine, che egli aveva appositamente ingommate per conoscere, se i giudici leggevano o non leggevano i lavori, che dovevano giudicare. Adunque gli accademici non si erano nemmanco degnati di aprire il suo volume; ebbene lo rileggerà egli tante volte, quante bastino alla brama insaziata di un autore inedito. Dio mio! Egli non potè procedere oltre alla prima pagina, perchè quella roba gli faceva venire i crampi allo stomaco. Gli sembrò la prosa più abbominevole, che si fosse mai buttata giù in questo mondo letterario. Allora, come un pazzo furioso, si mise a stracciare il suo lavoro; stracciatolo, lo calpestò; calpestatolo ben bene, ne pose in fuga i laceri pezzettini, anche quelli, che aderivano al pavimento; li scopò via tutti fuori del balcone; e quando li vide mulinare giù per l’aria, li maledisse ancora una volta, sputando loro contro. Uscito a fare una corsa per la città, voltandosi attorno, gli parve di accorgersi per la prima volta, che a Torino c’erano dei giovani, che studiavano e sapevano qualche cosa e che pubblicavano dei buoni componimenti in italiano e delle rispettabili traduzioni dal greco, dall’inglese e dal tedesco. Ed egli con tutte le sue pretese non sapeva ancora niente di tedesco, poco di inglese e di greco, e pochissimo di italiano. Lo assalse la vergogna e gli sopravvenne la fulminea idea di presentarsi al Circolo Filologico e di inscriversi a tutti i corsi, compreso il siriaco, se c’era, e non escluso il latino per le signore. Così fece; e in poco tempo, riempiendo di coniugazioni i cartolari, destò l’ammirazione nei professori. Fece di più. In quel tempo, oltre al Circolo Filologico, fioriva in Torino una Società Letteraria, intitolata la _Dante Alighieri_, la quale si meritò forse qualche cosa di più che le quattro righe di questo racconto. Essa si radunava ogni domenica nell’anfiteatro chimico detto di S. Francesco di Paola e precisamente nello stesso luogo, in cui, quarant’anni prima, il gesuita padre Manera aveva aperto la sua cavallerizza letteraria, alla quale avevano preso parte Angelo Brofferio e Carlo Marenco. Allora il padre maestro baciava gesuiticamente i versi di Dante, prima di spiegarli, e metteva blandamente le mani sulle spalle ai giovani per incoraggiarli. Quarant’anni dopo, oh! non più gesuiti! Quarant’anni dopo, componevano la Società alcuni giovani liberi come l’aria e freschi come un buon mattino, i quali sentivano la forza irresistibile di fare tosto vedere pubblicamente le loro prodezze letterarie. Essi declamavano senza paura di blandizie lojolesche o di nottate al palazzo Madama, declamavano la loro brava opinione sull’ultimo problema scientifico, sull’ultimo libro, sull’ultima canzonatura, sull’ultima immortalità dell’anima, sull’ultima immortalità della materia o sull’ultima neve caduta. Il loro pubblico erano gli ex-compagni di corso, gli studenti loro immediati successori nell’università o nel liceo, le signorine sorelle o cugine, le signore dilettanti di letteratura e dei grandi processi alla Corte di Assise, professori giubilati, e gli altri abbonati ad ogni spettacolo gratuito. Una volta all’anno poi essi davano una festa solenne con l’intervento delle autorità municipali, politiche ed accademiche e della musica della Guardia Nazionale, — e per una di queste feste fecero persino coniare una medaglia commemorativa, come quella dei carnevali di Gianduja. Nella Dante c’era Edoardo, il quale fece presto tutto il possibile per trascinarvi anche l’amico, il neo-filologo Pinotto. Ma Pinotto era riluttante a entrare in quella Società; perchè, egli diceva, che le società letterarie erano tutte società di mutua ammirazione. Pure in un giorno di festa solenne, per accontentare Edoardo, che vi dava la sua beneficiata, egli pose il piede nella Dante. Ebbene, fu addirittura commosso nel vedere, anche solamente come spettacolo d’una volta all’anno, il Sindaco della Illustrissima Città del Toro, messosi in coda di rondine per la letteratura; nel vedere belle signore e bellissime signorine abbigliate festosamente per la letteratura, e l’incisore Thermignon avere coniata una medaglia per la letteratura, e tutto quel caleidoscopio di pubblico essersi assiepato circolarmente in anfiteatro per la letteratura; in cima al quale pubblico parevano stampati come re da tarocchi due marescialloni dei RR. Carabinieri, invitati da un socio maestro della Cittadella, — con il loro pennacchione nuovo e i loro bottoni e cordoni lucentissimi, anche essi per la letteratura.... Gli vennero poi i battiti al cuore, quando vide farsi innanzi nell’emiciclo, davanti a quel pubblico, l’amico, quasi fratello Edoardo, con gli occhi brillanti di ardimento, con la testa balda e scarmigliata, con la voce potente di metallo giovanile, e sciorinare su quel pubblico un discorsetto ameno e piccante alla Paolo Courier, facendo ridere beatamente i carabinieri e i professori, facendo piangere le signore e le signorine, facendo fremere i giovani bollenti Achilli e facendo saltare sulle sedie i fanatici compagni e ammiratori; — e quando Edoardo ebbe finito lo _spéech_, sollevarsi una selva di applausi, contra cui non valsero nulla i tromboni della Guardia Nazionale; e il Sindaco e il Rettore dell’Università alzarsi e stringergli la mano.... Pinotto precipitò anche lui sopra Edoardo; e questi gli domandò affannosamente: — Ebbene? — Mica male.... Ih! acqua, che non macchia.... — gli rispose ridendo, e poi gli diede lo scoppio di un bacio, come il più franco conforto ed elogio di amico e di fratello. Quello spettacolo di godimento letterario e di amicizia fraterna tirò definitivamente Pinotto nella Dante. Quei giovani soci erano quasi tutti fatti alla buona e senza verun sussiego, quantunque molti di loro fossero prossimi a divenire o già fossero bravi e rinomati ingegneri, o medici, od avvocati, dottori di collegio, o professori di Università o di Liceo, consiglieri comunali o provinciali, capitani di cavalleria o di guardia nazionale. Benchè poi si radunassero in sedute letterarie, essi non pensavano mai, anzi non sospettavano neppure di essere accademici; tanto che un giorno, avendo un egregio letterato maturo mescolatosi con loro, detto: _l’accademia non è in numer_o, risero tutti sotto i baffi, che avevano o non avevano. Essi pensavano proprio soltanto a sfogare i loro umori letterari, arricchendosi e rimpolpandosi intellettualmente nel commercio disinteressato dei compagni e massime del pubblico; amavano proprio di cuore l’arte per l’arte; quindi davano magnificamente nel genio artistico, zingaresco, spigliatissimo di Pinotto; e si incontravano con il suo baco fanciullesco di letteratura inedita. Perciò egli non ebbe veruna difficoltà a divenire in poco tempo tutta cosa della Dante. XV. Anzi, egli potè riuscire presto il carattere più spiccato di quella baraonda letteraria, che fu poi scherzosamente chiamata la _Giovane letteratura torinese_. Egli però non disse mai una parola nelle sedute pubbliche della Società e ciò per la sua ripugnanza superbissima verso il pubblico; ma, per così dire, lavorò molto negli uffici; e di niun altro era tenuto di conto il giudizio quanto di lui; tanto erano lucidi, taglienti, diamantini i suoi concetti. Parecchi principianti d’allora, di cui adesso si comprano i romanzi come il pane e si applaudiscono le commedie, come trionfi, partivano dalle parti più discoste della città per recarsi a leggergli i loro lavori. La sua cameretta soprastante al giardino del Valentino, divenne un vero nido di astore letterario. Era piena di aria, di luce, di frescura, di paesaggio. Aveva tutti gli emblemi della scapigliatura artistica; batterie di bottiglie dal collo inargentato o dorato, che mandavano nimbi e fosforescenze; sfilate di volumi eleganti sul camino, sul davanzale della finestra, per terra. Il banco del giovane posava le sue quattro gambe sui quattro volumi dei satirici italiani. Egli intronizzato nella sua seggiola, sembrava Heine, sembrava Lucifero. Abbatteva un uomo, un lavoro con una stretta di mano, con un elogio o con un’arguzia. Un giorno Edoardo, il quale studiava di proposito i codici e frequentava assiduamente uno studio celebre di avvocato, facendo tutti i giorni una difesa gratuita al Tribunale Militare o a quello Correzionale, gli lesse un suo lavoro letterario sopra Ugo Foscolo. Pinotto, dopo averlo sentito attentamente, pur fabbricando delle spagnolette, — gli disse sul serio: — Bravo! Mi rallegro.... Tu cominci a diventar asino. Ciò mi fa piacere, perchè ti farà del bene per la tua carriera e pei tuoi figli, quando ne avrai.... — Al solito suo genio della beffa egli aveva unito un nuovissimo entusiasmo artistico; pareva si movesse alla conquista dell’arte con un lusso asiatico. Per riuscire artista, egli soleva ripetere: bisogna anzitutto conoscere la vita reale; — e la società egli seguitava a conoscerla largamente, intensamente, lui sempre piacente, bizzarro, spiritoso, spenditore, — che danzava e cavalcava benissimo, lui, quando lo voleva, attillato, cesellato, irreprensibile in guanti, speroni e frustino. Poi soggiungeva: bisogna conoscere la vita ideale. Ed egli conobbe singolarmente le letterature classiche, e si fece presentare a quelle forestiere e alla scienza; tanto che si trovavano mescolati ed aperti sul suo tavolo Bastiat, Anton Francesco Grazzini detto il _Lasca_, Shakespeare, Thiers, Aristofane, Mazzini, D’Azeglio, Augier, Giusti, Moleschott, Plauto, Darwin e Schiller. Dopo essersi arroventato con Vittor Hugo, egli era capacissimo di pigliare una doccia ghiacciata nelle commedie di Gian Maria Cecchi. Studiava giorno e notte in letture faticosissime. Le sue occhiaje nere e le sue palpebre orlate di rosso accusavano veglie straordinarie. Per rinvigorirsi fisicamente e intellettualmente, mise due assicelle sul materasso del letto. Volle anche combinare l’eroismo con l’arte. Fece la campagna dei Vosgi, battendosi molto bene. Partì per la guerra, senza dir niente a nessuno, e ritornato non sofferse mai che glie ne parlassero. Solo un giorno discorrendo di soldati _mobilotti_ in un pantano, li descrisse come si fosse trattato di anitre selvatiche o di beccaccini. Oltre a ciò prese a dilettarsi di musica, ricavando nervosamente armonie sul pianoforte, e si sbizzarrì in nuovi viaggi scomparendo dalla tribù degli amici, senza lasciar loro il proprio ricapito. Le sue elemosine divennero sempre più da cardinal Borromeo. Così rinfrancandosi d’ingegno, di lavoro, di buona volontà, di studi, di vedute e di salute fisica e morale, egli lavorò secretamente intorno a un suo romanzo, di cui gli amici odoravano meraviglie. Un fratello ne parlò alla sorella, la sorella a tutte le amiche del collegio; queste al direttore spirituale; il direttore spirituale all’economo, l’economo al negoziante, gli altri parenti agli amici, gli altri amici ai parenti, ecc., ecc. Fatto sta ed è, che poco per volta si diffuse per Torino, quasi direi, una irradiazione del nome di Giuseppe Panezio, e una calorosa aspettazione del suo capolavoro. Edoardo, che più degli altri era dentro alle secrete cose di Pinotto, ebbe la singolare ventura di adocchiare l’epigrafe tolta a Coppée, che stava sul manoscritto del celebre romanzo in erba: _Pauvre mère! Pardonne-moi_ _Et d’être malade et d’écrire._ Ne fu commosso, e non si potè rattenere dal correre dalla signora Placida e dirle affannosamente, che richiamasse tosto suo figlio per dargli un bacio, perchè Pinotto si faceva onore nella _Dante Alighieri_, si faceva onore presso tutti gli amici letterati, si sarebbe fatto onore nel mondo e sarebbe divenuto sicuramente un grand’uomo per tutti e un grande figliuolo per lei. La _Madre dei cani_ a tutta quella lirica di amicizia rispose molto prosaicamente: — Ah! la Dante Alighieri! la Dante Alighieri! Ecco quella che rovina i figli di famiglia.... la Dante non da.... del pane (_in musica_). — Il bisticcio materno della _Dante che non dava_, riferito da Edoardo a qualche amico, e da costui ad un’altro pervenne eziandio alle orecchie di Pinotto, che partì incontanente da Torino. Si diceva che egli era ritornato in Toscana per rinforzarsi vieppiù nell’uso del linguaggio schietto e vivo di quella gente benedetta. Invece, altro che Toscana! — Di lì a poco tempo si sparse la voce dapprima vaga e poi certa che quel giovane, il quale sembrava marciare verso un avvenire di una saldezza adamantina, avea per lo contrario liquefatte quasi intieramente le sue sostanze nella sua preparazione artistica, si era tuffato nel commercio a Genova e poi era partito per l’America. XVI. In effetto, parecchi mesi dopo, Pinotto ritornò dall’America tranquillo, come se tornasse da Cavoretto, raccontando di aver fatto l’ostetrico sopra un bastimento a vela, aver portato con le sue braccia damigiane di petrolio, ricevute mance da facchino e accordato pianoforti a Buenos Ayres; e nel ritorno essersi pubblicato inutilmente disponibile sulle tabelle della Borsa a Marsiglia. Aggiungeva allegramente avere ottenuto dalla cortesia di un macchinista il favore di abbruciare i suoi manoscritti letterari, i suoi lunghi studi nel fornello di una locomotiva a vapore. D’allora in poi egli vagolò in campagna, a Torino, a Genova e a Firenze. Però fino a quel tempo la sua fierezza artistica non aveva dovuto piegarsi per domandare mercè a chicchessia. E poteva tuttavia farne senza. Imperocchè, quando aveva ricevuto le ottantamila lire in un picchio, egli ne aveva investito qua e là bizzarramente alcune parti; per esempio 10 lire in una cassa di risparmio; 200 in un’altra; magari soltanto una lira in una terza, tanto per incomodare un impiegato a scrivergli il libretto; 100 lire in conto corrente al Banco Sconto e Sete; 500 lire in una azione della Banca Indo-Germanica; 5000 in rendita turca, ecc. Ora razzolando negli angoli del baule, gli fiorivano tra le mani quei titoli provvidenziali, e gli fecero buon prò anche quelli rinviliti dell’ottanta e più per cento. Infatti un’azione dell’Indo-Germanica fu sufficiente a pagargli le uova per un giorno intiero e una cartella del prestito turco bastò a procurargli gli zolfini; onde egli coniò il proverbio _meglio serbar in turco, che sprecare in italiano._ Ma questi rinfranchi gli si andavano terribilmente assottigliando di giorno in giorno. Onde, molte volte, seduto al tavolino marmoreo di un caffè, davanti a due uova affrittellate miseramente le quali scoppiettavano schizzi rabbiosi per carestia di burro e si attaccavano tenacemente abbrustolite al fondo del tegame, molte volte egli esclamò, mezzo liricamente e mezzo elegiacamente: — vorrei che queste due uova mi durassero una eternità! — E volgendo gli occhi in su ne gustava il sapore, in modo da impietosire chicchessia ad eccezione di lui. Molte volte egli, che nei suoi tempi felici aveva esibito agli altri il suo portamonete a chius’occhi, con quella noncuranza cortese e signorile, che non hanno nemmeno i milionari, quando offrono l’astuccio dei sigari, — si trovò coartato a scomporre mentalmente un soldo e a destinarne le preziose particole nel suo specchietto giornaliero: tanti centesimi per i fiammiferi e tanti per la pattona. XVII. Egli prediligeva il soggiorno di Firenze per la compagnia dei fratelli della Misericordia, la cui instituzione egli da un pezzo considerava come un capitale, che avesse nello scrigno, in mancanza del capitale _assistenza materna._ Ma, per fare maggiore economia, abbandonò Firenze e andò a stabilirsi in una piccolissima città di provincia, dove era affatto sconosciuto. Quivi si diede addirittura alla dieta dei grandi uomini in erba: pane, acqua e formaggio; e cominciò un nuovo romanzo, rifusione più netta e più grandiosa del primo. Così viveva assai strettamente, ma serenamente, quando un giorno egli cascò ammalato. Era una grave malattia di _peccati vecchi, penitenza nuova;_ per cui fu portato allo Spedale; e poco mancò non gli si dovesse amputare una gamba. Tre dottori stavano per l’operazione; uno solo contro e vinse. L’averlo potuto guarire, salvandogli quell’estremità combattuta, fu una vera gloria per il medico, che glie l’aveva difesa a viso aperto; onde la storia clinica del caso interessante venne narrata distesamente nel _Morgagni_, rinomata Rivista di Medicina e Chirurgia, adoperandosi mancomale le sole iniziali dell’ammalato. In questo frattempo Pinotto, avendo fatto scrivere dal medico, suo Farinata ed istoriografo, avendo fatto scrivere a casa, che egli era all’Ospedale, si teneva sicuro che sua madre e sua sorella sarebbero venute a trovarlo; anzi si rammaricava acerbamente per aver potuto un sol giorno preferire nel proprio cuore la Misericordia di Firenze alla sua famiglia. Invece esse si fecero vive, ma non già rispondendo al dottore; bensì fecero scrivere dal Teologo al cappellano dell’Ospedale, raccomandandogli vivamente Pinotto, però esclusivamente per le cose dell’anima. Del resto esse accusavano un raffreddore; per il quale non potevano muoversi. Nè mandarono verun soccorso. È facile il capire, come questa razza di sollecitudine per parte della madre e della sorella, facesse digrignare a Pinotto non solo i denti, ma l’anima. Egli uscì dall’Ospedale con un appetito da convalescente, ed entrò in un caffè. Ora, per combinazione, la prima cosa che lo colpì, fu, a farlo apposta, la vista di una vecchia signora, rassomigliante un po’ a sua madre, che dava a leccare sucidamente lo scodellino alla sua cagnetta. Ciò fini per rovinargli completamente ogni programma di economia e di buona condotta, se aveva bisogno ancora che questo gli fosse rovinato. — Dio santo! — egli esclamò: — Ci sono tanti e poi tanti poveri cristiani, che non prendono mai e poi mai il caffè.... Ci sono degli ammalati che ne mancano.... Io stesso, prima di andare all’Ospedale, sono stato cinque mesi senza assaggiare più il caffè, io.... io.... chè pure mi piace tanto; e credo di avere maggiori diritti di un Glafir qualsiasi, ai godimenti del mondo. Ebbene! allora gli parve di avere il diritto preciso, sovrano, fulmineo, incontrastabile, e imperscrittibile di esigere dalla Società ogni giorno una costoletta pepata, una caciuolata con i tartufi, e una bottiglietta di barolo per colazione, con l’intiera bottiglia per il pranzo oltre al caffè e sopracaffè a semplice richiesta. Quindi, forte del suo diritto, si mise a spedire lettere circolari, che domandavano cento lire in prestito ai membri, che per lui rappresentavano la società sua debitrice, cioè ai suoi parenti ricchi e ai suoi compagni d’ozio, di crapula o di letteratura edita ed inedita. Non gli passò nemmanco per la mente di rivolgersi a sua madre, perchè la riteneva cosa inutile dopo il contegno da lei tenuto in occasione della sua malattia all’Ospedale. XVIII. Uno degli zii gli rispose, che in seguito alle inondazioni del Po gli erano caduti 3 mulini, per cui doveva farli rifabbricare ed era dolentissimo di non poterlo sovvenire di un centesimo. Un altro zio incominciava la lettera con mille imprecazioni contro al governo; diceva che i bachi da seta erano andati male, la canapa malissimo e che ciò nonostante quegli asini, mangioni ed assassini di ministri, lo costringevano ad anticipare la imposta fondiaria, per cui era egli stesso nella necessità di ricorrere al credito. Un cugino gli rispose: «Se tu mi avessi scritto un giorno prima, non cento lire, ma te ne avrei mandate mille; imperocchè tenevo disponibile un capitale di diecimila lire, di cui ti avrei volentierissimo accomodato. Ma stufo di tenere quella piccola somma oziosa, non potei resistere alla tentazione di investirla nella compera di una casetta; un cattivo contratto, mio caro cugino! Pensa: diecimila lire in contanti nel rogito, e poi altre 10 mila da sborsare fra tre anni.... E poi gli emolumenti del notajo e del Registro, senza contare le riparazioni ordinarie e straordinarie e la tassa sui fabbricati.... Caro Giuseppe, ti assicuro che ho le mani nei capelli, tanto sono imbrogliato. Oh quanto avrei avuto più caro di prestare tutte a te le diecimila lire!... Ah, perchè non mi hai scritto prima? Perchè?...» Gli amici gli risposero niente, ad eccezione di Edoardo e di Aurelio Auricola. Il primo, avendo guadagnato cento lire in un concorso pubblicato da un giornale giuridico, ne mandò cinquanta a Pinotto, pensando semplicemente che era meglio darle a un amico, che ad un’amica. Il secondo gli mandò una lettera untuosa, scritta sopra un mezzo foglio spiegazzato dentro una busta storta, di quelle che fabbricava lui con gli antichi _atti_ dell’ufficio. Il machione aveva preteso fare dello spirito. Infatti cominciava con tanto di _Sire!_ ricordava al Sovrano la propria nomina a suo _Ministro di Grazia e Giustizia_, quindi veniva _con fede degli opportuni ricapiti_ a supplicare la Maestà Sua a voler avere ad ogni cosa l’opportuno riguardo; onde conchiudeva, che se il monarca, dato evacuo a tutti gli incumbenti che del caso, non poteva prestare a lui ministro Guardasigilli la cauzione per mettere su un ufficio nuovo, gli mandasse per lo meno duecento lire, come voleva la _Grazia_ e non ricusava _Giustizia_, acciocchè egli potesse vestirsi bene e così ottenere finalmente la desiata mano della figliuola unica del suo principale Barattini, facile apportatrice della desiatissima _procura_ in suo capo. Sopra queste risposte e non risposte Pinotto fece le seguenti considerazioni filosofiche: — Belle combinazioni! I fiumi straripano, i bachi da seta e la canapa intristiscono, il Governo pretende l’anticipazione delle imposte, un cugino si rovina con uno scellerato carrozzino, gli amici perdono l’uso della parola, o falliscono del cinquanta per cento, o peggio ancora i cretini imparano a fare dello spirito chiedendo il doppio di ciò che devono dare, tutto questo per impedire a me Giuseppe Panezio la possibilità, che hanno tutti gli straccioni di raggranellare la somma di cento lire rotonde. — Quindi conchiuse: — La carta non diventa rossa, ma la epidermide della faccia umana, sì! Il silenzio è d’oro; ma la parola è di diamante. Andrò io a prendere di fronte questi parenti delle inondazioni e questi amici mutoli, a cui regalerò un francobollo per vergognarli di non avermi risposto. E vorrò vedere, se a quattr’occhi oseranno negarmi qualche miserabile biglietto di banca. Voglio vedere, se potranno dirmi di no, quelli specialmente che mi hanno aiutato a mangiare migliaja di lire in cene, sovvenzioni, sigari, _et reliqua!_... Voglio vederli a dirmi di no! — XIX. Piombò, come un agente fiscale, fra lo stuolo degli amici e dei parenti, e fece un abbondante bottino, però rilevando questo. La gente più lo credeva tuttavia ricco e capace di dare mance vistose alle serve, più gli dava volontieri da pranzo, restando persino di buon umore, se egli, uso alle taverne e senza veruna scuola di famiglia, faceva scricchiolare maledettamente le sedie e minacciava di romperle ad ogni movimento. Ma, come si accorgevano, che egli aveva veramente bisogno di soccorso, tutti si imbrunivano e si inacidivano a vederlo comparire, e lo mortificavano con avvertimenti e con certe facce da Ebreo Errante, appena avessero dovuto dargli semplicemente da sedere. Egli segnò queste ed altre osservazioni sopra un taccuino, come materiali di un altro suo capolavoro, destinato a non essere mai pubblicato e intitolato: _Al Verde!_ Dapprima egli accettava i soccorsi e l’ospitalità altrui con franchezza, perchè egli era sicuro di diventare, quando che fosse, un milionario, un milionario, che avrebbe ammazzato i suoi pitocchi soccorritori con una profusione di doni e avrebbe restituito con pranzi all’albergo _Trombetta_ le braciòle casalinghe, che egli aveva mangiato nelle famiglie altrui. Poi cominciò a pesargli il sospetto di essere tenuto per uno scroccone, per un cavaliere del dente; in quei momenti i denari degli amici gli bruciavano le mani, e gli facevano salire le vampe alla faccia. Infine con il vigore del suo cervello sviato, riuscì persino ad addomesticarsi baldamente a quella vita. Un amico era tassato da lui per il caffè, un altro per i sigari, altri per altro; ed egli viveva completamente alle spalle del prossimo, come se fosse stato il Governo. Ma un giorno, nell’avvicinarsi della fredda stagione, quando ricevette da Edoardo un pastrano usato, divenne di nuovo superbo e vergognosissimo, e disse amaramente a sè stesso: — Sono proprio un accattone! — Però riprese subito nella vigoria del suo animo: — Sono un accattone, ma mi infischio di tutti. — E andò da due altri suoi amici a domandare a ciascuno di loro il pastrano usato; così avutine tre, scappò a venderli nel Ghetto, per comperarsene uno nuovo da Bocconi. Intanto, per cessare quello stato di cose, cercava un impiego quale si fosse e non lo trovava. Vedeva che riuscivano ad occuparsi vantaggiosamente ufficiali e bassi ufficiali smessi, cantanti, commedianti e suggeritori, i quali avevano perduto la voce, nobili spiantati e stangati d’ogni estrazione e che ne erano pieni i ministeri, i licei, e le fabbriche di bottoni e di zolfanelli; solo egli non poteva scovare alcun posticino per sè. Tutti si schermivano dall’aiutarlo, chi perchè si fidava poco della sua testa bizzarra, chi perchè non osava metterlo in un ufficio troppo misero, e chi perchè sentiva quella tendenza naturale di dare il tratto a chi rotola in giù. Questi gli diceva: — Ah, se fosse ancora vivo il commendatore Caramella! Egli era un uomo veramente _dalle braccia lunghe_, e per far piacere a me e a mia moglie avrebbe fatto nominare vicario generale della diocesi anche il vescovo dei frammassoni.... Ma quel degno galantuomo, ah! proprio di quelli di una volta, ora non è più. Mi rincresce, mi rincresce, caro mio, di non poterle essere utile presentemente.... Ma, se fosse vivo il commendatore Caramella.... avrebbe visto.... — Quegli gli rispondeva: — Peccato non ci sia più quella cara madama Storione! Vieni qui, Enrichetta.... Puoi dirlo tu, mia cara figlia, se quella buona signora non poteva quello che voleva. Ah! quanti _emigrati_ abbiamo fatto impiegare da lei! Era così buona e ci voleva tanto bene.... Ma ora quella brava signora anche essa se n’è andata.... Fanno tutte così le persone che sono utili al mondo e rimangono solo i bisognosi.... Ah! buon signore, peccato che non ci sia più quella cara nostra madama Storione! Ah! Madama Storione non faceva anticamera da nessun ministro, oh no! no! — Un terzo lo assicurava che avrebbe fatto moltissimo per lui, se non fosse caduto il gabinetto antecedente. Insomma il povero Pinotto era suffragato da una legione di condizionali, di defunti o di cascati, e non era punto aiutato nei bisogni presenti della sua vita. Spinto dalla rabbia di questi smacchi, egli un giorno assaltò da sè stesso per via un commendatore francese, gran sopracciò delle strade ferrate, e gli disse: — Sono il tal dei tali, sono mezzo ingegnere, ho mangiato ottantamila lire in pochi anni; ho conosciuto le signore più belle ed eleganti della città, ed ora le domando un posto da guardiasale in una delle tante sue stazioni. — Il commendatore lo licenziò frettolosamente, sospettando di essere stato abbordato da un borsajuolo o da un suicida futuro prossimo, e lo invitò a recarsi l’indomani nel suo ufficio. Portatosi puntualmente l’indomani alla Direzione delle ferrovie, egli non ottenne di poter parlare col commendatore; ma parlò con un vice-sostituto sottosegretario del medesimo, il quale gli mise sul naso un paio d’occhiali spessi come due fette di salame. Pinotto ci vedeva dentro come in un nebbione e _non altrimenti che per pelle talpe_; quindi fu licenziato quale _inabile per vista corta._ XX. Sconfitto da tutte le parti, non conoscendo più altro rifugio, egli finalmente accondiscese alle istanze di Edoardo, che da più mesi lo sollecitava a presentarsi da sua madre. Bisogna dire che egli salì gli scalini materni, più per togliersi ogni appicco di biasimo davanti all’amico, che per fondata speranza di riuscire nell’intento. Fu breve e secco il colloquio fra madre e figlio. La signora Placida diede un piccolo soprassalto, quando si vide dinanzi il suo Pinotto, ma poi si rattenne e assunse il contegno più dignitoso, che possa assumere una madama borghese, quando voglia dare una lezione di civiltà a una odiata amica. Lo condusse nella sala di ricevimento, e senza accennargli che si sedesse, gli domandò: — Ebbene, che cosa si vuole da me? — In quel punto fecero per entrare Carolina e i cani, ma la signora Placida ordinò loro di ritornare premurosamente indietro, quasi essi non dovessero onorare di loro presenza quel discolo. Quindi ripigliò: — Ebbene che cosa si vuole da me? — Signora madre.... Scusi del disturbo.... È una specie di ritorno del _figliuol prodigo_. Ho già consumato le mie ottantamila lire, ed ora vivo a spese degli amici, e cerco un impiego con il loro aiuto. Sono venuto a vedere, se mia mamma alle volte avesse dispiacere che gli amici prendessero il suo posto.... — No, no, no.... Io non voglio saperne di niente. Sta pure con gli amici, facciano pure loro quello che vogliono, essi che ti avranno aiutato a disperdere e divorare le sostanze guadagnate da tuo padre.... Io non ci entro per niente.... Ah, gli amici, gli amici! — Allora.... — E fece a sua mamma un inchino. Questa gli rispose con un cenno di testa pieno di dignità borghese. Discendendo le scale, mentre gli si spezzava il cuore, il povero giovane diceva: — E pure mia mamma non è cattiva! Non mi capisce, ma non è cattiva.... — Girando per la città, con la testa bassa, inciampò in quel rospo di Aurelio Auricola. — Ecco lì, — disse fra sè, — ecco lì sotto quell’untume da cappellano e sotto quella fronte da cretino, ecco lì dove ci sono dei pozzi di ricchezza mobile. E gli passò per il cervello la voglia di strangolarlo e depredarlo; ma fu una voglia semplicemente ridicola; tanto è vero, che lo fece ridere di cuore. — Che cosa hai, Giuseppe, che ridi come un maniaco? — Ho.... ho, che non ho nemmanco un soldo da far cantare un cieco.... E non so proprio più dove battere la testa. Guarda tu, che sei procuratore, non potresti regalarmi un’azione di qualche compagnia di ladri.... oppure indicarmi qualche posto vacante da assassino? Lo accetterei e comincierei dallo svaligiare te. — Grazie tante.... Hai voglia di scherzare?... — rispose Aurelio un po’ livido per un quissimile di paura. — Aspetta.... Ed accese il suo perpetuo mozzicone di sigaro. — Aspetta.... Tu devi ancora avere la proprietà di ciò che tua madre gode in usufrutto sulla eredità di tuo padre.... Vendi la _quarta uxoria_ di tua madre. — Sei un’aquila. — Secondo il solito, il sostituito procuratore si incaricò egli stesso di trovare lo strozzino e il notajo dello strozzino. Alle cinque di un pomeriggio invernale, nello studio del commendatore notajo Raffa, mentre la luce grigio-scura del giorno morente si allontanava, e la raggiera gialla di una lucerna si allargava nello spazio, dentro una mutezza strangolatrice, si sentiva saltellare ed intaccare lo scricchiolío di una penna. Si rogava il contratto, per cui Giuseppe Panezio vendeva il suo restante patrimonio usufruito dalla madre, del valore approssimativo di lire trentamila al signor Abraam Isacco X del fu Giacobbe, il quale, dopo essersi accertato della età legale del venditore, mediante la produzione della costui fede di nascita, gli concedeva in corrispettivo lire millecinquecento, di cui cinquecento in contanti, cinquecento che si dichiaravano ricevute prima del rogito e le altre cinquecento valutate in altrettanti effetti di merce, fra cui alcuni elmi di cavalleria di antico modello e la scrittura di un basso profondo, protestato da un teatro di provincia. Mentre scricchiolava la penna del notajo, una ragazza bionda come una stella attraversò lo studio sulla punta dei piedi. XXI. Intascate le cinquecento lire, pagato profumatamente il notajo, e lasciati gli elmi ed il basso cantante a chi li voleva, senza dire ai nè bai a nessuno, egli bruciò gli alloggiamenti, piantando lo stuolo dei suoi amici patroni, i quali in generale si videro senza soverchio rammarico cessare a un tratto l’obbligo delle rispettive quotidiane contribuzioni al sostentamento del loro misero cliente. Egli dilapidò quelle cinquecento lire proporzionatamente in fretta quasi come le altre, tanto per allontanare da sè un senso di maledizione materna; imperocchè ogni po’ un eco del freddo scricchiolío della penna del notajo lo faceva rabbrividire. Di lì a pochi mesi, dopo essersi presentato inutilmente a cento usci, dopo essersi offerto agli uffici dei giornali, alla stenografia della Camera, alle fabbriche dell’acqua gazosa e del gaz combustibile, dopo aver giocato al lotto gli ultimi cavurrini, dopo di essere stato spinto dalla necessità fino sulla porta delle parrocchie e delle sacrestie e dopo avere inspirato a tutti un sentimento di ripulsione con la sua aria di un Satana morto di fame, egli si trovava una sera d’estate a Roma, seduto sopra un sasso, lungo uno stradone. Si sentiva estenuato dal digiuno e rotolato giù agli ultimi scalini della degradazione sociale, e si diceva amaramente nella sua anima: — Possibile che nessuno voglia darmi da lavorare per vivere! Non domando molto io.... domando da mangiare per vivere.... E mi sento capace di fare qualsiasi cosa per guadagnarmi la pagnotta quotidiana, a cui ho diritto, Dio Santo! se non è bugiardo il Paternostro.... Farei anche il giornalista clericale o andrei anche ad ammazzare Bismark, se me lo comandassero!... Poi soggiunse: — No, no.... non mi sentirei mai capace di fare del male, anche a costo di morire di fame.... — La sua fisionomia era pressochè irriconoscibile. Egli portava in testa un cappellone polveroso con la visiera dura per le pioggie ricevute e lucida per l’unto che vi si era appastato. Portava addosso un pastrano da inverno in immediato contatto con la camicia che era dello scuro più laido; (essendo la divisa dei poveri nel più caldo dell’estate il pastrano, che essi poi si affrettano a consegnare al ghetto, appena si approssimi l’inverno), un pastrano giallo come il mantello di certi cani levrieri, con istrappi ed altre macchie indelebili. Aveva la barba lunga e squallida, le occhiaje livide: era scarno come un crocifisso; aveva le unghie orlate di velluto nero, come un prete del Porta. Egli pensava con invidia alle turbe ricoverate negli ospizi di carità, a quelle vecchie vestite tutte di un’uniforme rigatino, con il numero di matricola per decorazione sul petto, — a quei vecchi colla blusina azzurra e con il bastone legato per un cordoncino ad una manica, — a tutti quei poveri rimbambiti, che nel tramonto della loro esistenza possono ancora, grazie alla carità pubblica, risentire le gioie infantili e collegiali, come quella di rubare un rociolo di zucchero nella zuccheriera altrui o bere di straforo una tazza di caffè ed un quintino di vino; — pensava agli ammalati menati agli ospedali sui carrettoni duri e sussultanti pelle strade polverose e pensava ai vagabondi, che viaggiano per mercè da Questura in Questura e da Sindaco a Sindaco. Egli scopriva allora proprio nettamente una divisione del mondo, a cui non aveva quasi mai pensato, quando conduceva vita capricciosa, studiosa, operosa e beata, la grande divisione degli uomini in gaudenti ed in pitocchi. Egli, più scannato di tutti, apparteneva col corpo ai pitocchi e si sentiva ancora fitto fra i gaudenti con i maggiori desideri dell’anima. Sopratutto lo rodeva il grande martirio di non aver più nulla, proprio nulla, nulla, nulla; e gli pareva l’ultima parola: nulla. XXII. Lo rasserenò il ricordo di una buffonata, con cui altre volte aveva fatto ridere le brigate; ciò era la diceria, che si dessero da qualche _Società Evangelica_ duecento lire ai cattolici che si facevano protestanti. Allorchè nei suoi tempi migliori, egli perdeva tutti i suoi denari al gioco, soleva dire giocondamente ai compagni che lo avevano squattrinato: — Amici, aspettatemi! Vado a farmi protestante e poi ritorno subito a farmi spennacchiare di nuovo da voi altri. — Ora su quel sasso egli pensava: — Oh fosse davvero che si dessero duecento lire a chi si fa protestante! Volerei subito... — E gli pareva già di mangiare qualche cosa; ma ricadeva tosto spossato: — Ah forse non è vero, non è vero!... e poi, quand’anche fosse vero, io benchè morto in piedi, non mi sentirei il coraggio di cambiare per paga di religione; e sì che sono quasi certo oramai di non averne più nessuna! Siamo pure curiosi noi altri noi, della nostra specie. Vendiamo con un enorme facilità, _spaventiamo_ via una casa, una tenuta, un intiero patrimonio, che ci dava da vivere lautamente; e poi ci ripugna.... io sento che per me sarebbe affatto impossibile vendere un mio pensiero, un pezzo della mia supposta coscienza od anche un solo mio capriccio, che pure non mi dà da mangiare una maledetta. Imbecille! Ho fame e.... credo nella immortalità dell’anima. — In questo punto egli si senti raspare una scarpa da un colpo di lingua. Era un cane che gliela leccava, un bel cane barbone, con i fiocchi della sua lana bianchi di saponetta. Aveva l’aspetto signorile, e la giubba come un leone da burla; era certamente un cane benestante ed anche di buon cuore. Vi sono dei cani, che per un sentimento di malintesa aristocrazia non possono vedere le persone malvestite, si avventano contra loro con una furia di ringhi rabbiosi, vogliono morderle, lacerarle, sbaragliarle; e vi sono per lo contrario altri cani, che per un sentimento di filantropia, che li onora, se la dicono bene con i poveri, con i fanciulli, con i vecchi, con tutti i deboli e li proteggono. Tale era questo barbone. Come si avvide, che Pinotto si era accorto di lui, esso si acculattò per terra accomodandosi sulle gambe posteriori, e rimanendo ritto su quelle davanti: figgeva benevolmente negli occhi smunti del giovane i suoi occhioni pieni e lustri come un calcalettere di cristallo, umidi come ostriche, ed oscillava la coda quasi per dirgli qualchecosa di amichevole, e di consolante. Poi levò in arco una delle sue gambe anteriori, come per proporgli con quella zampata un patto di alleanza; e vedendo che ciò non gli bastava a farsi capire, finì con il porgli il muso sulle ginocchia. — Fido! Qua, Fido! Fido! Fido! Fido.... oh! Qua, qua! Così, alla distanza di un tiro di pietra, chiamava il cane un vecchietto con un berretto da militare, i baffi spessi e grigi, la barba molticolore, fra cui alcuni cespugli di nero e alcuni zampilli di bianco, — il frac nero abbottonato e i calzoni cilestrini con le bande rosse. Vedendo che il cane non lo ubbidiva, si avvicinò egli al cane. Allora Pinotto potè meglio adocchiarlo e lo raffigurò. Raffigurandolo, sentì un’acre vergogna di essere alla sua volta riconosciuto da lui, e poi si scopri da sè stesso alzandosi alla bracalona e lasciandosi sfuggire automaticamente queste parole: _Il capitano!_ E questi di slancio: — Come? Possi....bile! sarebbe mai l’ingegnere Panezio?... Ma sa, che mi ha fatto paura? Ma non ha sua madre, lei?... — Il giovane gli rispose con una indefinibile amarezza: — Mia madre non è come la madre di Edoardo.... Adesso io non spero più in nessuno a questo mondo.... — XXIII. Il Capitano salutato da Pinotto era un sergente giubilato, che i compaesani avevano accresciuto di grado con il nomignolo appioppatogli. Pinotto lo aveva conosciuto assai famigliarmente, molti anni prima nella villa del suo amico Edoardo, dove il Capitano era un casigliano amatissimo, come quegli che dirigeva la preparazione del majale, l’imbottatura del vino e tutte le altre operazioni principali della azienda domestica. Avendo sposato una giovane ostessa, (come capita alla maggior parte dei bassi ufficiali in ritiro) la quale gliene aveva fatte a piedi e a cavallo, e secondo la sua espressione, lo aveva voluto _mangiar vivo_, — egli scorrucciato aveva abbandonato il villaggio nativo e per la protezione del suo antico colonnello aveva ottenuto un posto da usciere in un ministero a Roma. Il capitano dovette far violenza a Pinotto per indurlo a ritirarsi con lui in città, e la violenza del padrone fu superata dalla violenza del cane, il quale per far risolvere definitivamente il renitente, gli abboccò i calzoni, ponzando per tirarselo dietro. Strada facendo, l’usciere per distrarre il giovane disgraziato, acciocchè non si avvedesse della commiserazione che destava, si fece a raccontargli allegramente vita e miracoli di Fido. — _Porta_, sa?... Va dal panattiere, va al macello preciso come un servitore.... Buono poi, buono come il pane. Lui si lascia mettere gli occhiali sul naso e magari un kepì in testa.... Sa persino tenere una pipa in bocca.... Sicuro, fuma questo demonio! Per gentilezza poi, non discorriamone nemmeno.... _Parla_ come un bambino di due mesi, _parla_; e se il bambino gli tira le orecchie, lui non dice mica nulla, povero minchione! e lascia tirare.... anzi sembra che goda.... Non è vero, Fido? — Fido, quasi si accorgesse, che parlavano favorevolmente di lui, anzi capisse tutto ciò che dicevano, saltellava qua e là con balzi di modestia contenta, e di quando in quando tentava di baciare le mani a Pinotto. D’altra parte Pinotto pensieroso e pauroso, che il suo salvatore sospettasse troppo male della madre di lui a cagione del motto sfuggitogli, si fece ad accusarsi da sè stesso, dicendo che egli era stato un cattivo originale ed aveva perso tutto al giuoco, ma che sua mamma, povera mamma, non aveva nessuno, nessunissimo torto. XXIV. Alloggiato nella camera sublime del Capitano, egli pensò che non doveva rimanere lungamente parassita di un povero usciere: e in quello stremo, l’unica àncora di salvezza naturale e decorosa gli parve la mamma ricordatagli dal buon vecchio, per cui nel mattino seguente gli disse festosamente: — Scrivo a mia mamma. — Bravissimo! gli rispose quegli, bevendo una lacrima, mentre si incamminava all’ufficio. Pinotto scrisse: _Cara mamma!_ «Sai che pur troppo sono sempre stato superbo come Lucifero e il tuo Signore m’ha castigato.... Quasi mi sento ancora superbo adesso; ma so magnificamente, che non c’è nessuna umiliazione di un figlio verso la propria madre. Anzi io sono fiero di umiliarmi davanti a te e domandarti perdono in ginocchio, anche con i gusci di noce sotto. «Che cosa vuoi? mamma, sono stato un disgraziato. Credevo certe cose ed erano certe altre. Ho proprio fatto come il _Figliuol Prodigo_, della Sacra Scrittura, che è andato fra gli animali immondi.... Ma non voglio mica che tu mi ammazzi il vitello più grasso per questo. Oh no, no! Guarda, mamma, solo perchè scrivo a te, sono tutto rasserenato, mi sento allegro.... Ho fatto delle cattive vite e meritamente. Ho fatto delle lunghe astinenze e mi sono nutrito alcuni giorni solo con un po’ di pane puro, ed era una grazia per me l’averne. «Pensa, mamma, che vita!... Io che ero assuefatto da te ai buoni piatti e sani della tua cucina casalinga. Però, ti assicuro, mamma. Mi sarò fatto del male a me stesso, oh questo sì! Ma non ho mai fatto del male al prossimo, a nessuno; te lo giuro! Sono ancora un ragazzo onorato. Piuttosto che far torto con una cattiva azione al buon nome della nostra famiglia e alla sacra memoria del povero mio padre, che ci guarda di lassù, piuttosto.... avrei preferito di morire per la strada.... e di fame, peggio che il conte Ugolino. «Ora sono stato raccolto da un buon vecchio, da un usciere al Ministero, che avevo conosciuto in casa del mio ottimo amico Edoardo.... Sto qui con lui, via dei Giubbonari, N.... È una carissima persona, di gran cuore, un galantuomo proprio dei tempi patriarcali di una volta.... Mi usa ogni riguardo.... Insomma sto bene. Mi sento rinato, massimamente perchè penso a te, perchè fondo tutte le mie speranze sopra di te.... Ha poi un cane l’usciere, un cane, che è una meraviglia. Si chiama _Fido_ e non usurpa il suo nome. Vorrei che tu lo vedessi, mamma, e lo vedesse anche Carolina! È un grosso barbone, bianco come la giuncata. Va lui in piazza con la sporta fra i denti, e pare dica ai passeggeri come Napoleone I con la corona di ferro: Guai a chi me la tocca!... Vedi, mamma, se non sono diventato buono. Mi sono persino riconciliato con i cani.... «Adesso mi sento ancora addosso mille forze e una smania di adoperarle, ma tutte a fine di bene.... Te lo giuro; non ho più nessuna pazzia per la testa. Un po’ di digiuno me le ha fatte passare via tutte. Se tu vuoi aiutarmi, mamma, farò l’agrimensore, l’impiegato, metterò su una bottega da sellajo o da cappellajo, purchè tu lo voglia, mamma.... Ma ho bisogno del tuo soccorso e di una tua parola.... Capirai che io non posso restare sulle spese a un povero usciere.... Non sarebbe neppure nostro decoro.... Da me solo, ah! l’ho provato pur troppo alle mie spalle: io non sono buono a nulla, non sono nemmeno capace di guadagnarmi l’acqua che bevo. Ma con te, con la tua protezione sento che anderei fino alla fine del mondo e che farei l’impossibile.... Per riuscire a qualche cosa di buono su questa terra, mia cara, ci vuole proprio la stella, _l’omen, l’amen, l’amen dico vobis_ di una mamma. Scusa, mamma. Non so più quello che mi dica.... Parlo persino latino. «Tu non me lo negherai, mamma, questo soccorso, questa parola, che ti domando piangendo e contrito. Pensa, mamma, che ho patito la fame. No, non pensarci più.... Consolami subito tu, che lo puoi.... tu sarai la mia risurrezione, tu mi darai un’altra volta la vita, che ti devo... Consolami presto. «Il più affettuoso abbraccio a te, mia mamma! lasciami ripetere questa parola: mia mamma! Ripetendola, mi pare di essere ricco di un tesoro immenso, e lo sono. «Un altro bacio a te e a Carolina. «_Sempre tuo figlio_ «PINOTTO.» «_PS._ — Sono un po’ ammalato, mamma, sfinito per causa delle midolle vuote.... No, no; sto benissimo, mamma. Consolami, benedicimi, mamma! «Altro _PS._ — Salutami i cagnolini, e dà loro per me uno zuccherino.» XXV. Appena egli ebbe impostato questa sfuriata arruffona di amor figliale, due minuti dopo egli aspettava già la risposta; poi gli veniva un dubbio di uno scrupolo amaro, il dubbio di avere sbagliato la soprascritta della lettera e di avere messo _Firenze_, che aveva sempre per il capo, in luogo di _Torino_. — Ma no! Ho proprio scritto _Torino_ e non posso aver scritto _Firenze_; mi ricordo dell’_o_, un _o_ largo così, che sembrava lo avessi fatto con l’imbuto.... Ed ho proprio messo _Via_..., N. 14, sì, sì! Sì.... sono certo che ho fatto il 4 alla mia maniera.... Assicurato sul ricapito della sua lettera, egli andò a farsi radere la barba, accorciare e ravviare i capelli, rovinò una spazzola sfregacciandola sopra i suoi abiti rifiniti. Egli faceva tutta una acconciatura da tritino, voleva farsi bello più che poteva, per far festa alla risposta di sua mamma. — E se mia mamma venisse in persona?... Sicuro.... Verrà.... Essa stessa... con Carolina. Le ho scritto io, proprio io che avevo patito la fame, che ero ammalato:... A sentire queste coso, le poverette non potranno tenersi dal volare a trovarmi,... oh verranno, verranno anche se non istessero troppo bene le meschinelle! Avranno paura che io sia ancora affamato.... Povere donne! E la nota tenera del cane! Chi sa come le avrà toccate! Oh che buon politicone sono mai stato io! E che poscritto da Cavour! Cavour del cuore sono stato io!... Purchè non si confondano nel prendere il treno e non vadano a Venezia o a Innspruck!... Chi sa che cosa diranno a trovarsi qui in una Roma?.. a vedere San Pietro, il Colosseo e il Mosè del Michelangelo, esse che credono che la chiesa dei SS. Martiri a Torino e il _Cavallo di marmo_ sullo scalone del Palazzo Reale siano le principali meraviglie del mondo?... Scommetto che mia mamma sosterrà sempre che il _Cavallo di marmo_ è più bello del Mosè di Michelangelo. La _Venere Capitolina_ non la farò nemmanco loro vedere.... Esse si scandalizzerebbero e nessuno potrebbe toglier loro dalla testa, che siano stati i _Garibaldini_ quelli che hanno portato lassù quella _ribalderia_, — come direbbero, — per fare vieppiù dispetto al povero Papa, dopo che lo hanno messo in prigione.... Oh, le mie povere donne e care semplicione!... Oh verranno.... Verranno... Sì, che verranno! — Così pensando, batteva palma a palma con gioia infantile. Nell’amore della mamma gli pareva di avere trovato la leva di Archimede e il punto di appoggio per far muovere a suo modo il mondo; e dava a divedere pubblicamente questa sua persuasione intima col modo glorioso, con cui egli incedeva per via. _Fido_ poi non era da meno di lui: tutto pieno di sè stesso e della contentezza del suo nuovo amico, se qualche cagnolino schizzinoso gli ringhiava contro, esso non si degnava nemmanco di rispondergli con uno sguardo: _de minimis non curabat praetor_. XXVI. Il povero giovane rientrato nell’orbita umana della famiglia, sentiva di voler bene a tutti coloro che passavano e di amare anche qualche fanciulla. Quale fanciulla? Non lo sapeva neppure egli.... Forse quella stellina vaporosa, quella biondina che aveva attraversato sulla punta dei piedi lo studio del notajo, mentre si sentiva il _cric crac_ di quella penna diabolica?... Forse qualche altra? Egli fino allora era stato bensì un famoso straziafanciulle, ne aveva _contato loro più che Bertoldo_, e se lo era sentito rinfacciare: ma non ne aveva mai amata nessuna di vero cuore, nessuna; anzi soleva dire che nella nostra società non vi era cosa più imbecille di una signorina da marito. Ma ora, che amava la mamma e la sorella, sentiva altresì il bisogno di amare proprio una signorina da marito.... E l’avrebbe sposata, sì! e a preferenza la signorina del notajo.... Avrebbero aggiustato tutto, perchè il notajo Raffa ne sa un punto più del diavolo.... E quella ragazza ha tutto l’ingegno del babbo, e più tanto di cuore ben fatto.... La violetta ama quasi sempre di nascere sotto le spine.... Sì! Egli ne è sicuro: la damigella Raffa è un’ottima ragazza e bella.... bella poi come il più bello degli angeli. Che felicità! Come sarà contenta la mamma Placida! Al primo bamboccio si metterà il suo nome; sarà una Placidina, e se invece sarà un maschio, allora il nome del povero babbo.... Che delirio di felicità! — Egli richiamava in testa i tipi di mamme che aveva conosciuto, e prima di tutte, la mamma più caratteristica delle altre, la mamma del deputato X, quella che ama i figliuoli, come la cagna i suoi cucciolini, e ringhia continuamente intorno a loro e contro a tutti, per paura che glieli portino via. Questa mamma, abbia pure il figliuolo già ministro, mettetela in un pranzo: ella strepiterà continuamente dal fondo della tavola, e nojerà tutti con certi occhi che fucilano la gente, per paura che a quel buon uomo di suo figlio ministro si facciano dei torti, e non si dia tutta la torta e tutto il fritto o la quaglia che gli si conviene. Pinotto pensava all’ottima mamma che aveva conosciuto nella signora madre di Edoardo, alla mamma la cui vita virtuosa e santa, dalle preghiere che recita sull’inginocchiatojo al mattino e alla sera, fino ai lavori di calza e di trapunto fatti dalle sue mani benedette, è tutta una sola cospirazione, perchè suo figlio sia sempre bello, ben vestito, sano, contento, onorato ed onesto. Egli pensava alle mamme storiche, alle mamme raccontate dal Tommaseo, alla mamma esemplare dell’abate Jacopo Bernardi, alla mamma, di cui Edmondo De Amicis ha fatto innamorare tutto il suo paese. E conchiudeva: — Ah, le mamme sono uniche al mondo per saper amare i figliuoli!... Sono tutte compagne.... Basta che i poveri figliuoli se lo meritino o sappiano pigliarle per il loro verso! XXVII. Mamma.... Amorosa.... Nuovo cibo.... Nuovo sangue.... Che cosa mancava ancora a Pinotto? Le nuove idee e il nuovo sangue gli fecero ribollire più potentemente nella testa l’immagine dell’arte. Egli si ricordò dell’immensità di libri da lui letti, studiati e venduti, dei suoi manoscritti distrutti, di cui però non aveva perduto dentro di sè neppure una sola goccia di sostanza, perchè si sentiva ancora lui, tutto lui, più forte di prima e più capace di rifondere le sue statue e inchiodarle eternamente sopra un piedestallo di porfido. Un giorno alla finestra parve che gli passassero sotto le narici tutti i profumi di Villa Pamphili e di Villa Borghese; e gli venne nel cervello un nome, il nome di un villaggio, che era pure il nome patronimico di una famiglia, e doveva essere il soggetto di un suo nuovo prossimo racconto. — VOLAR DI FIORI.... Due sposini, il conte e la contessina _Volar di fiori_ sopra un balcone, davanti a un giardino all’italiana del settecento.... Belli, belli, quali i pittori dipingono sè stessi e le loro amanti, quando vogliono dipingersi per prototipi di bellezza in costume di feudatari.... buoni, buoni, e tanto più preziosamente buoni, quanto era più facile l’essere cattivi per i nobili dei secolo passato.... I fiori del giardino erano giunti all’ultima loro splendidezza, all’ultima loro prosperità: loro più non rimaneva altro a fare, che dar luogo ai frutti.... — Venne una folata di vento nel giardino.... — Spicca, ramassa, fa turbinare le teste dei fiori.... — _Volar di fiori!_ si dicono soavemente il contino e la contessina guardandosi negli occhi. Bisogna descrivere il volo dei fiori, l’incrociarsi dei loro colori e dei loro profumi per l’aria, come una gazzarra d’amore celeste e combinare i fiori con i bisbigli e coi baci dei nobili sposi tortoreggianti.... profilare per il ritratto della contessina, profilare in rosa, in oro e in perle la signorina del notajo.... — Ma non solo parole e descrizioni.... Idee! Idee!... Far presagire da quei bellissimi e felicissimi sposini l’ottantanove, i nuovi destini della plebe, la necessità di una nuova religione.... Baci.... fiori.... amori.... Volar di fiori.... — Durante questa concezione letteraria, Pinotto si sentì colare in seno tanto dolce di miele da disgradarne le labbra di Galatea; si sentì capace di innamorare e far svenire di soavità tutti i ciclopi d’Italia; e ad un tempo si sentì addosso una forza da Sansone, per far rinculare di ottanta passi tutti i letterati del secolo. Si mise al tavolino con la febbre di scrivere le più raggianti cose che si siano mai scritte. Scrisse, scrisse, si levò in piedi, e riscrisse; e tanto si inebbriò nel suo soggetto, che non fu più lui; ebbe un ineffabile prudore e languore nel cuore e nel cervello; vide luccicare le idee, come gemme e come spade sulla testa, e volargli i fiori a mille a mille intorno alla fronte, piccargli contro al petto, e dargli solletichi strazianti, abbattimenti di gioia e tutto inghirlandarlo figlio, amante e poeta. L’usciere rientrando in casa trovò il suo ospite con il volto così trasumanato, che egli, dopo avere aperto la bocca, non osò dirgli più nulla. Non c’era che dire: dallo scrivere _Volar di fiori_ al discorrere con l’usciere era un bel cascare dalla poesia alla prosa. Eppure Pinotto si trovò così buono nello sfogo del suo Bello, che, appena visto l’amico, mise frettolosamente l’impagliatura di una scranna sopra il suo manoscritto e poi corse a girare le braccia intorno al collo dell’usciere. Questi allora incoraggiato parlò: — Volevo dire.... Non si offenda sa.... Io mi sono permesso, perchè sapeva che, Ella desiderava un impiego, mi sono permesso, di parlare per lei al mio capo-sezione, cognato della cugina del mio colonnello. — Ebbene? domandò con affannoso desiderio Pinotto. — È contento Lei? Sia lodato Iddio! Le ho ottenuto un posto da scrivano nelle Ipoteche con settanta lire al mese.... Può incominciare domani.... Lo accompagnerò io.... — Grazie! Grazie! Gioja! Gioja! — Esclamò Pinotto prendendo l’usciere per le mani e forzandolo a far un mezzo giro di monferrina. Il Capitano baciò il suo protetto, e quel corifeo di Fido gli saltò sulle spalle. Sfogato il primo impeto, Pinotto ripercosse le mani insieme dicendo: — Adesso, Capitano! Capitanò!... — Ebbene, che cosa? — Senta, senta, se non sono indiscreto. Abbia ancora la bontà di farmi l’anticipazione di un’altra lira sul mio futuro stipendio.... Veda, veda! desidero ardentemente di comperarmi una cravatta, una famosa cravatta, con cui ho fatto all’amore tutta questa mattina sul Corso. Questa mi otterrà di colpo una promozione, appena mi presenterò all’ufficio. — Ma subito! Subito! S’immagini! Ecco.... Ecco mia gioja! — Ma invece di pensare neppure a comperarsi la cravatta, Pinotto trottò lesto all’ufficio telegrafico dove spedì il seguente telegrammino alla mamma: — _Ottenuto impiego, finalmente! settanta lire mese. Evviva! tu, Carolina, quanto contente! Lavoro._ Così entrato nelle Ipoteche con le più belle fantasie nella testa, egli si mise a sgobbare altresì materialmente come un martire. Quando era al banco, lo si vedeva girare qua e là con gli occhi che sembrava volassero in cerca di pubblico da servire.... Poi su e giù per le scale e per le scalette con enormi libracci sulle spalle. Quei libracci, come si può immaginare, costituivano il vero carico di un pover’uomo. Allorchè egli doveva toglierne tre o quattro dagli scaffali o riporveli, metteva in mostra la più farraginosa disinvoltura travettiana. Alzava le mani per tenere in aria gli uni, e usava la compressione del petto verso gli altri, perchè non cadessero in terra ad ammaccarsi le loro orecchie. Pazienza fossero state quelle del prossimo! Certe volte pareva addirittura inchiodato come una bestia da macello a quegli assi della scansia. Appena uscito poi dall’ufficio, si metteva intorno al suo _Volar di fiori_ e vi spendeva sopra molte ore della notte. Madre! Amorosa! Pane quotidiano! Arte e lavoro!... Che cosa mancava tuttavia a Pinotto? Gli mancava il fondamento di tutte le sue cose. Gli mancava l’assicurazione dell’amore e del soccorso materno. Dopo aver aspettato indarno per una settimana la risposta della signora Placida, il poveretto cominciava a ritornare di cattivo umore, dubbioso, quando il Capitano gli si fece innanzi con cera allegra e promettente. — Ecco per lei! E gli presentò due lettere: l’una con la soprascritta in caratteri grossi e piatti del secolo passato, e l’altra con un bel corsivo minutino e moderno. Pinotto impallidendo, aprì la prima, che era di sua mamma. Eccola testualmente, salve le maggiori sgrammaticature e la più grottesca ortografia, che l’avrebbero resa poco intelligibile al pubblico; essa diceva: «_Signor, signor figlio_, «Dopo tutto quello, che hai fatto anche ultimamente, mi stupisco forte, che tu abbia ancora avuto l’ardire di indirizzarti a una tua madre. Ah! ci vuole un bel coraggio! Mangiar tutto, vendere tutto! «Io l’ho subito detto, e poi me lo ha ripetuto anche il teologo, che sarei pazza da legare se ti ascoltassi ancora. Ti ho già ascoltato fin troppo per il passato, e pur troppo è stata la rovina tua e la mia. «Adesso io ne ho appena abbastanza per andare innanzi con Carolina onoratamente.... Invece tu mi sembra, che tu abbia ancora buon tempo e delle storie per la testa. Dovresti tu aiutarmi nella vecchiaia e non pretendere il contrario... Basta, basta, caro figlio; se tu avessi avuto un po’ più di Religione non ti sarebbero capitate tante disgrazie. Questo solo posso risponderti, di essere una volta bravo e di andare sempre in chiesa a fare le tue devozioni da cristiano battezzato. Ecco ciò che ti è capitato a voler disobbedire i Santi Comandamenti di Dio e della Chiesa, e a stare a quello che dicevano quei scellerati garibaldini, tuoi amici, e anche a scaldarti sempre la testa con i romanzi che lo inferno li abbruciasse tutti una volta! «Ah, caro figlio, mi raccomando tanto e poi tanto, va subito dentro una chiesa a domandare perdono nel confessionale delle tue mancanze. Io farò quantum possio per ottenere dalla Madonna la tua grazia. Anderò a sentire una messa per te alla Consolata, e farò anche venire la Carolina. Pregheremo con fervore la Madonna per la tua conversione dei peccatori. Faremo magari accendere una candela dinanzi all’altare maggiore in onore del Santissimo Esposto, acciocchè voglia toccarti più facilmente il cuore. «Guarda, Pinotto, guarda la bontà, che hanno ancora per te tua madre e tua sorella, dopo tutto il male che hai fatto loro... «Del resto noi due non possiamo fare mica di più, povere meschine che siamo per causa tua! Quindi aggiustati da te, come meglio saprai o potrai, soprattutto domandando perdono di cuore a Dio delle tue colpe e accostandoti con frequenza ai Santi Sacramenti. «Ti saluto, ti saluto, anche per parte della Carolina che adesso fa il pastone dei Canarini. «Addio, addio! Ai cagnetti non ho detto niente del tutto. Addio, addio. Credimi, sono e mi chiamo tua affezionatissima madre, signora signora Placida. «_Vedova_ PANETIO _nata_ RHOCCIA» «_N. B._ Ricevuto, appena dopo vergata presente, tuo dispaccio impiego. «Si vede che sei già più ricco di noi, che spendi denaro nel telegrafo. «Se hai poi veramente ottenuto costà impiego, ciò mi dà quasi fastidio. Guarda, guardati sopratutto, come dice anche il teologo, che non sia poi un impiego del Governo scomunicato e usurpatore in Roma della Santa Sede di San Pietro, a fine di non disonorare la tua famiglia che è sempre stata cristiana e non fare portar pena all’anima di tuo padre, che è morto in seno alla nostra Sacrosanta Religione e non già _sine crux e sine lux_, come le brutte bestie. Ah! È meglio piuttosto far niente e digiunare in orazione piuttosto che servire un governo ladro, libertino e sacrilego, come dice il giornale nella Cattolica di Domenica. Guardati, guardati ben bene. — Questo è un vero consiglio da madre, per salvarti. Sono, sono di nuovo tua affezionatissima madre, Placida.» XXVIII. Finita la lettura di questa lettera idiotica, crudele e bacchettona, Pinotto stette fermo e silenzioso, come chi aspetta un prorompimento di lagrime; ma poi vedendo che queste tardavano a venire, ne perdette persino la speranza, e fece sentire un verso ingratissimo, bestiale, come una voce mista di pappagallo, di struzzo e di maniaco. Il capitano accorse a lui spaventato. — Niente, niente, brav’uomo... Non posso piangere... E in quel punto uscì in un fiotto di lagrime. Rasciuttosi in un baleno: — Niente, niente — ripetè — Sono stato un mammifero dell’ultima specie a credere a mia madre.... Fossi stato un cane... allora sì, mia mamma mi avrebbe perdonato, anche se gli avessi morsicchiata e ridotta tutta in pezzettini la sua veste di sposa... Ma suo figlio, oibò! — Sentì nella bocca il ribaldo ribrezzo di avere assaggiato la pappa dei cani e torse orribilmente la figura. — Si tranquillizzi, signor Pinotto — gli diceva l’usciere con un’aria un po’ inquieta. — Si tranquillizzi. — Tranquillo...? Altro che tranquillo, Capitano. Ai suoi ordini, Capitano. (portando militarmente la mano destra all’ala del cappello). Vi fu un minuto di silenzio straziante; per interrompere quello strazio e per tentare la sorte, chi sa? di una rivincita, l’usciere ripigliò: — Guardi che ha ancora da leggere una lettera.... — Ah sì, è vero..... Che smemorato! Me ne dimenticavo. — E guardi.... Uh! uh! come è spessa. Ci deve essere qualche mago lì dentro.... — Ah!... È il suo, il mio Edoardo che ci manda cento lire... Cento lire! — E fece scoppiare una formidabile risata. — Oh! come ti voglio bene, caro Edoardo. Grazie!... Ti mangerei vivo... — La prego, si tranquillizzi, signor Pinotto si calmi... — Tranquillo, tranquillissimo, signor Capitano, tranquillissimo.... Che cosa vuole di più tranquillo che così? Vuole che lo abbruci questo biglietto per accendere la pipa? Oppure vuole che lo adoperiamo per far cuocere un paia d’uova, come ha fatto quel principe o ban... chiere di.... di.... di.... di Barcellona.... Ma... bisognerebbe averne di più... Bisognerebbe..... — Per carità, sia buono; mi ascolti..... — Ah! signor Capitano! Lei ha paura di me.... Ebbene, se lo vuole, se lo pigli pure per lei il suo biglietto... Lo pigli, lo tenga... — Io no, io..... Lo tenga per sè, è suo; ma dico..... — Io sono tranquillo come un Battista, Capitano! Io canto, ballo, suono e rido..... Vuole che gli faccia vedere i ritratti degli inquisitori?... Eccoli qua; li ho comperati a Trieste... — Aperse una scatoletta e sciorinò una filza di ritrattini ovali attaccati insieme, poi con la chioccata di un lampo li fece scomparire rinserrandoli nella scatoletta. Qua e là gli scoppiettavano le idee nella testa, come sprizzano le faville, quando il martello stramazza sopra un ferro rovente. La sua atmosfera cerebrale si era fatta alida e satura di elettricità, come una sera di estate dopo una lunghissima asciutta. — Capitano? vuole un pesce salato? Vado ad inforcare una salacca nella credenza... Aspetti... — No, no, no!... — Vuole due giuochi di prestigio? — Ma no, m’ascolti. — Non si inquieti, Capitano........ Anche avessi mia sorella, dove ci teneva le sue l’onorevole, il venerabile Pietro Aretino, scusi un signore, che noi non abbiamo avuto la fortuna di conoscere personalmente, anch’io, dico, (facendo la voce acuta e i gesti puntuti da ubbriaco) sarei tranquillo lo stesso... tutti mi leverebbero il cappello... Riverito, signor ingegnere, riverit..o! — E si faceva da sè stesso delle profonde scappellate. — Vuole che balliamo di nuovo, signor Capitano? Su, io lo sfido, sopra una gamba sola. — E si mise a girare vorticosamente a piè zoppo, e con la lingua un palmo fuori dei denti. Spossato dall’asma, dal capogiro e dal sudore, egli ristette traballando. — — Capitano? mi gira, qui non si può più respirare. — Spalancò la finestra. — Auff! Non c’è più aria..... Io soffoco.... Chi l’ha mangiata?... Io vado a cercarla..... — Uscì furiosamente sbatacchiando l’uscio con fracasso. Fido si rizzò sulle due piote di dietro, alto come un cavallo, e si arrotò contro l’uscio guaendo lamentosamente per seguire quel forsennato. XXIX. L’aria fresca di fuori gli smorzò l’incandescenza del cervello; egli pensò tosto: — Se non uscivo, correvo rischio di diventar matto!... Ah, stupido!... e per una cosa, che è poi prestissimo spiegata.... Voglio dirla subito al capitano e a Fido che mi sono venuti dietro. Mia madre non mi capisce e io non posso farla capire. Non c’è vocabolario, non c’è crittografo fra noi. In questo squilibrio della società moderna ci sono membri in una stessa famiglia più distanti fra loro e più incapaci di comprendersi vicendevolmente che non siano una tartaruga e un elefante. Che farci? La colpa non è di nessuno; mia madre mi crede uno _scappa di casa_ ordinario, di quelli di una volta, che fuggivano dal collegio o derubavano dell’orologio la serva del professore, per andare a suonare l’organino nelle vie o per fare il trombetta in un reggimento spiantato. Essa ignora completamente la nuova varietà del mio tipo. Essa non ha torto.... Che farci? XXX. Queste cose egli disse press’a poco, sebbene in forma più popolare, al Capitano, quando fu raggiunto da costui e da Fido, il quale voleva persuadergli, chi sa che cosa, stampandogli le impronte delle sue zampe sul panciotto. Ritornato a dormire nella cameretta del suo ospite, egli provò un estremo disagio per tutta la notte: sentiva emanare dalla compagnia di lui un odore caprino insopportabile, che egli non aveva mai avvertito prima di ricevere l’ultima scomunica materna. Nel mattino seguente egli spifferò senza ambagi al suo benefattore: — Caro mio, io soffro a dormire nella stessa camera con altri; non sono assuefatto a questo, e ce ne andrebbe di mezzo la mia salute, se seguitassi; quindi io vi ringrazio e mi affitto una stanza da me. — L’usciere restò quasi mortificato e anche pauroso, che il giovane avesse trovato quel pretesto per non incomodarlo maggiormente, dopo che aveva ricevuto quelle cento lire da Edoardo. — Senta, signor ingegnere: tra noi non dobbiamo fare complimenti. Mi senta: è molto meglio, che rimanga con me. — No, no, no! — rispose con fuoco Pinotto. — Non si offenda, mio caro signore. Tra noi, veda, si farebbe più economia... — Non voglio! — ribattè Pinotto con rabbia vivace. — ... E non mi secchi. L’usciere rimase mortificato del tutto. — Senta, signorino, io sono un contadino rispetto a lei, e non mi ricordo più nemmanco di essere stato militare, quando discorro con lei. Quindi mi scusi..... Quanto alla stanza, faccia pure come vuole..... poichè ella vuole assolutamente così. Io dicevo soltanto... perchè mi rincresce privarmi della sua compagnia..... dicevo.... — Ma vedendo contro di sè una terribile morsicatura di baffi, cambiò discorso. XXXI. Sbalzato un’altra volta dall’orbita della famiglia, Pinotto ritornò nuovamente un individuo buono a nulla e vizioso come un somarello, dove poco prima fidando negli auspicii della mamma si era sentito capace di afferrare con dita di ferro la rettorica chioma della Fortuna, e il suo povero cuore era già divenuto tutta un’iride di magnifiche speranze. D’allora in poi nel suo ufficio egli si adoperò non solo rimessamente ma poltronescamente. Quando dal piano superiore doveva trasportare qualche grosso volume ipotecario nel piano inferiore, egli anzichè recarselo in mano o sulle spalle, lo pigliava a calci per farlo rotolare giù dalle scale. Egli si dimenticava persino di andare a trovare l’usciere suo salvatore. Un giorno questi, mosso dall’affetto e dalla puntura di non averlo visto da un pezzo, si recò a cercar lui. Trovò l’uscio chiuso; girò invano la maniglia, orecchiò e sentì bisbigliare dentro la cameretta la voce squarrata di una ragazzaccia che nella sua raucedine cronica, accusava le scollacciature dei veglioni. Dondolò la testa, come un bue offeso, e ritornò indietro borbottando! — Questa poi mi dispiace veramente.... Brutto.... Mah! mah! — Fido abbajò, come ci fossero stati i ladri. XXXII. Per mantenere sè stesso e i propri vizi, Pinotto mandava di nuovo lettere sopra lettere ai parenti e massimamente agli amici, da cui invocava continui soccorsi. Però rattenuto da un certo sentimento misto di onta, di riserbo e di gratitudine, egli risparmiava Edoardo. Fu questi il primo dopo un lungo silenzio a farsi vivo con lui, affrontando egli stesso il pericolo pecuniario, mediante la seguente lettera importantissima: Milano, il .... «Caro Pinotto, «Ho rinunziato all’idea di un primato avvocatesco in una cittaduzza di provincia, e siccome sono nato vestito, mi sono presa la libertà calamitosa di venire a Milano per fondarvi un giornale letterario, intitolato _Il Guastatore_, di cui ti unisco il primo fascicolo. «Il nome ti dice abbastanza il programma. «È, salva la modestia, una specie di _Frusta Letteraria_ adattata ai giorni che corrono. «Io veggo nella letteratura italiana contemporanea una specie di selva _aspra e forte_ con relative Maremme e paludi pontine. Bisogna diboscare, spianare, colmare, prosciugare, fognare, bonificare.... Ecco il perchè del mio _Guastatore Letterario_ e per giunta _Scientifico_ e _Artistico_. «Tu mi sembri fatto per la quale. «Con il tuo ingegno, con i tuoi studi, tu sei stampato apposta per godere la suprema voluttà di dare dell’asino a chi se lo meriti. «Mi pare già di vederti abbarbicato come un rovo alla letteratura di chi so io. «Ti creo quindi mio collaboratore con carta bianca. «Non insisto però, affinchè tu faccia la polemica. Fa quello che vuoi; mandami quello che stimi meglio: racconti, bozzetti, poesie, epigrammi, schizzi di viaggi e di costumi; filosofia popolare, ecc., ecc., insomma tutto quello che ti pare e piace, purchè mi mandi qualche cosa. «Credo bene aggiungerti che anche in Italia i giornali letterarii hanno presa la lodevole consuetudine di pagare. Pagano poco, ma pagano qualche cosa per ora.... e pagheranno finchè potranno. Il mio _Guastatore_ dà L. 2 e 50 cent. al colonnino.... È nulla, ma sono i sigari. «Appena riceverò un tuo manoscritto, te lo conteggierò e te ne spedirò l’importo a volta di corriere. «A te farò buone anche le interlinee, la firma e l’intestazione e ti lascierò andare a capo e mettere tanti asterischi, quanti e finchè vorrai. «Non ti pago anticipato, perchè voglio costringerti, non solo a scrivere, ma altresì a pubblicare. «È mia ambizione quella di essere il primo a farti rompere il ghiaccio con il signor Pubblico. «Addio — manda — e credimi «Tuo aff.mo ecc.» Appena letta questa lettera, Pinotto corse a prendere il suo _Volar di fiori_, che era già diligentemente copiato, un bel manoscrittone, che ridotto in istampa avrebbe occupato per lo meno cento colonne del _Guastatore_. Cento colonne! 250 lire! Che bazza! Il povero giovane nel rivolgere il suo scartafaccio fra le mani, ebbe malauguratamente una sensazione complessa, più che quadernaria, una di quelle sensazioni, che costituiscono il pensare velocissimo dei genii e dei pazzi. Egli sentì nello stesso punto la sua alterezza e la sua impotenza artistica, il suo sovrano disprezzo per il pubblico e la sua vergogna di divertire per paga con la penna, chicchessia: il ladro, il prete, il porco, il commendatore, la marchesa, la cortigiana, la tabaccaja, la signorina, la fame e l’indigestione, insomma qualsiasi galantuomo o malandrino possessore di un soldo.... A un tempo sentì echeggiare caninamente nelle orecchie la voce di sua sorella che abbaiava smascellando dalla risa: _Bo..jno_! _Bo..jno_! — e sentì scolpitamente la voce secca di sua madre, che aggiungeva: _faresti meglio a studiare d’aritmetica e a imparare a servire la messa_. Più che tutto vide stampata davanti a sè l’ultima lettera di lei... Alzò sulla testa il manoscritto, e poi lo sfracellò per terra, rovesciandogli sopra il motto di Cambronne con una grossa bestemmia contro alla Divinità innocente. Quindi, raccattatolo, fece fare la fine più turpe al suo povero ed eccelso _Volar di fiori_. Così distrutto ignominiosamente il suo ultimo lavoro letterario, quello che gli aveva dato maggiori contentezze e maggiori speranze, egli si credette più grande di Dante — si credette un glorioso Vergine e Martire dell’Arte, degno di sedere in paradiso più vicino di tutti al trono di Dio, perchè riporterebbe intatti all’Eterno i fiori del suo genio. XXXIII. Così ricacciato del tutto, e per colpa principale di sua madre, nella più deplorevole superbia artistica e ristrettezza pecuniaria — egli, dopo avere rifiutato la retribuzione, seguitò a ricorrere alla elemosina, tanto che una sera di domenica, in una famiglia di Torino dove si facevano giuochi di società e si tagliavano i fogli al _Guastatore_, tre amici poterono combinare lo scherzo di estrarre nello stesso tempo di tasca e leggere la stessa lettera circolare diretta a ciascuno di loro dallo stesso Pinotto: — Mio carissimo! — Mio carissimo! — Mio carissimo! — Nuovamente piombato... — Nuovamente piombato... — Nuovamente piombato... Poi il terzetto così seguitava: — «Nuovamente piombato nella più profonda miseria, ti scongiuro di inviarmi al più presto, che ti sarà possibile, la piccola somma di cento lire. Ti assicuro di restituirle sull’onor mio a dieci per mese. Saprai comprendere le mie dolorose necessità, senza che io ti rattristi ad enumerartele. Fammi quest’ultimo favore, che è per me di una suprema importanza: questione di vita o di morte. Prometto di non domandarti più nulla per l’avvenire. Nel restituirti la somma, terrò calcolo degli interessi. «Tuo, ecc.» Nel leggere queste parole, i tre amici davano a divedere di sentire nelle medesime più l’alito dello scrocco che quello della disgrazia; e commentavano più malignamente con gli occhi che con la voce. — Mi sembra che potrebbe bastare... Ogni cosa deve avere un termine... — Sull’onor mio! Magra garanzia!... e quella continua ostentazione degli interessi? — E quel perpetuo annunzio dell’ultima rappresentazione delle sue domande? — Una signorina butirrosa, che in altri tempi era stata molto perseguitata da Pinotto, su cui però essa aveva fondate grandissime speranze, — ora volendo ingraziarsi i nuovi amici, fece trasparire dagli occhi la maggiore volontà di mostrarsi spiritosamente ingenua e domandò: — Ma se è sempre nella miseria, perchè non si ammazza quel birrichino? Un’altra signorina dal collo molto lungo, e che aveva letto _Notre Dame_ di Vittor Hugo, allungò ancora di più il collo e rispose con grande pretesa di malignità: — Ah! egli non si ammazza, perchè ammazzando sè stesso avrebbe paura di ammazzare un grand’uomo. XXXIV. Se la maggior parte del mondo, che lo conosceva, trattava così crudelmente Pinotto, questi non trattava meno crudelmente il mondo da lui conosciuto; prova ne siano gli _appunti ed aforismi_, che egli scriveva sul suo taccuino, a sfogo del suo animo e come materiali di qualche nuovo suo capolavoro da distruggersi. Eccone alcuni tratti spietati, o volgari, o semplicemente barocchi, o addirittura infami: —— «Ho fatto degli studi, che credo esatti, sulla felicità umana, e ne ottenni i seguenti risultati: «Detta felicità non consiste, come taluni credono, nel _lavoro_; imperocchè il lavoro, acciocchè faccia l’uomo felice, bisogna sia una esplicazione di forze geniali, quanto dire, sia già determinato da un sentimento di felicità. «Del resto, che razza di felicità è mai il _lavoro?!_ «Io stamattina, con lo stomaco vuoto, mi sono messo a copiare un estratto ipotecario nauseantissimo. A un certo punto mi venne una vertigine, ed ebbi uno sforzo di vomito, come dopo il mio tentativo di mangiare gli avanzi di Glafir.» —— «Neppure la tranquillità della propria coscienza costituisce la vera felicità umana. «Ammetto, che, quando taluno stia per partire da questo mondo, provi un certo gusto nel volgersi indietro, e trovare, che non abbia mai commesso una viltà o altra azione cattiva. È una cara soddisfazione, che ho provata io stesso molte volte. «Ma questa non è la felicità, nè l’igiene della vita; è la felicità, l’igiene della morte.» —— «Adunque la vera felicità secondo me consiste nella illusione, nella presunzione o nella ferma persuasione di essere felici, dettata dall’amor proprio, più o meno coadiuvato da una malattia o anche da una sanità del cervello.» —— «In prova facciamo la rassegna alfabetica degli uomini felici. «A., mio capo ufficio, è un uomo che ha l’incrollabile convinzione di avere una bella voce. Tutti coloro, che ebbero la disgrazia di sentirlo a cantare, riconoscono invece unanimamente, che la sua voce è molto inferiore di pregi a quella della foca, _di questo vitello marino, che allatta anche i nostri figliuoli, preso dal celebre capitano Carbone Kock, nei deserti della rabbia_, come diceva stamattina colui, che faceva la spiegazione nel Baraccone di Piazza di Termini. «Eppure nè il Collegio de’ Cavalieri dell’Annunziata, nè il Presidente del Senato, nè il sommo Pontefice, nè altre autorevoli persone e nemmanco suo padre, se tornasse dall’altro mondo, potrebbero diminuire di un atomo la persuasione ferrea del signor A., di avere una voce stupenda. «Il mondo, d’ordinario, quando vede in qualcheduno una stima invincibile di sè stesso, la rispetta, si tratti di qualsiasi materia, anche più importante della musica e della politica. Quindi il signor A. è lasciato nel pieno e pacifico possesso della sua immaginazione, ed è per sopprappiù mantenuto giuridicamente nel medesimo dalla giurisprudenza delle Corti di Cassazione di Firenze e di Torino, che accordano l’azione _De Reintegranda_ contro chi tentasse uno spoglio violento e clandestino di qualsiasi possesso d’immaginativa. «In questo stato di cose, egli non può più stare nella pelle dal contento. Tanto è vero, che avendo affittato alcuni giorni sono un villino nella campagna di Frosinone, e avendo sentito suonare un pianoforte nella palazzina limitrofa, volle curiosamente informarsene; e seppe, che lo suonavano due signorine da lui sconosciute, le quali ogni mattina ad una data ora andavano ad _abbeverarsi_ ad una certa fontana magnesiaca. «Si trovò anch’egli all’ora fissa presso la fontana magnesiaca, si levò il cappello, aprì le braccia con uno slancio rapido, che fece fare al cappello una graziosa curva di un metro e mezzo e si presentò da sè stesso alle signorine con questa magnifica ed inaudita autopresentazione: — Sono loro, signorine, che suonano così bene il pianoforte? me ne rallegro... (quindi con un accento inesprimibile) Ed io sono.... Sono baritono! «Oh, uomo (più che baritono) felice!» —— «B., altro mio superiore di ufficio, ha comperato parecchi ettolitri di vino siciliano scelleratissimo, che dà al palato il gusto preciso dell’inchiostro. Eppure nessuno potrebbe togliere dalla testa al signor B., che quel vino, perchè l’ha comperato lui, non sia ottimo, e che il vinattiere, vendendoglielo, non abbia per lo meno rimesse del suo cinque lire ogni ettolitro per la sua bella faccia. Ed egli è tanto contento di questa sua persuasione, che contro la sua abitudine di bere annacquato, giunto alla frutta, si permette di versarsi nel bicchiere un dito puro della sua _nuova compera_; e lo centellina con tanto gusto, che pare ascolti la propria ammirazione; poi dice a sua moglie: — Ah! non c’è nessuno che sappia e che possa comperare del vino buono, come noi!» —— «C., mestierante di letteratura, benchè di complessione atletica, è nello scrivere molto più snervato dell’Abate Chiari di evirata buesca memoria; eppure egli ha l’intima convinzione di essere uno scrittore colossale come la sua corporatura e di dare il suo nome per lo meno a un quarto di secolo. «Questa credenza non gli è inspirata dal consenso universale delle serve e delle signore, che gli manca, ma dalla superba fiducia in sè stesso; ed egli ne dimostra la relativa felicità con la lunghezza e la nerezza del frac, e con la maniera grave di sbottonarlo, quando ha da pagare il vermout: frac e maniera copiati dai ritratti in rame dei più celebri scrittori francesi contemporanei.» —— «D., è un altro negoziante di carta sporca, sebbene anch’egli abbia pochissimi compratori della sua merce. In fondo, egli è certamente un ottimo ragazzo, ma di _dottrina scarsa e menna_; come il Bonghi diceva del compianto Rattazzi. Quando io volgo lo sguardo alla sua cultura, provo una sensazione penosa, come se dovessi passeggiare a piedi nudi sul pavimento di una bottega da rigattiere o peggio in un campo seminato di bicchieri rotti. «Eppure il signor D., trincerato rigidamente nel suo castelletto di quattro idee fisse, è completamente soddisfatto di sè stesso, perchè egli è fortemente persuaso che quel poco, che egli sa, sia tutto ciò che un cervello acuto e assegnato come il suo debba sapere, e che quel moltissimo che egli non sa, non meriti per verun conto che una creatura ragionevole lo sappia.» —— «E., ha una moglie brutta come la notte, nojosa come il male di pancia, e cattiva come i debiti per le persone timorate. «La peggiore non se l’è sognata Simonide scrivendo la sua satira contro alle donne. Io preferirei alla medesima un reggimento di cimici. «Eppure il signor E. crede di possedere un miracolo di moglie. La ragione ne è semplicissima. «Il signor E. è un uomo di giudizio, anzi è un uomo realmente furbo. «Se quindi sua moglie se la fosse sposata, anzichè lui un suo amico, egli sarebbe stato il primo a riconoscere la costui disgrazia e a deplorarla con sincerità e profondità di convinzione. Ma per tutto quello che fa egli personalmente, la sua furbizia gode di una specie di infallibilità pontificia; è impossibile che egli dimostri un solo momento di non avere buon gusto o peggio ammetta di aver fatta una corbelleria. «Quindi la cosa non è neppure discutibile: la signora E., per la sola ragione che il signor E., ha creduto bene di sposarsela, deve essere e diventa effettivamente un portento di bontà e di leggiadria per lui e per tutti.» —— «F., possiede un’amante, che cede di molto in dignità a quelle disgraziate suonatrici ambulanti, che girano nelle birrerie di ultima classificazione a strimpellare sulla chitarra con accompagnamento di voce fessa, _camicia rossa, camicia ardente...._ «Ebbene il signor F., è persuaso che con la benefica irradiazione del suo animo sempre caldo di poesia elevata e simili ingredienti, e con l’insistenza e l’opportunità de’ suoi savi consigli, egli ha oramai riabilitata, che so io, rigenerata quella creatura perduta, insomma le ha salvata addirittura l’anima. «Ma essa non gli salva nemmeno una bottiglia di Barolo secco, e va dicendo a tutti, che, se non fosse per quei pochi, avrebbe già mandato, chi sa quante volte, a carte quarantanove quell’uggiosissimo predicatore! «Ciò lo sanno tutti, lo sentono tutti, anche coloro che non vorrebbero sentirlo; ma per il signor F., è impossibile che egli ne sappia nulla, ne senta nulla. Del resto, egli non sarebbe più quello, cui egli si stima, cioè il Direttore Generale dei fenomeni amorosi nel Regno con monopolio bancario di riabilitazione femminina. —— «G, H, I, L, M, N, O, P e Q sono nove tra figliuole e nipoti di una portinaia; hanno tutte l’ossame grosso con certe facce mascoline, che starebbero molto bene non già alle nove muse, ma ad altrettanti suonatori di tamburo della defunta Guardia Nazionale. «Eppure esse formano una potenza di felicità. «Quando escono dalla fabbrica delle cartucce, in cui sono tutte impiegate, la fanno sgallettare e scoppiettare visibilmente per via la loro felicità terribile. «È un mercato, una fiera luminosamente allegra che passa. Nessuno, che le guardi, commette il minimo peccato di desiderio per loro conto. Eppure esse si infischiano sovranamente di tutto e di tutti. «Allevate insieme, use a chiacchierare insieme dal mattino alla sera, hanno costituito una rispettabile consorteria di pensieri e di buon umore, di gergo convenzionale e di beffa presuntuosa, di sottintesi e di occhiate assassine, a cui nulla resiste. «Esse pigliano chiunque passi nella via o più disgraziatamente davanti il loro casotto, sia egli un pezzente o un _pajno_, un capitano dei pompieri od un uomo di Stato, e lo colpiscono con mirabile divinazione nel suo lato debole, o nel suo piccolo punto vulnerabile, si trovi esso nel naso o nel nodo della cravatta, nel gozzo incipiente o negli stivaletti mal fatti, e lo svestono e lo scuojano con una maestria di una felicità invidiabile, che meglio non potrebbe fare Vittorio Imbriani.» —— «R., (si ommette _honestatis causa_). —— «S. — Severina è una perla di ragazza, un colonnino di bellezza, di morbidezza e di dolcezza. «Fu assassinata anzitutto da suo padre, che prima di morire ebbe cura di mangiarle disgraziatamente quattro quinti della sostanza lasciatale dalla defunta sua mamma. In seguito fu vieppiù assassinata dai preti, i quali continuano a rosicchiare le due vecchie cugine, con cui ella convive mantenendole del suo. «Nessun giovinotto osò amarla, perchè la sua fortuna andò sempre liquefacendosi in modo viemmaggiormente riconoscibile, e anche perchè ella non diede mai una stretta di mano, che non fosse frigida e rigida. «Oltre a ciò la poveretta non divide la terza parte delle credenze e delle pratiche religiose, in cui infuriano le vecchie beghine, alla cui compagnia si è condannata. «Per tutti questi motivi, Severina avrebbe tutti i diritti di essere infelice: lei bella senza ricchezze; buona, senza amore; sempre in mezzo all’odore di sacristia, essa che ha il cervellino mezzo filosofico; per di più pare sia stato scritto per lei — _nessun maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria!_ — Infatti se non fosse stato di certi se, in cui ella non ci ebbe proprio veruna colpa, insomma, se le cose fossero andate, come dovevano andare, ella avrebbe dovuto trovarsi al presente sfolgoratamente ricca e corteggiata. «Eppure nonostante questi ottimi requisiti di infelicità, Severina è tutt’altro che infelice. Con la squisitezza del suo animo e l’elevatezza del suo ingegno si è fabbricata alcune massime, che mette rigorosamente in pratica, e della loro scoperta è gelosa e contentona, più che se avesse ottenuto da un Congresso Astronomico il permesso autentico di battezzare con il suo nome quattro nuovi pianeti e il relativo brevetto di invenzione dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio. «Per esempio ella ha trovato, che le ragazze povere non devono mai amare, perchè glielo proibiscono l’interesse e soprattutto la dignità. «Questa _trovata_ è una delle sue principali ricchezze. Ha poi scartato da sè, mediante un lunghissimo processo di analisi, quasi tutta la scoria degli atti del culto esterno, ed ha condensato la sua religione in un brodo consumato di ideale evangelico. «Tutto questo preparato di chimica religiosa secondo lei è riuscito addirittura un capolavoro, cui ella va ogni giorno raffinando di più, mentre vi si affina lei stessa; per cui, oramai atrofizzatosi completamente il cuore con altre parti della vita animale, non solo si crede ma si _sente_ in diretta relazione con certe intelligenze e consolazioni di ordine sovranaturale; quindi giornalmente compie atti di eroismo domestico con la più felice ed eterea indifferenza.» —— «T. (non si può inserire per la ragione detta alla lettera R). —— «U. (Idem). —— «V. (Idem). —— «Z. è un dottorino lungo e rettilineo con la testa da rettile, nella quale si trova un cervellino microscopico, che brilla di una luce insistente, rabbiosa e ridicola come una scheggia di madreperla in un banco di sabbia. «Egli è venuto al mondo con la sconfinata ambizione di signoreggiare la Società, mostrandole apertamente il proprio disprezzo; cómpito difficile e metodo fallacissimo, imperocchè la Società non concede i suoi favori se non a chi la piaggia vistosamente; padronissimo questi di sputarle contro, ma solo dopo essersi trincerato nel più stretto incognito. «Quindi il dottorino Z., invece di riempire di sè cento volte al giorno, come neppure sarebbe bastato al suo desiderio, le Camere, la Stampa, la Scienza, l’Italia e il mondo, divenne dopo mille sforzi e rimase nel suo mestiere un oscurissimo specialista di malattie vergognose. «La sua anima dovrebbe esserne afflitta e _ruggire_ continuamente, come lo _spirto d’abisso_, quando se ne parte _Vôta stringendo la terribil ugna_. «Eppure l’altra settimana io ho riveduto il mio caro dottorino, con uno splendido cappello a cilindro che quasi mi abbarbagliò. — Quel cappello — dissi meco stesso, — è un indizio certo di sicurezza e di felicità interiore, perchè un’anima fiacca e malinconica fa il contrappelo al suo cilindro nel primo uscio, in cui scantoni. Quale sarà la ragione di questo fenomeno? «La investigai. «Mancando al Nostro qualsiasi supremazia esterna, egli si è cristallizzato poco per volta nel suo sè un sentimento di supremazia interna, per cui giunse a dire sul serio ad una allieva infermiera, che egli non si credeva inferiore ad Alessandro Magno. «Il continuo esercizio di questo sentimento gli fece ammucchiare giorno per giorno un tesoro di prodigiosa imbecillità, che basterebbe a rendere felici quattordici generazioni di Accademici delle Scienze, non che un solo dottorino. Eccone due soli esempi: «Il dottorino Z. l’altro giorno ricevette il diploma di _Italiano benemerito_ della Società Neo-latina sotto la presidenza onoraria del Principe Ereditario, con medaglia d’oro e mediante pagamento immediato di lire ventisei. «Ebbene egli, l’antico scettico, lo ha accettato, mandando senza dilazione al Gran Maestro Creatore del nuovo ordine di iniziativa privata il desiderato vaglia postale di lire ventisei, e non solo ha fatto questo, ma scrivendo ad un mercante di campagna aggiunse alla sua firma con la litania degli altri titoli anche quello di _membro Italiano Benemerito della Società Neo-latina_ dimostrando l’evidente pretesa, che il campagnuolo rispondendogli riproducesse tutto quel carnevale di titoli sulla soprascritta. «Un’altra più marchiana. — Ieri il dottorino Z. seminò in un vaso di fiori un pizzico di seme bachi da seta, presumendo, che avrebbero a spuntar come il trifoglio o il prezzemolo per la sola ragione che li seminava lui. «Si teme che quest’eccesso di felicità lo abbia a far tradurre prestissimo al Manicomio Provinciale, locchè sarebbe per chicchessia la massima delle felicità terrene.» —— «Insomma, ricapitolando, senza una capitale presunzione non si dà felicità a questo mondo, ed essa si può un’altra volta definire con una piccola variante: — La felicità è la supposta _privativa_ della infallibilità personale per parte della cocciutaggine, della imbecillità, e meglio della pazzia umana. «Un immenso proverbio aveva già detto: — _chi si contenta, gode_.» —— «Mi pare cosa certa, che oramai l’Arte si muta in mestiere, e l’Artista in artigiano. «Nessuna persona ammodo ha il coraggio di leggere un libro che abbia fatto furore dieci anni fa, come niuna signora elegante ha il coraggio di mettersi in testa un cappellino, che sia stato di moda dieci anni prima. «Si estendono agli artisti le regole degli artigiani, e prima di tutte quella di non fare nulla che possa eccedere le facoltà estetiche ed intellettuali, che sono normalmente comuni a tutti i _travetti_, a tutte le maestre elementari, a tutti i parrucchieri, a tutti i lavapiatti e a tutti gli _assidui_ dei giornali politici. «Insomma si dà come principale norma dell’Arte la _misura_, la quale fino a ieri è stata soltanto la norma dei sarti, dei calzolai e dei falegnami. «Secondo me invece la principale norma dell’Arte non è già la _misura_, ma la _smisuratezza_. «Per me il genio del vero artista è una specie di pazzo furioso, che dà delle enormi capate in cielo e ne stacca stelle e procelle a illuminare o interrorire la terra. «Così mi è parso leggendo la Bibbia, Omero, Dante e Shakspeare. «E la scienza del professore Lombroso è d’accordo con me nel GENIO E FOLLIA!» XXXV. Seguita il _Sillabo dei pensieri cattivi_ di Giuseppe Panezio, dai quali si pare a quale disperazione gelida e atroce dell’intelletto possa condurre più che la miseria l’abbandono di una madre. —— . . . . . . . «Sempre nuovi tormenti e nuovi tormentati.» —— «La donna più onesta è la donna, che ha più cattivo cuore. «Viceversa la donna disonesta è la donna di più buon cuore.» —— «Ho sentito ieri dire da una popolana, che suo marito era soltanto geloso degli amanti poveri di lei.» —— «_In demissa_ macheronicaque _latinitate, qua utimur_ larvandarum _liberarum idearum causa, — uxor infidelis est quædam mulier_ GENEROSA _sine permissione Quæstorisque taxatione_.» —— «_Mulier occupatur difficilius, quae aliquam infirmitatem timet accipiendam._» —— «Nell’aritmetica dei giovani celibi, la signora altrui equivale ognora ad una Taide gratuita. Essi dopo aver fatto ben bene il proprio conto, credono sempre più economico lo spendere una grossa somma di moralità, che non una piccola di denaro. — Però questo computo non torna quasi mai loro veritiero.» —— «In nome della Verità, del Buon Senso e della Legge vorrei sbandire dal Vocabolario e dalle superstizioni dell’Umanità le parole _fanciulla sedotta_. «Non ci è mai stata, e non ci sarà mai una ragazza sedotta. Lo si può calcolare con esattezza matematica valutando l’interesse che ha ciascuna delle parti a tirare a sè l’altra, e la posta che ciascuna mette in giuoco. «La ragazza ha l’interesse del matrimonio, che è la sua dignità e la sua impunità in questo mondo, e mette in giuoco un nonnulla. «L’uomo, il preteso seduttore, ha un piccolo interesse momentaneo, e mette in giuoco una immensità, la libertà personale e l’onore della sua vita, se casca nel baratro del matrimonio. Quindi è facile capire che è sempre la cosidetta ragazza sedotta quella che ha sedotto il suo calunniato seduttore.» —— «L’uomo che meriti in qualche modo il titolo di seduttore, è l’uomo che siasi ammogliato appositamente, cioè siasi acconciato a perdere volontariamente la sua libertà e la sua dignità rispetto a una donna, per poter tradire con sicurezza di impunità tutte le altre.» XXXVI. Seguita ancora l’_Album atroce_ di Pinotto. —— «L’amore per le donne è ciò che dicesi uno sciocco _convenzionalismo_. «La stessa bellezza delle donne è un convenzionalismo. «Può essere, cioè parere bella una donna, che si vegga fuggitivamente, con cui non si abbia parlato nè ballato mai. «Allora la donna reale è bella, come la donna ideale che si trova nei libri e in altre opere d’arte, perchè ci lavora o ci ha lavorato intorno la fantasia. «Ma si mangi il sale insieme e per un sol giorno con la più portentosa e più ammirata bellezza di donna che esista realmente, e poi riuscirà impossibile ad un osservatore coscienzioso di trovarla ancora bella, dopo che abbia potuto osservare minutamente a tempo debito le chiazze della sua epidermide sotto le occhiaje. «Quindi io nego, nego recisamente l’assurdo dell’amore reale per l’umanità presente. «Amare realmente e naturalmente è una cosa, che potranno fare tuttavia i fiori dei campi e gli uccelli del bosco, le cui generazioni si sono mantenute sane e illibate ai benefizi dell’aria libera e ai lavacri delle intemperie. «Ma per l’Umanità, che discendendo per i secoli si è sempre più imputridita nei fetidi cubicoli della sua civiltà, l’amore è diventato bugiardo, benchè pochi si accorgano o vogliano ammettere, che sia tale. «L’unico amore logico, vero e tuttavia possibile per un uomo sincero è l’amore platonico verso una donna quasi da lui sconosciuta. «Quanto a me, il solo ricordo delle donne, che mi hanno dato un bacio, mi muove a stomaco. «Sento invece, che amo furiosamente la figliuola del notaio Raffa, che ho vista una volta sola e nella penombra. «L’amo tanto che morirei per lei.» —— «Non saprei precisare, se la razza umana presentemente sia più vile o più convenzionale. «Essa si mostra convenzionale anche nell’esercizio delle sue più importanti prerogative, per esempio nel suicidio. «Di tanto in tanto un garzone parrucchiere disperato, perchè una modista invece di sposare lui ha accettato il solido _trattamento_ offertole da un banchiere, pone fine miseramente ai suoi giorni mediante asfissia, annegamento o salto mortale dal quinto piano; e si legge costantemente nella _Cronaca Nera_ dei giornali, che in mezzo ai pettini dell’infelice suicida, sul tavolino da notte, presso il braciere dell’asfissiato, o sulla ghiaja del fiume d’accosto alle scarpe dell’annegato, si trovarono aperte le inevitabili _Ultime lettere di Jacopo Ortis_. «Or bene queste lettere, dinanzi al nostro modo di sentire odierno, secondo me, non sono più altro che una freddissima decorazione di malinconia patria ed amorosa, una decorazione materiale e posticcia, come quelle gramaglie listate di similoro, con cui i tappezzieri addobbano le porte delle chiese e gli usci di casa invitando il pubblico a pregare per l’anima della damigella X, Y o Z, deceduta nella verde età di anni settantacinque. «La lettura dell’Jacopo Ortis, a chi abbia le sue facoltà naturali in equilibrio, può far nascere l’occasione di uno sbadiglio e l’idea di andare a bere un bicchierone di birra, ma non mai quella di ammazzarsi. «Eppure, chi sa fino a quando nelle rispettabili corporazioni dei giovani parrucchieri, dei garzoni panattieri, sartine, ecc.; durerà questa benedetta usanza di darsi volontariamente la morte, facendola precedere dalla lettura dell’Jacopo Ortis?» —— «Molto vile è l’uomo ammodo od anche di genio, quando a porte chiuse domanda ad una donna, che gli faccia la carità di quell’illusione che è l’amore. Egli allora si abbassa ad adorazioni ed abbiettezze verso una guattera o una squarquoja, con una procedura, la quale ripugnerebbe persino all’accattone, che per avere un soldo di elemosina disegna con la lingua una croce in terra.» —— «Ma vilissimo, e molto superlativamente vilissimo, è poi il medesimo individuo, quando, fuori della _Camera charitatis_, — in pubblico caffè o passeggio sforza i suoi colleghi mascolini a sentire la litania dei suoi miracoli amorosi, millantando la propria superiorità facilissima sopra tutte le donne e sballando di aver ricevuto da fanciulle e da principesse certe cortesie esagerate, che forse gli rifiutarono le vecchie cuoche. Egli allora in seduta pubblica tenta innalzarsi sul sesso femminino, — davanti a cui poco prima, in seduta privata, si era inginocchiato e aveva piagnucolato miseramente — tenta innalzarsi come un pallone areostatico, ripieno di ridicolaggine, vanagloria e menzogna vergognosissime.» —— «Uomini profondamente immorali, superbi, malefici, traditori, furfanti di cuore leggerissimo e senza un briciolo di coscienza, bricconi simpatici, farabutti invadenti e soverchiatori, trovano poi nella vita un istante di debolezza morale per diventare vittime ridicolissime di una serva o di un matrimonio.» —— «La viltà della razza umana si dimostra eziandio nelle sue più umili manifestazioni, per esempio nella critica letteraria. «Essa ha per iscopo patente di demolire il _vero merito_. «Ma c’è un vero _merito_, grasso, lustro, felicemente e completamente riuscito, riconosciuto da tutti, ben voluto da tutti, perchè non va mai a contrappelo di niuna convenienza o convenzione sociale, — un _vero merito_ costituito in così floride condizioni di salute o sopra una così solida piattaforma, che sarebbe non pure cosa innocente, ma sarebbe un bello e coraggioso esercizio ginnastico il giostrarvi contro. «Eppure state sicuri, che questo _vero merito_ fortunato nessuno lo toccherà. «Invece vi è un altro _vero merito_, forse di portata maggiore del primo, ma tuttavia incipiente o ammalato od osteggiato da numerosi nemici per la sua audacia di novità o funestato dalla miseria o dalla moglie impudica. «Ebbene questo _vero merito_ disgraziato sono quasi tutti d’accordo nel dilaniarlo e nel cercare di ammazzarlo.» XXXVII. Ultime note tristi e bizzarre di Giuseppe Panezio: . . . . . . . «Se io dovessi pubblicare un libro, vi metterei come prefazione _la verità, tutta la verità_, NIENT’ALTRO CHE LA VERITÀ, (art. 297 del Codice di Proc. Penale). «Vorrei poi fare stampare il mio libro su carta nera con inchiostro bianco. Così darei ai miei lettori un magnifico effetto di ossicini intagliati nelle tenebre di una cassa da morto; e farei del bene alla vista del prossimo, come mi assicura un professore di ottica.» —— «Ma quale è la vera causa della voga e fortuna straordinaria di certi capi di letteratura industriale? «Senza essere una Commissione d’Inchiesta, rispondo, che ciò dipende non già dal valore intrinseco dell’autore o della merce, ma da circostanze estrinseche. «Per esempio il _Libro di lettura per le scuole, ecc._, dell’abate Gineprai è un libro pieno di sugo, e vale per lo meno un milione di volte più di quello dell’abate Zuccheroni, il quale è pieno di sgrammaticature e di minchionerie (rubate per soprammercato) e non vale proprio niente. Eppure l’ab. Zuccheroni con lo spaccio dei _libri di lettura_, Sillabarii, Aritmetiche, Grammatichette, ecc., ha già potuto farsi fabbricare una magnifica villeggiatura sui colli, mentre l’abate Gineprai, dopo l’aumento di tariffa nei tabacchi, non può più nemmanco fornire al suo naso del rapato a petizione. «Il motivo si è che quel lecchino dello Zuccheroni è entrato nelle grazie del Consiglio Superiore dell’Istruzione Pubblica e di quasi tutti i Consigli Provinciali Scolastici, ecc.; mentre quest’istrice del Gineprai si è fatto prendere nel sedere da tutti i magnati. Ciò che dicemmo dei libri scolastici si può benissimo intendere delle opere di letteratura amena. Anche per queste c’è il Consiglio Superiore e sopratutto ci sono i Consigli Provinciali scolastici delle signore.» —— «Saggio di eloquenza, chiarezza, proprietà ed eleganza forense-burocratica: — Voi, Corte dei Conti, prima di interinare il cennato decreto in discorso, onde difendere ogni ulteriore rimarco, dovevate rendervi edotta, che non si era dato competente evacuo a tutti gli incumbenti che di ragione per l’emarginato rilievo.» —— «L’umorismo è un ferro tagliente, che attraversa un argomento e ne svescia gli umori, come da un tumore. —— «La coreografia è il bagliore superficiale e muto dei prospetti e dei contorni. «Certi scrittori, braccati d’oggi dì, sono semplici coreografi di sentimenti.» —— «Se io dovessi _partecipare_ il mio prossimo matrimonio farei imprimere nell’intestazione della lettera listata di nero una grossa croce nerissima coll’urna mortuaria e relativo salice piangente e terminerei l’annunzio con «UNA PRECE!» —— «In moltissimi uomini la Bontà non è altro, che l’impotenza di essere cattivi.» . . . . . . . —— «La disonestà è la maggior ricchezza delle fanciulle povere e il miglior mezzo per maritarle.» —— «Ultima e vera sentenza sulla felicità relativa data da un povero diavolo, mentre si sentiva stilettato profondamente dal male dei denti: — L’uomo felice è quegli, che non ha male ai denti.» —— «Le assolute disgrazie in famiglia sono: — cani e letteratura inedita.» XXXVIII. Non meno feroce di quello che fosse verso l’uman genere in genere mostravasi Pinotto verso i suoi creditori in particolare, ai quali non si sentiva legato da niun vincolo di riconoscenza. Anzi, per uso e consumo della sua beffa, se ne era formata in mente una gerarchia feudale, o meglio un cielo astronomico: c’erano i vassalli o meglio i pianeti, che avanzavano da lui mille lire, c’erano quelli da cinquecento, quelli da cento; ce n’era una lunghissima tratta da venti a cinquanta; quelli da cinque, da dieci e da due lire, erano numerosi come i pulcini; e fra essi c’erano persino gli uscieri del suo ufficio. Quando egli era sovrappreso dal malumore, si consolava tosto, immaginandosi di convocare tutti i suoi creditori in un _meeting_ al Colosseo. Quivi avrebbe voluto farli svenire tutti recitando loro un’orazione di sette ore, e poi bagnarli persino nelle tasche manovrando una immane tromba da giardiniere. In quei momenti estrosi di beffarda superbia, egli passeggiava vigoroso fra la folla di Roma come un robusto e nero serpentello. Allora si doleva di essere piccino di statura; onde avrebbe voluto salire sopra un alto cavallo e allargare spropositamente le gambe, quasi tanto da raschiare le muraglie dalle due parti della via o per lo meno forbire con la punta degli stivali il naso dei passanti, precisamente come faceva quel cavaliere Adimari, a cui Dante fece rincarare la condanna per contravvenzione al Regolamento di edilizia municipale. O meglio avrebbe voluto essere un grandazzone della posta di quel gonfiagote, spauracchio dei bambini e delle signore torinesi, che sotto l’ala tremenda di un cappellone calabrese, svolgendo al vento un nastro d’occhialino largo mezzo metro, camminava normalmente a passi da tiranno di teatro diurno, — colla giubba superbamente spaccata e le rivolte spedite indietro, — ora col pollice uncinato all’imboccattra della sottoveste, agitando il ventaglio delle altre dita, ora affondando le falangi dell’indice e del medio nel taschino dello stesso panciotto, — spingendo alternativamente le spalle, quasi tragiche catapulte, come avesse voluto con l’una far indietreggiare un popolo di calessi e con l’altra crollare un muro maestro, — sornacchiando fragorosamente all’appressarsi di qualcheduno, — ed esalava da tutta la persona la più sublime prepotenza e il più profondo disprezzo verso l’umanità restante, a cui sbuffava in faccia il fumo del suo sigaro, facendone poi cascare a grammi la cenere sul cappello dei cittadini più umili. Pinotto invidiava il ricordo di quel gigante di monomania orgogliosa; o avrebbe voluto giullarescamente demolirlo, forandolo con l’ago del nano Papiol. Mentre egli così si infischiava di tutti e specialmente dei suoi amici e benefattori, questi finirono collo stufarsi definitivamente delle sue continue richieste, a cui risposero da ultimo con quella congiura, di cui si lagnano ordinariamente gli scrittori, la congiura del silenzio. Ad Edoardo non osò più scrivere, nè questi dopo il gran rifiuto scrisse più a lui. Allora inaridita affatto la sorgente delle solite sovvenzioni, Pinotto ritrovandosi con il corto da piede, si degnò di andare a ricercare il Capitano. Quando fu davanti alla porta di costui, eccolo sbucare e quasi balzargli sul petto coll’impeto di un gatto furioso. Dopo lui ecco Fido. Il capitano stralunato seguitava a correre, non avendo avvertito chi veniva a cercarlo. Il cane rimase un po’ di tempo in tentenne: se dovesse seguitare l’usciere o restare con l’amico sopraggiunto. _Si si starebbe un agno intra duo brame_ _Di fieri lupi, igualmente temendo;_ _Si si starebbe un cane intra duo dame._ Finalmente esso pensò: — Quello là corre, perchè ha buon tempo: questo qui invece sembra abbia bisogno della mia assistenza: oh, sì! — e rimase con Pinotto. Ecco che cosa era capitato all’usciere. Aveva saputo che doveva giungere in Roma sua moglie diretta a Napoli con un garzone parrucchiere. A quella notizia gli erano venuti in mente i litri bevuti ammirandola nel villaggio natìo, gli era venuto alla gola quanto essa era bella, bionda, lustra e morbida; ed aveva sentito una forza irresistibile, che lo spingeva a ricuperarla strappandola a quel _ludro scellerato_. Forse avrebbe scacciato quella tentazione, se avesse avuto dinanzi il dovere di continuare la sua protezione a Pinotto, che se la fosse meritata. Ma, non vedendosi lì presente quel dovere, egli era scattato via. XXXIX. Mentre egli era sparito, Fido e Pinotto si guardarono negli occhi quasi dicendosi reciprocamente: — Adesso siamo noi due soli in ballo. Ebbene balliamo. Il giovane condusse malinconicamente il cane nel proprio covo, essendo la stanzetta dell’usciere rimasta chiusa per la partenza di lui. Questa partenza aveva data una stretta al cuore del povero giovane abbandonato, lo aveva annientato, lui, che credeva di sbizzarrirsi tuttavia sull’amicizia del Capitano, fondandovisi come sopra un frammento di famiglia. Mancandogli quell’ultima base, egli si mise a piangere. Fido voleva che cessasse dalle lacrime; perciò si arrampicava sulle sue ginocchia, e gagnolava per farsi sentire. Egli lo ributtò dicendogli: — Seccante! — ma poi guardandolo, lo trovò negli occhi così pieno di leale e devoto affetto, che non potè tenersi dal chinarsi per stringergli la testa. Allora il cane sembrava matto; gli abboccava la barba, i capelli, lo baciucchiava per tutta la faccia in un modo disordinato e commovente. Rinfrancato dall’amore di Fido, egli ebbe un altro dirizzone di bontà. Appena riscosso alle Ipoteche il suo stipendio mensile di settanta lire, egli pensò di estinguere a un cavurrino per volta i suoi piccoli ma numerosi debitucci verso i portieri e i suoi colleghi d’ufficio, considerando che erano anche essi poveri come Giobbe e per di più padri di famiglia. In questa operazione egli incominciò ad impiegare una quarantina di lire. — Con le altre trenta lire, — egli ragionava con Fido, — noi altri due viviamo; se non benissimo, pure viviamo. — Quella testa singolare, non certo chiamata per le matematiche, aveva dimenticato che c’erano da impostare nel suo bilancio mensile le venticinque lire della piccionaja. Pagata la pigione, gli restarono appena cinque lire per vivere lui e il cane durante un mese. Quindi, come era troppo naturale, egli dovette tosto farsi prestare nuovi cavurrini da quasi tutti coloro, a cui li aveva restituiti. Così seguitò negli altri mesi restituendo e poi ridomandando di lì a poco il restituito, senza estinguere mai definitivamente il suo piccolo consolidato, che mancomale procedeva innanzi senza interessi come le cattive _azioni_ di un canale sfavorevolmente conosciuto. XL. Quella povera vita, nutricata con poche diecine di lire al mese, in compagnia di un grosso cane, non mancava però di dolcezze e di beatitudini, essendo egli poco per volta riuscito a formarsi un quissimile di guanciale nella sua miseria a forza di dimorarvi sopra. Per esempio egli provava una specie di gioja pitocca nel sentirsi libero, oscuro, non soggetto alle imperiose leggi dell’educazione, della pubblicità e della personalità conosciuta, non costretto a stillare un articolo faceto di giornale col male ai denti, o a finire i periodi con grammatica al Tribunale o alla Camera. Qualche volta indicava a Fido un giovinotto elegante per metà e per metà con acconciatura di «me ne impipo.» — Quello lì io lo conosco; ma egli non mi conosce o finge di non riconoscermi più; egli è meno proprietario di noi, ed ha più debiti di noi, mancandogli già qualche diecina di migliaia di lire, perchè si possa considerare nullatenente, come diceva Giulio Cesare: ma a differenza di noi egli non si abbasserebbe nemmeno per raccattare i quattrini, con cui egli dovesse pagare un creditore, ancora che questi fosse affamato o gli avesse prestato i denari della laurea. Eppure a lui non difettano mai i mezzi per vivere disonestamente bene. Due anni fa egli ha ricevuto ventimila lire da.... (e qui bisbigliò un nome proprio illustre, che a noi non è lecito ripetere) e le mangiò in quindici giorni. Quando alla mattina esce da casa sua o da una casa di gioco o da luogo peggiore, senza aver più un centesimo in tasca, egli con viso sicuro arriccia le nari per fiutare l’aria e interrogare sè stesso: — ho da andare di qui o di là? — e scommette tra sè e sè: — non vado lontano cinquanta passi, che ho cento lire in tasca. Infatti, movendosi verso una direzione qualsiasi, al primo senatore, o ministro, o monsignore, o grand’uomo, o personaggio venerando, che inciampa, ei gli mette famigliarmente e con protezione birrichina le mani sulle spalle: e gli dà del _tu_ e si fa dare le cento lire. Fido! Quello li è uno scroccone di spirito, ma non invidiamolo; deve essere una grande fatica pel cervello e anche per il senso morale l’essere di spirito tutti i giorni a quella maniera. — Fido! adesso guarda questo qui, con quel peperone gonfio al posto del naso, con quella ciccia fosca, falsa e tremula come quella dei bevoni e dei cretini, con quei calamai intorno agli occhi, con quella bocca sdentata e con quell’andatura di oca balorda. La sua posizione ha poco da invidiare alla nostra. Guardalo nella faccia: Come è bucherellata! che macchie nere e sinistre da appestato! Eppure è una bella testa, e lavora; ma lavora in cose che non fruttano, in versi. Quello lì è scannato come noi, e per di più ha l’abitudine di ubbriacarsi mortalmente tutte le sere, ed ha una moglie, che è persino peggiore della sua abitudine. Non la vorresti nemmeno tu, che sei cane. Che tribolazione profonda ed estesa deve essere la sua vita! Noi consoliamoci, perchè non siamo come lui miserabili di genio.... — Pinotto e Fido si sentivano contenti della loro sorte non solo nei colloqui e nelle apostrofi, che si comunicavano, ma eziandio nei soliloqui, che ciascuno faceva per suo conto, sebbene spesso si incontrassero. Infatti gli stessi ricordi martellavano nei cervelli del cane e del giovanotto; erano ricordi del Piemonte, in cui erano ambidue compatriotti; ricordi del villaggio di Edoardo, dove Pinotto nei suoi tempi migliori, fulgido e bizzarro come era, aveva fatto da Satana e da Messia per quelle signore e signorine dei campi, — dove l’inserviente comunale lo aveva preconizzato con certezza matematica per un futuro grand’uomo politico e grandissimo oratore, — dove Fido con la sua indole facile alle entrature era divenuto intrinseco del padre di Edoardo, sindaco; lo accompagnava nelle adunanze della Giunta municipale, nei balli e al teatro, ed aveva oneste accoglienze da per tutto, persino in chiesa, tanto che era chiamato il vice-sindaco del paese. XLI. Il cane non abbandonava mai il nuovo padrone: si recava con lui alle Ipoteche, dove era tollerato in un canto. Quando si avvicinava l’ora di uscire dall’Ufficio, Fido lo annunziava a tutti, raspando contro alle porte e ai banchi, e andando ad avvertire specialmente Pinotto con mille squittii d’impazienza; quindi precedendolo voleva mostrargli la strada d’uscita. Quando poi egli usciva davvero, allora esso scavallava nella via sfolgorando, come divenisse sua la Città Eterna, e scorrazzava intorno al padroni con cerchi fulminei come un cavallo da corsa flagellato dal fantino. Andavano insieme dal minestraro, dal cioccolattiere, all’osteria di cucina; si facevano mille complimenti. Il cane non voleva quasi mai mangiare ciò che gli offriva Pinotto, temendo che questi soffrisse qualche privazione per cagion sua; voleva provvedere esso stesso ai proprii bisogni, e se avesse potuto, avrebbe provvisto abbondantemente anche a quelli del compagno. Portava sempre nella cameretta ossa abbondanti e ancora ricche di polpa. Una volta portò addirittura un intiero prosciutto, che avrebbe tentato l’appetito di chicchessia, non che dello stomaco vuoto di Pinotto. Ma questi per delicatezza non osava mai defraudare il cane del frutto delle sue fatiche. Era un vero idillio di pace e d’amore, tutto circondato da attenzioni di un galateo diplomatico. Alla sera, nei caffè da due soldi, sopportavano insieme tutti e due per lunghe ore le occhiate dei fattorini, che volevano cacciarli via; così risparmiavano l’illuminazione a casa. Era sì grande in Pinotto la soggezione del cane e la relativa inspirazione del bene, che un giorno essendogli comparsa nella cameretta la _quaglia_, per cui l’usciere quella volta non aveva potuto farsi da lui ricevere, la congedò per sempre. XLII. Quando si trovavano al Pincio, Pinotto faceva a Fido la spiegazione dei busti degli uomini illustri. — Vedi, cane! questo qui è Brofferio. Dovrebbero ristampare in una collezione le sue arringhe forensi e i suoi discorsi parlamentari. Così, studiandoli, i nostri giovani imparerebbero a discorrere con chiarezza e con fuoco, e non farebbero il brodo lungo, torbido e scipito, che fanno gli avvocati e i deputati adesso. — Questo qui, cane, è il busto di un minchione. — Così dicendo, per una recrudescenza del suo spirito beffardo, egli schiaffeggiava leggermente ma vistosamente le guance marmoree di quel grand’uomo, giudicato tale dal municipio, e da lui battezzato per un famoso minchione. Alcune volte seduto sopra una panca pubblica, godendo le largizioni del _padre dei poveri_, come questi chiamano il sole, egli sentiva l’ultima felicità terrena, quella degli ammalati e degli accattoni, che a poco a poco si addomesticano alle loro piaghe, ai loro parassiti, al loro sucidume o al loro fetore, e finiscono per trovarvi una specie di gustosa occupazione di questa inesorabile vita, che è data a consumare agli uomini. Ma certe altre volte, egli vedendo passare una carrozza, di cui il cocchiere davanti e il lacchè di dietro avevano l’alito affocato di salute e la pelle rossa come marrocchino, o vedendo dalla via traverso i vetri di un caffè una lunga tavola apparecchiata con quei filari di salviette bianche come oche e trascorrere un pettinatissimo fattorino, recando, con elegante agilità acrobatica, in palma di mano una larga guantiera, oppure leggendo in un giornale qualche bestialità straordinaria detta da un deputato o da un ministro, egli sentiva sprazzare via da sè velocissime tutte le acquiescenze e le pretese beatitudini dei poveri diavoli rifiniti come lui; egli risentiva allora nuove smanie e più acute di voler mangiar bene, vestir meglio, dormire ottimamente ed entrare cogli speroni nel Parlamento, nei giornali e nei ministeri, dare una presa di ciuchi a quei signori ed insegnar loro col frustino, come si fa e come si parla. Allora si sarebbe arrotato contro alle muraglie per torsi la ruggine dalla pelle; avrebbe mangiato il bottino di Fido vettovagliato nella sua stanzetta; allora si mordeva i pugni, scalpitava. In uno di tali _ricorsi storici_, egli ebbe una vera ripresa di esplodente lepidezza, passando davanti a Montecitorio. — Ah! se fossi mai ricco! — egli borbottò nella sua mente, rivolgendosi al cane: — Ah, se fossi mai ricco come il fu duca di Galliera, come Torlonia, come Telfener! Oh! non vorrei mica perder tempo nè aspettare che si introducesse qualche suffragio universale o scrutinio di lista a sciuparmi la propizia occasione. Vorrei tosto presentarmi candidato nelle prossime elezioni generali al suffragio ristretto di tutti i 508 collegi uninominali del Regno, e farmi nominare deputato proprio da tutti i cinquecento e otto, niuno eccettuato.... Ah! Ah!... (E così pensando, Pinotto gioiva febbrilmente:) Farei, sarei io solo, almeno per le prime sedute.... tutto Montecitorio, io solo.....; compilerei da me solo la risposta della Camera al discorso della Corona, mi verificherei da me stesso i poteri; mi nominerei presidente, vice-presidente, segretario, sotto-segretario, questore e bibliotecario; muoverei interpellanze e presenterei ordini del giorno; solleverei io solo, come un burattinajo nella baracca dei burattini, le più tempestose discussioni.... Dopo avere urlato sul mio seggio di rappresentante universale del popolo, salterei sul seggiolone del Presidente, e griderei a me stesso: facciano silenzio, onorevoli colleghi!... Scampanellerei, come per l’arrivo di un piroscafo; e nei casi estremi, afferrato il cappello, me lo calcherei sulla testa, per sedare il tumulto di me medesimo; avrei per me solo gli sguardi delle bellezze brevettate della tribuna diplomatica e di quelle della Presidenza, le sonnolenze della tribuna dei senatori, le attenzioni delle altre tribune pubbliche o riservate, mascoline o femminine, civili o militari; si farebbe per me solo il resoconto magro e sbagliato dei giornalisti appollajati nella loro colombaja, _a cui non giunge la voce bassa dell’oratore_ e quello sovrabbondante, riveduto e corretto dagli stenografi. Farei e riscuoterei da me solo gli _applausi_, i _vivi applausi_, quelli _generali e prolungati_, i semplici _segni di approvazione_, l’_ilarità_, le _risa ironiche_ e anche i _mormorii_, non esclusi nemmeno i _movimenti in senso diverso_; quindi, in fine della mia sudata eloquenza, mi affollerei a stringere da me stesso la mano all’.... oratore. Insomma vorrei pigliarmi tanti e tali spassi da empirne e disgradarne un romanzo di Giulio Verne; e dopo averne fatte più che Bertoldo, non mi degnerei poi nemmeno di optare per verun collegio; li rinunzierei tutti 508 a cinquecento e otto uomini di buona volontà. Quindi noi, Fido, avanti, in marcia! Andremmo in un altro paese mezzo costituzionale, ad acquistarvi la cittadinanza e ripetervi le stesse scenate di gusto milionario. D’ordinario quelle smanie dolorose o gaudiose, erano terminate da un colpo di tosse, a cui non tardò ad unirsi lo sputo di sangue, che venne da lui salutato come un cortese amico. XLIII. Chi finiva poi per consolarlo completamente era sempre Fido. Con lo sfregacciolare il proprio muso e le tempia contro gli stinchi di lui, col fargli sentire sulle mani l’incrinatura dei suoi baffi, col rizzarsi sulle gambe posteriori a far la manovra dell’orso e della scimmia o gli esercizi del soldato, e con lo stare attento per pigliare al volo ogni battito delle palpebre di lui; col pedinarlo da per tutto, esso gli diceva continuamente: — Pinotto, tu non sei solo; tu hai in me un fedele amico, servitore e protettore. — E Pinotto ciò ben intendeva, ed amava veracemente quel cane; lo amava e lo trovava bello nelle sue mattie e nella sua gravità; — quando si riversava poco decentemente per terra e quando si acciambellava pulitamente sopra una seggiola, tutta riempiendola; — quando incedeva glorioso con un osso in bocca e quando camminava a randa dei suoi piedi, il muso dimesso e la coda in mezzo alle gambe; — quando ringhiava contra qualche canucciaccio maleducato, che gli si avvicinava, e quando fremitava, scalpitava e brillava di luce amorosa rizzando le orecchie in piegature metalliche davanti a qualche leggiadra e indulgente cagnolina; — quando si discostava quasi per fargli la celia di tradirlo e poi ritornava a lui fragorosamente, quasi per portargli la buona novella, — e quando, da lui minacciato di esser chiuso in casa, protestava graffiando, zufolando, mugulando e sputava via persino i grummoli di zucchero, con cui si cercava di abbonirlo. Pinotto lo amava Fido, lo amava appassionatamente e liricamente. Allorchè egli pensava a Glafir, origine della sua prima maledizione materna, e guardava Fido, di cui si sentiva ogni giorno più innamorato; — Ah! la vita — diceva — è proprio piena di compensazioni! Sì, Fido, tu cane, mio unico consorte, sei pure il mio riparatore. — XLIV. Ma oramai poco tenacemente egli poteva pensare. Il suo cervello già così gagliardo, così prepotente e fino all’estremo motteggiatore del cielo e della ferra, sotto la calca delle disgrazie si era oramai rammollito come il cervelluzzo di una villanella cretina, che nelle sue estasi vede apparire la Madonna sopra il ciliegio del giardino del prevosto. Quindi spesso lo riassalivano entusiami infantili di moralità, impeti collegiali di sacrifizio patriottico, di martirio religioso, e di intolleranza ingenua, come se fosse stato ammesso appena ai palpiti della prima comunione. Allora rabbrividiva nel vedere due giovani persone di sesso diverso, sebbene fossero stati sposi, che passeggiassero insieme a braccetto. Allora dentro la sua rigidezza allobroga facendo un morboso intruglio delle ultime idee bollitegli in testa e dell’ultimo _comunicato_ letto sui giornali, desiderava e si figurava pazzamente di riuscire un mistico eucalipto, che producesse nella Città maggior bene di quello aspettato dal vero eucalipto nella campagna romana; cioè prosciugasse ad ogni minuto nella imporrita razza prelatizia l’umido per dieci tanti del volume del proprio corpo. Ma quelle fantasie gli svanivano, ed egli si trovava tosto, come trasportato di punto in bianco nella più assaettata, affamata e desolata realtà. Un giorno, spinto sconsideratamente da una ghiottoneria elaborata dal digiuno, e dimentico di ciò che era in quel tempo, cioè un mendico, e fidente forse di essere tuttavia il giovane elegante e ricco di una volta, entrò senza avvedersene nella trattoria di Spilmann. Rimase subito spaventato a quell’atmosfera calda, a quegli atomi impregnati di squisita cucina, a quell’acciottolío di porcellana, a quel tintinnío di posate d’argento, a quel nero luccicore dei cappelli a cilindro, a quei bianchi sparati di camicia dei _pajni_ e dei diplomatici. Egli, che quattro mesi prima scrivendo a sua madre si era confessato ancora superbo come Lucifero, egli tremolò di paura davanti al bel cameriere, che compariva al suo cospetto. Aveva tratto istintivamente di tasca un pane per accompagnare una scodella di trippe, che voleva domandare; invece rispose al cameriere: — Scusi... mi sono sbagliato di portina. — Il cameriere con un inchino gli aprì la portiera; ed egli appena toccò le lastre della via, si trovò libero e contento, come se fosse uscito di prigione; e disse seco stesso con una bonarietà religiosa e rispettosa da vecchio organista del villaggio: — Che bravo signorino è quello là! Come mi ha trattato gentilmente! Quella sera però non potè tenersi dall’entrare in una osteria e consumarvi voracemente due lire. — Domani faremo economia; — egli disse a Fido, e fece un’atroce economia. Comperò soltanto due soldi di pane per totale nutrimento di ambidue, ed abolì la candela di sevo, che soleva piantare dentro il collo della bottiglia nera, borbottando: — Fido, dobbiamo d’ora innanzi coricarci al bujo. — Intanto fra la solitudine e l’inedia gli si rammolliva sempre più il cervello; e, oltre al cane, lo accompagnava sempre un’apparizione, che navigava come una luna nella nebulosa della sua testa. Di lì a quattro giorni egli non potè rattenersi dall’entrare nella trattoria della Rosetta, dove comandò una costoletta alla milanese. Gli piacevano tanto siffatte costolette ed era da tanto tempo, che non ne aveva più assaggiate! Pure, essa gli apparve come un delitto di gola, quando se la vide dinanzi. Credette di divorarla... Folle! Non era più capace nemmanco di mandarla giù tutta. — Fido, ne vuoi? Fido gli fece cenno di no. — Come sono debole!... Venne il cameriere a domandargli: — Comanda altro? Egli fu vergognoso di avere comandato soltanto una costoletta in quel luogo, e domandò ancora una minestra di cappelletti al brodo, una crostata di visciola, un mandarino e un pezzo di formaggio lodigiano con mezzo litro di vino bianco asciutto. Egli rintuzzava il rimorso che lo ingombrava per quel rialto così lussurioso, dicendo seco stesso e a Fido: Eppure, anche io ho diritto di vivere! non è vero? Si sforzò a spilluzzicare più che poteva, ma non riuscì ad ingollare gran cosa. Richiese il conto, e senti che faceva 4 lire e 25 centesimi. Ne rimase costernato e fu lì lì per piangere. Gli parve di udire sua madre, che gli dicesse con ragione: Ah! tu che hai gettato i denari dalla finestra, oh! se tu li avessi adesso quei denari là! come ti farebbero buon pro’! Guardò nel portabiglietti; non c’era tutto il bisognevole; ma razzolando i soldi e i soldoni nel taschino del panciotto potè fare le 4 lire e i 25 centesimi, a cui aggiunse altri 5 centesimi per la mancia, restandogli ancora 3 soldi per il vitto del giorno successivo. Egli, uscendo dalla trattoria, si malediceva da sè stesso: — Sono proprio sempre stato uno spensierato; ma tu, Fido, dovevi correggermi, non dovevi lasciarmi entrare, dovevi mordermi! — Ritornando a casa, egli guardava amoreggiando le finestre degli ospedali. Il giorno dopo, portò un ludibrio di fagotto al Monte di Pietà, ritraendone pochi centesimi. Passati tre altri giorni, non aveva più un soldo in tasca per il pane quotidiano. Voleva domandare qualche cosa al Capo Ufficio, ma quel giorno questi era di cattivo umore inaccessibile. Il rigiro dei cavurrini restituiti e poi ridomandati egli lo aveva già fatto. Dopo avere titubato per tutta la giornata, una lunga giornata della proverbiale lunghezza, che dà l’angoscia dell’esser senza pane, finalmente, prima d’uscire dall’Ufficio, abbordò un suo collega: — Scusi, ho dimenticato a casa il portabiglietti.... Vorrebbe favorirmi per pochi giorni cinque o sei lire? — Mi rincresce! non ne ho; — gli rispose l’altro asciuttamente. E Pinotto imperterrito: — Allora favorisca prestarmi un soldo, per comperare la _Capitale_ da basso. — Prenda! — e il collega glielo diede con la mala grazia di un Istituto Bancario verso un patriota illustre ma non solvente. Certamente pensò: Ah sì! comprerà la _Capitale_ per involgervi dentro l’ultima camicia, che ha indosso e portarla al Pietoso Monte! Ma Pinotto trionfava; lo aveva il soldo: il suo cuore gli batteva forte: — Ah! è giusto il proverbio, che non si muore di fame. Andò a comperare un pane, e si sentì la forza di aspettare ancora qualche ora prima di addentarlo. Passeggiò. Nel cielo stagnavano nubi sanguigne. Egli guardava in su: vedeva la sua solita apparizione, una Madonna. Era sua madre. — Viene, viene! — borbottava fra sè. Il cane non poteva farsi guardare da lui, per quanto vi si adoperasse; gli correva fra le gambe come una fiondata a rischio di stramazzarlo, gli addentava le falde dell’abito e le tibie, gli era sempre tra i piedi, ma tutto inutilmente. Pinotto guardava sempre in su. Finalmente egli risolvette di tornare a casa. Il sole tramontava sinistramente. Rientrato nella sua piccionaja, egli fu offeso da un giallore di pessimo augurio, che vagolava sul pavimento, sulle colonne sverniciate del letto e sull’attaccapanni tarlato, ed entrava persino a illuminare il vuoto completo dell’armadio aperto: senza una ciabatta! Se avesse potuto, egli lo avrebbe smorzato quel giallore! XLV. Si sedette; estrasse il pane di tasca; — tossì. Aveva una fame che gli rodeva le viscere. Quel panetto lo fumerà in un flato. Si provò ad addentarlo, — Dio mio! Non ne aveva nè la forza, nè il coraggio. Ne esibì al cane: — Fido, prendi; anche tu avrai fame. — E il cane aveva fame davvero; imperocchè, preoccupato in tutto quel giorno a tener d’occhio il padrone per l’inquietudine che gli destava il suo aspetto — esso aveva trascurato di fare la solita provvista delle ossa; pure temendo di recare il minimo torto a lui, rifiutò l’offerta. Pinotto volle ficcargli forzatamente un boccone fra i denti; ma non riuscì ad aprire quella rastrelliera sprangata. Allora estenuato lasciò andare le mani spossate; chiuse gli occhi, tossi più forte e si senti nella bocca il sapore plumbeo del sangue caldo, mentre gli girava addosso il senso di un freddo marmoreo. Credeva di avere sulle ginocchia il muso di Fido, il quale invece dimorava là lontano, tutto turbato per lo stato di lui; ogni po’ usciva sul ripiano, per vedere, se c’era qualcheduno da avvertire, e poi rientrava e stava lì con quei suoi occhioni aperti, quasi volesse medicare il padrone con le guardate amorose. Questi sognava, e credendo di palpare le orecchie a Fido, borbottava: — Grazie, Fido!.... Eccellenza... — Egli scorgeva luminosamente ed ampiamente l’apparizione che lo aveva seguitato da più giorni. Era la Madonna, e la Madonna era sempre sua madre. Era tutta santa, tutta augusta, tutta fulgida di stelle.... Lo riceveva e lo irradiava d’oro, d’amore e di sole.... Ed era stato Fido il parlamentario, che lo aveva presentato e fatto ricevere. Aveva cominciato a parlare con Glafir, e si erano scambiate alcune note. Glafir da principio era stato un po’ sostenuto e aveva risposto con certe frasi acidule e sardoniche sullo stile del cardinale Antonelli; ma poi la argomentazione ampia, cavurriana di Fido aveva vinto.... Ora Glafir stava presentando a Fido uno per uno tutti i membri della sua corte di cani.... Il monte Pincio era nel cortile dell’Università di Torino, dove lussureggiavano meravigliosi eucalipti con ciocche lunghe e splendide di foglie salutari.... la signora Placida incoronava suo figlio.... Lo felicitavano tutte le persone felici uscenti dai cartoni dell’Elenco spietato.... L’erbajuola Ortensia, riconciliata, rideva largamente dalla consolazione e ridendo faceva ballare la sua ciccia rossa.... Edoardo applaudiva freneticamente. Teodoro beveva, beveva pel legittimo contento.... Aurelio scappava come una spia.... Fido aveva un lungo colloquio sugli affari d’Oriente con l’onorevole Depretis, Presidente del Consiglio dei Ministri, e tutti i giornali politici di qualche importanza avevano un articolo di fondo intitolato: _L’Intervista di Fido_.... C’erano moltissime signore, c’erano mille faccini da figurini della moda che volevano ballare con Pinotto; fra tutte primeggiava la signorina del notajo Raffa. Poi Madonna.... Pincio.... Ortensia.... Università di Torino.... giornali.... signore.... signori.... signorine.... sparivano.... Restava Pinotto attaccato al collo di sua mamma, tutto irrigato di lagrime calde; mentre Fido e Glafir mangiavano nella stessa scodella. XLVI. Mentre Pinotto sognava gemendo di quando in quando, Fido si sentiva vieppiù agitato: correva a raspare indarno contra gli usci della sua scaletta, indarno, perchè quelli erano usci di legnaja, di magazzini, o usci annullati. Il ministro della casa, che aveva affittata quella piccionaja senza saputa del padrone, dimorava lontano in un’altra ala della casa. Fido deliberò di abbandonare la sua scaletta e di salirne un’altra per raspare contro un uscio, dietro cui ci fosse gente. — N’ebbe una crudele mestolata fra le gambe. Rientrato nella sua cameretta, urlò da lupo. XLVII. La mattina seguente rientrava in Roma il Capitano; rientrava come Sganarello scornato e bastonato dall’amante della moglie. Infatti dopo molte, lunghe ed ostinate ricerche aveva scovato a Napoli la sua ostessa, e ne aveva avuto alcune moine. Ma essa se n’era stufata presto, e dopo avergli vuotato il portamonete lo aveva fatto pigliare fra due usci dal suo drudo. Dice Brofferio: — «Non vedeste mai un gatto lussurioso nel mese di febbraio, dopo dieci o dodici giorni di soggiorno clandestino sopra le gronde o in fondo alla cantina, presentarsi tutto ad un tratto in casa col pelo ritto, colle orecchie coperte di ragnateli, magro, sottile, trasparente come una bestia immorale che ha fatta cattiva vita?» Tale e quale era il reduce usciere. Dopo essere passato a casa sua e aver trovato l’uscio chiuso, trottò verso la stanzetta di Pinotto. Fido gli si fece incontro silenzioso; e silenzioso, aprendo la bocca come una pinza, gli diede una ganasciata così forte in una gamba, che gli lacerò i calzoni e la pelle, facendogli gocciolare del sangue. Così lo castigò meritamente della sua improvvida scappata. Il povero usciere trovò il suo amico freddo cadavere. Gli fece fare la sepoltura, cui egli seguì dietro la bara, solo, al luogo dei parenti e in sembianza di reggere tutti lui gli invisibili cordoni del feretro; Fido, tenendo la coda e le orecchie basse in segno di cordoglio, gli camminava dappresso con quei passi che fanno i cavalli gualdrappati di nero nei funerali militari. Quando ritornò a casa, la povera bestia era tutta coperta di bioccoli di cera, come un fratello della Misericordia. L’usciere si affrettò a scrivere alla signora Placida, che il figlio di lei era morto _nelle braccia_ del proprio cane, e mandò un analogo telegramma ad Edoardo. XLVIII. Quando Edoardo e gli altri amici ricevettero la notizia della morte di Pinotto, ne rimasero costernati.... Per un pezzo si sentirono lo spirito spento dal dolore e dallo stupore, e si maledissero in secreto, per non essere nati milionari, per non aver potuto custodire in un Eden quell’anima bella, fintantochè avesse potuto o voluto luccicare in faccia al mondo. Riavutisi, si dissero: — è impossibile, che sia morto Pinotto!... Era così vivo.... — E ne aspettarono per un po’ di tempo la risurrezione. Ma vedendo che Pinotto, al pari degli altri estinti non risuscitava, presero a parlarne con tutti, come se si fosse trattato di una morte europea, telegrafata dall’Agenzia Stefani, per cui tutti fossero in diritto e in obbligo di commuoversi. Quando sentivano lodare un letterato di prima pezza: — Che! Che! — prorompevano: — Pinotto avrebbe pigliato a scapaccioni lui, e altri della stessa risma, se ce ne fossero stati. Per maggiore sfogo proposero di erigergli un busto con una lapide (solito pane, con cui si sfamano i letterati morti di fame) e di fare un pellegrinaggio apposito a Campo Varano, pubblicando contemporaneamente un volume di componimenti esequiali in suo onore. Tutta questa colluvie di progetti commemorativi, al solito, si condensò in un articolo necrologico, che comparve nel giornale di Edoardo. Noi ne riporteremo poltronescamente la chiusa, a scanso di far noi tutta la morale del Racconto. Diceva: . . . . . . . ... «E così si dileguò a ventott’anni al pari di un volgare disgraziato quell’indole fiera e singolare; e si portò via con sè i suoi fantasmi estetici e bisbetici, le folgori e i coltelli della sua satira, i tesori della sua mente e gli entusiasmi del suo cuore e quella forma orgogliosa e squisita, che egli aveva vagheggiato così lungamente e così caldamente, e che temette o sdegnò profanare, non avendo concesso neppure una riga di suo al pubblico, benchè non gli siano mancati i difficili inviti a dar fuori i propri scritti con profferte di sollievo alle sue strettezze. «Certo egli disprezzava sovranamente il basso pubblico dei barbieri sfaccendati, di quei _travetti_, che con gli sbadigli scroccano la paga e degli altri _ignorantelli_ borghesi, che non posseggono altro motto o altro pensiero fuorchè quello dell’ultimo articolo letto, sono sprovvisti di grammatica, di ortografia ed eziandio di un vocabolario tascabile _Longhi e Menini_, sono muniti di albagia e di ottusità, eppure sotto la veste di assidui formano il gusto corrente e l’opinione pubblica dittatrice per la letteratura di parecchi giornali importanti d’Italia. «I brutti scherzi, che Mefistofele voleva fare agli angioli del Padre Eterno e che i bambini fanno alle libellule, sono nulla in paragone dei martirii gaudiosi, che egli escogitò per umiliare quel pubblico poco rispettabile — altro che concedergli un alito di sè stesso! . . . . . . . «Egli aveva tutti gli ideali, anche quelli della virtù casalinga. Creduto uno scioperato qualsiasi dai suoi più cari, di lui inconsapevoli o incapaci di capirlo, egli, fabbricatosi con il più tormentoso lavoro cerebrale la sua gelosa utopia letteraria, forse un giorno le avrebbe dato fuoco, solo per irradiarne l’altare di sua famiglia. «Egli infine, ridotto al lumicino, lasciò la costosa adorazione degli idoli estetici, chi sa con quale orribile sacrifizio della sua anima di artista! e logorò acutamente gli ultimi anni della sua tisica vita nelle facchinerie più materiali, per il bello ed onesto proposito di rendere sereni gli occhi dei suoi cari e gloriosi di lui, posato finalmente sopra il solito piedestallo di un impiego, gioja pressochè unica di moltissime famiglie. «Ma egli, che aveva attraversato a zig zag elettrici i fiori della vita, non potè raccoglierne, assaporarne nè farne assaporare neppure un frutto, egli che pure aveva ingegno, onestà, portatura, cavalleria, _chic_ e conoscenza di lingue straniere, per riuscire stupendamente e meritamente nella prosa del mondo, dove ingrassano, lustrano e spampanano a tradimento miriadi di fanulloni, di minchioni e di cialtroni. «Povero giovane! Povero amico! Ma benchè finito misero e oscuro — noi dobbiamo altamente asserirlo: — Egli fu grandissima parte del nuovo gruppo letterario di giovani piemontesi, i quali gli devono quasi tutti moltissimo, avendo ricevuto o trasfuso nei loro lavori qualche lembo di quella poderosa natura artistica, senza che certamente abbiano saputo esprimere nulla, come egli avrebbe voluto e avrebbe saputo. «Povero perduto! a cui fecero guerra spietata le immagini del _Meglio_ e dell’_Ottimo_, nemici proverbiali del _Bene_ positivo, semplice e pratico.» . . . . . . . Il giornalista avrebbe potuto aggiungere ragionevolmente e coscienziosamente, che Pinotto, non ostante i suoi ideali troppo superlativi, sarebbe certo riuscito ad egregie cose, ove avesse trovato la direzione pratica del lavoro nel sorriso intelligente di sua madre. XLIX. Veniamo a lei nell’ultima scena. — Come nella prima: =Cani!= La _madre dei cani_ in tutto questo tempo non aveva avuto nessun altro momento memorabile della sua vita, fuorchè i biglietti di visita, che aveva fatto litografare per Roma e Glafir, e la sua tentazione di far parte della Società Protettrice degli animali, tentazione che però il suo teologo confessore le aveva scacciato presto dicendole, che «anche quella era tutta framassoneria.» Quindi, a scanso di un’altra teologale proibizione, essa aveva taciuto tutto al confessore, quando disperata per aver smarrito uno dei tanti pronipoti di Glafir ne raccolse religiosamente i peli dal pettine dell’ultima strigliatura, e li portò, trascinando con se anche la figlia, al Gabinetto magnetico di un professore Filippa, dove invocò dalla chiaroveggenza della rinomata sonnambula l’itinerario arcano per rintracciare la bestiolina diletta. Ora la povera mamma, all’annunzio mortuario datole dall’usciere, ebbe uno svenimento, e fece gli ululati di rito, con le strappate di capelli volute dalla Prammatica, recandosi a schiamazzare e versare lacrime da pazza presso la vicina del pianerottolo, mentre Carolina la accompagnava in tono minore. Sfogato il dolore rituale, la signora Placida andò a consigliarsi dai suoi soliti consulenti legali, e saputo dall’avvocato classico, non che dall’ex-cancelliere e dal teologo avvocato Sturlimandi, che _acreditatis appellatio sine dubio continet etiam damnosam successionem_, essa in buon volgare non indugiò a rinunziare formalmente all’eredità dei debiti, quasi tutti alimentari, lasciatale da suo figlio e trascurò persino di rispondere all’usciere, sospettando che fosse anche lui uno dei _garibaldini_ che lo avevano pervertito. Essa fece però cantare una messa solenne nella chiesa della Consolata per suffragare l’anima del figliuolo perduto; e mentre il prete uffiziava e i cantori strapazzavano per trenta soldi il _tuba mirum_ borbottando nel loro latino di sacristia _qualis pagatio, talis laboratio_, — la damigella Carolina correva dietro alla turba sguinzagliata dei suoi cagnolini, alcuni dei quali abbajavano persino sulla porta della chiesa, — e la signora Placida, sempre pregando con fervore, era intenta a coprire accuratamente col suo scialle la schiena al vecchio Glafir, acciocchè non gli si inasprisse la tosse. AL DOTT. POMPEO GHERARDO MOLMENTI VENEZIA. _Caro Molmenti_, Nel presentarti e mettere sotto l’ala del tuo nome questa creaturina mortuaria, non posso dissimularti la mia caritatevole intenzione, che tu riesca a vivificarla miracolosamente con la tua singolare abilità di intelletto succosamente o nervosamente critico, ma inspirato da un cuore gentile; tutto ciò, mancomale, all’opposto di quei cortesi Maramaldi, i quali, se potessero, vorrebbero incomodarsi a riuccidere la mia poca letteratura già sufficientemente defunta. Però tu puoi credere agevolmente, che io vorrei proprio scrivere qualche volta cose _degne di vita_ per mandarle a te in segno di quella amicizia letteraria, da cui ci sentimmo legati, appena ci comunicammo tu, le incisioni critiche, ed io gli sgorbi tentati sul vero. Saluggia, 23 giugno 1876. _Tuo aff_. GIOVANNI FALDELLA. DEGNA DI MORIRE FIGURINA NERA. I. Il suo nome non era lezioso come Aurora, nè ridicolo come Bianca, quando dal fonte battesimale è imposto ad una merla, nè latteo e monacale come Candida; nè avvicinava miopemente i colori dell’alba o dell’albore, come Albina; era un nome di una bellezza pagana, ellenica: Elena. Il suo cognome, se per inutili riguardi ad una famiglia dovessi lasciarvelo allo stato di sciarada, direi che aveva la dignità marinata di un doge e l’olezzo sottile di un cespuglio in primavera. Invece ve lo spiattellerò bravamente: era Floresin. Quando l’ispettore delle scuole giunse nel villaggio di Villarbona con la canna di zucchero sotto il braccio, ed entrò col sindaco nella 2ª elementare femminile, fu colpito da una voce che fra quaranta intuonò il _riverisco_ nell’alzata elastica della scolaresca. Dicendo e accennando: _Sedete! Sedete pure!_ egli vagolò con lo sguardo sui banchi per cercare subito quella voce, e credette di non _pigliare erro_ attribuendola a una bambina dal mento lustro e vermiglio come una pesca nocciuola e dagli occhi che parevano due morselli di marmo nero bagnato e lucente, o meglio due cucchiaiate di rivo cristallino scivolante nell’ombra. Il Regio Ispettore, sicuro di dar fuori un’invenzione poetica, non si potè frenare dal dire alla maestra che quella bambina aveva due occhi che secondo lui potevano passare per due pietre preziose. La interrogò subito per la prima. — Elena Floresin! Quale incantesimo di aritmetica! Un portento nella tavola pitagorica.... E come sfoderò nell’analisi logica e grammaticale!... E che voce!... L’Ispettore, con la canna di zucchero sotto le ascelle, non s’accorse, che la bambina aveva finito di recitare il suo capitolo di Storia Sacra: egli stava ancora attento ad ascoltarla, dopochè essa s’era già arrestata come un pelottone. Infatti, mentre essa aveva principiato a sfringuellare, di fuori un fringuello si era messo a recitare la sua Storia Sacra nell’orto dappresso, e il buon Ispettore, rapito, confuse le due armonie in un solo godimento mentale, e credette parlasse tuttavia la ragazza, allorchè non c’era più altri che il fringuello, il quale cantasse. Egli andò via salutato da un tuono di _riverisco_; e venne accompagnato fino nel corridoio dagli inchini della maestra, a cui offrendo una presa di tabacco, disse: — temo che quell’angioletto non campi. II. Venne l’Arcivescovo a dare la Cresima a Villarbona, il vecchio e Santo Arcivescovo, Senatore del Regno, cugino del Re, — veemente come un apostolo, fiero come un templario, spargitore di carità come un pazzo ed umile come il Calasanzio, un uomo veramente grande nel suo posto, — al quale, quando morì, vero miracolo in questi tempi paterini, tutti gli ordini di una città liberale decretarono una statua. Monsignore venne ricevuto dal sindaco, dai mortaletti, da sette archi trionfali, dal clero e popolo, da tutta la ragazzaglia in camice bianco e corona di fiori in testa. Egli si avanzava traballando con le ali larghe e benedicendo a mille cuori asserragliati, che picchiavano per lui di sacro entusiasmo. Il parroco gli diede un pranzo monumentale, a cui collaborarono tutte le cuoche e tutti i guatteri della Vicaria, un pranzo preparato coi fondi di tre anni messi da parte per _quella tempesta_. Dopo il pranzo si prese il caffè all’ombra nera del _nocciolajo_. Sedevano pontificati ai lati dell’arcivescovo la trinata e nastrata vecchia marchesa, madrina della cresima, e il grigio conte ex-colonnello, padrino. Attorno, ritti, una cornice di preti, che annuivano e applaudivano ridendo riverentemente ad ogni parola dell’arcivescovo, ed inchinandosi come pertiche rotte. A un tratto, si sentì uno squittío di fanciulli domato da scappellotti. Monsignore si alzò impetuoso, facendo lesti e ripetuti cenni ai suoi seguaci, perchè s’arrestassero, e si avviò balenando verso il vice-parroco, che rintuzzava la ragazzaglia rampichina, che a momenti scavalcava il muricciuolo. — _Sinite! parvulos venire ad me!_ — egli tonò giocondamente al vice-parroco, e fece atto di voler aprire egli stesso il rastrello. In un subito il giardino del parroco fu invaso e riempito da tutta la bambineria e monelleria della Villa. E il canonico penitenziere spiegando la cosa alla marchesa, al conte e ai preti del paese: — è come un fanciullo, loro disse, è come un fanciullo. Infatti quei bambini indovinarono tosto che era una anima loro affine quell’immagine alta da Sant’Agostino e da San Grato, quel naso tabaccoso, quella grossa croce d’oro splendente su quel largo petto violaceo, quel grand’uomo dello Stato, cui il Re venerava. E si misero subito a scherzargli intorno fiduciosamente, come fosse sempre stato loro compagno. Ed egli, l’alto arcivescovo, già beatificato dal cuore di quanti lo conoscevano, in mezzo a quei conigli, che gli si rizzavano dattorno ai piedi, esultava, folleggiava dal contento. A un tratto fece una faccia da rinoceronte, e disse con voce cupa: — Bambini! io sono cattivo, sapete. — Non è vero, non è vero! strillarono i bambini.... — Sono cattivo; — egli, fingendo di non sentirli, riprese con voce vieppiù cavernosa: — e sono venuto qui per ispiumarvi.... Ne avete dei soldi?... — Non ne abbiamo, non ne abbiamo; — guairono i bambini... — Allora, egli continuò con voce sempre più truce: andrete dalle vostre madri, e direte loro che vi diano un soldo per ciascheduno. Quindi li porterete a me, che ne ho bisogno per far indorare il mio campanile.... Avete capito?... li porterete a me... che avrò un bossolo in mano... Voi altri metterete il vostro soldo dentro il mio bossolo. Ed io farò indorare il campanile coi vostri soldi (e faceva l’atto di chi fa entrare una moneta in un salvadenari). Vediamo un po’, se mi avete compreso: che cosa direte a vostra mamma, quando le domanderete un soldo, ed a chi lo darete quel soldo, quando me lo porterete a me, e lo metterete così, dentro il mio bossolo? I bambini tacevano curiosi, birichinescamente titubanti, e i loro volti splendevano come specchietti. In mezzo a quella luce si levò una voce limpida: — Monsignore, quando andrò a casa.... dirò a mia mamma, che mi dia un soldo. — Bene.... E quando te lo avrà dato.... — Quando me lo avrà dato.... — Ebbene, rantolò l’arcivescovo, con viso sempre più rinchiuso, ripetendo l’atto di una mano che lasci cascare un soldo in un bossolo... — Ebbene.... quando te lo avrà dato.... — Andrò a comperarmi delle castagne per me; — rispose quella voce limpida con una smorfietta da piccolo e gentile magnano. L’arcivescovo, ingrondato come un mago, si recò le due palme delle mani alla bocca, per farne imbuto e oricalco, e suonò: — Hai capito un corno.... Quindi non ne potè più: cacciò via apertamente, luminosamente la burletta. Si levò in braccio la fanciulla, che gli aveva risposto così, le stampò due bacioni sulla fronte; e poi calatala in terra, la benedisse quella bella e cara impertinente. Era la piccola Elena Floresin. Allora, chiamato il canonico limosiniere, egli si fece portare un sacchetto di soldi spiccioli, e si diede a distribuirli, e sparnazzarli fra quei bambini, con una furia e con un godimento coriandoleschi. A molti ne toccarono due, tre, quattro, a certuni persino cinque soldi. A tutti diceva: andate a comperarvi delle castagne, e andate dalle fruttajuole più vecchie e più povere. Ciò fatto, egli si ritrasse nella sua camera, fatta imbiancare e tappezzare apposta per la sua venuta. Quivi s’inginocchiò, e si mise a piangere e a pregare. Il suo torace largo, che pareva una corazza da templario, sussultava come il petto di un bambino: e gli scappò detto al guercio, suo cameriere fidato, soprannominato la spia del vescovo: — Augusto!... Se mi riesce, voglio fare tutto il possibile per andare in paradiso, per trovarmi sempre con quella innocente bambinaglia, e quella là voglio tenermela sempre sulle mie ginocchia, quella santa monella! Hai visto, Augusto?... Sembra che le spuntino già le ali per volare in su.... Va via, non ho bisogno di nulla. Lasciami pregare.... Augusto.... — III. La piccola Elena fu presto condotta ai balli dalla mamma, adoratrice delle cene; ma benchè questa la profferisse a tutti in corrispettivo della sua pensione di riposo, pochi volevano prenderla a danzare, perchè tuttavia rigida; e dicevano: Noi altri non vogliamo saperne di questa roba cruda. Finalmente il commissario delle contribuzioni dirette, un vecchio peccatore, un satiro sboccato, per cui tutte le ballerine erano sempre anticipatamente impegnate con altri, la fece saltare per un intiero ballo; e il giorno dopo, palesò in piazza la sua scoperta che l’Elena s’era snodata benissimo, e che oramai era un fior di corpicino. La scoperta divulgata fu trovata giusta: e d’allora in poi nei balli l’angioletto della scuola e della cresima andava a ruba. Quei balli erano veglioni del contado, dove ad ogni piè sospinto si doveva scansare il mento precipite di un ubbriaco, si ingozzavano mattoni in polvere, ed in ogni canto si stiaffava uno schiamazzo, uno sghignazzo, o una piattonata nella schiena. Un giorno saltò il ticchio di parteciparvi al cavaliere Alfredo, il giovane feudatario della villeggiatura autunnale, un artista che coi suoi dipinti pieni di realtà pensosa contribuì a rendere illustre la pittura piemontese in Italia, e a far conoscere l’arte italiana dei nostri giorni a Parigi. Era un volto d’un pallore bruno, fatto vieppiù risaltare dall’orlo di una barba castana, dentro cui spiccava eziandio la bianchezza smaltata dei denti. Come tutti i giovani artisti rosi dal _realismo psicologico_, egli si sentiva rinvecchignito: tanto che ad alcuni terrazzani, i quali gli avevano annunziato con intenzione deputatesca la sua _età politica_, egli aveva risposto: Brava gente, voi vi siete accorti che io ho trenta anni; granchè! io v’assicuro che sento di averne perlomeno trecento: lasciatemi in pace, che sono più vecchio del _dixit_. Adunque egli si presentò ad uno di quei veglioni; e si presentò in cravatta rossa e giacchettina di velluto, con un’acconciatura così spigliata e con una potatura così divinata alla misura altrui, che egli, il cavaliere, l’artista di grido, il promesso deputato, in mezzo a quei rumorosi e vittoriosi telegrafisti, scrivani di cancelleria, studentini, soldati in permesso, fattorini di caffè venuti da Torino a spaccarla in paese da marchesini, — trippaj, i fabbro-ferrai e simili, quasi non istonava punto. Egli osservò tosto, come in quella _Società_ non imperava niun regolamento di pubblica sicurezza in favore del buon costume: ma per lo contrario si custodiva gelosamente e ferocemente l’ordine delle danze. Contro allo sventurato ballerino che avesse osato tentare un giro o un passo di più del suo buon diritto, si annidava negli occhi di tutti gli altri la minaccia di uno sgrugnone, fors’anche di una coltellata. Però per unica eccezione a quelle misure draconiane, una ballerina salterellava qua e là, eslege, come una cavalletta: trascinava essa stessa per un braccio il compagno al rubarizio; nella sala delle danze si vedeva sempre la sua testolina splendere come una gemma su qualche spalla di _frac_ o di cacciatora. Sembrava la scorribanda di un gelsomino, di una stella bianca. Era mancomale Elena Floresin. Tutti se la disputavano, se la strappavano di mano, e coloro che non riuscivano ad ottenere da lei un intiero _ballabile_, si mettevano al varco, per mendicare ed ottenere in prestanza dal fortunato possessore un giro o un mezzo giro con lei. Essa volava fervente e felicissima con gli uni e con gli altri; a quando a quando in riga o in danza si vedeva scrollare in fretta la gemmea testa ed era per iscuotere un bacio che le si era avventato come un calabrone. IV. Quando la manovella dell’organino, occhieggiata da tutti, stava per discendere il suo primo mezzo arco ad annunziare una nuova polca, sette ballerini già ronzanti o appostati strategicamente si slanciarono da sette parti per agguantare la _totina_ Elena; ma poi tutti si ritrassero rispettosamente, vedendo che il cavaliere Alfredo si era mosso per pigliarla lui. Questo giovane artista e signore, che a trent’anni credeva ormai di avere perso il sapore della vita e di avere già logorato nelle sue fucine intellettuali tutti i mondi esistenti e possibili, ed era tornato in quell’autunno a Villarbona, nauseato a morte della istituzione femminina, delle donne spettacolo, delle corporature dense, delle maturità frenetiche che beatificano o galvanizzano i sardanapali cittadini, egli partito per quella polca provò una nuovissima ed insperata vertigine sentendo palpitare ed aderire fra le sue braccia il giunco della innocenza, lo stelo del fiore, il virgulto virgineo, la cartilagine bambinesca.... Gli pareva di essere avviluppato con una inebbriante leggerezza in una nuvola tutta pollini di rose e pollini di gigli, e di volare a strane nozze con una farfalla angelica, che lo infarinasse della sua cipria celestiale. Nella prima sosta giuridica della polca, messosi in riga, trafelante, discese dalle alture dei suoi rapimenti e s’accorse che aveva daccanto quella graziosa bambina diventata feroce per la pura voluttà del moto come il vento. Ed egli, che pur aveva fatto le più audaci, severe, capitali corti dei saloni, non sapeva che cosa dire a quel demonietto che gli balzava a lato; si vergognava, malediceva di essere quello ch’egli era, avrebbe voluto invece essere anche lui uno studentino, un quindicenne fattorino di caffè, conoscere la loro lingua, sapere i bei motti che essi adoperano per interessare quel genietto fisiologico della danza e forse per farsene amare. Intanto rimaneva nella contemplazione più _oca_, quando lo scosse un colpicino di gomito. Era lei che con due occhi traforelli e con una pugnalata di voce da ladroncello che proponga un assalto al ciliegio altrui, gli disse: — rubiamo. Egli non ebbe tempo di osservare che veramente alla sua età e alla sua condizione.... non n’ebbe il tempo; perchè essa, rapinandolo a braccetto, lo fece correre innanzi, calpestando i sacrosanti diritti di dodici coppie aspettanti, e lo ricacciò nella polca; lo fece rivolare più acremente di prima in un nembo tutto pollini di fiori e cipria farfallina, e quasi lo ridusse a svenire facendogli sentire stretta in braccio la leggerezza di un angelo. Dopo quel giro, il cavaliere Alfredo condusse la sua ballerina nel salotto del buffet, e come avesse perso la testa, domandò dello sciampagna. Il garzone del servizio, non volendo dare a vedere che egli non teneva dello sciampagna e che anzi non sapeva nemmeno che cosa fosse, rispose: — Mi rincresce, signor cavaliere; se vuole, abbiamo ancora degli agnellotti ed un arrosto freddo. Il.... lo.... quello che ha detto lei, lo hanno già mangiato tutto. — Il cavaliere sorridendo gli ordinò che gli desse in cambio della gazosa o meglio una bottiglia di Canelli. Bevuto il néttare monferrino, egli ed essa dissero contemporaneamente: ho caldo; come dirà contemporaneamente per tutti i secoli ogni coppia di ballerini, che abbia volontà di discorrere senza testimoni sopra un balcone. Andarono sul balcone; si strinsero le mani, dentro cui cominciarono a confluire i fiotti accesi e tumultanti del sangue. Egli si fece coraggio, e le domandò: — Elena, sono curioso; quanti anni hai? Scusa veh! se ti do ancora del tu. — Vorrei vedere, che non mi desse più del tu, a una cittona come me. — Dunque, quanti anni? — Ne ho già tredici. — Appena tredici? Bambina! sei ancora giovine come l’aglio.... Io sì, che sono già vecchio da ammazzare. Spaventati! ne ho già trenta. — Oh, per un uomo non è mica niente.... — Taci tu, cittona, che ne hai tredici e non sarai ancora passata alla prima Comunione. Sei ancora una povera innocente. Tredici anni! Che bella età! Mi rallegro; (quindi con impeto): Ah! adesso capisco perchè tutti ti possono baciare senza far peccato..... Ebbene fammelo anche a me un bacio.... — No! — Tanto lo sai, che non è peccato. — Sì, che è peccato. — Fammelo un po’.... — Mai più. — E perchè non vuoi farmelo a me un bacio? Mi offendi. Perchè? — Perchè. — Perchè ti sembro vecchio come il cùculo! — No! No! No! (come tre pistolettate; e poi con una scintilla improvvisa, inesprimibile): Perchè lei è bello, e glielo farei d’amore.... Dove è montata la sua testa? Essa sfacendosi gli diede a suggere un lungo ed ardente bacio. Scintillarono le volgari stelle che fanno sempre da candeliere sopra tutti i balconi, in cui si becchino due tortore. Alfredo si riscosse stremato da quel bacio; le serrò la fronte tra le proprie mani, e spingendola indietro lei disse con suprema amarezza: — Vai là, povera ragazzina! alla tua età, sei veramente degna di morire! — Quindi la ricondusse nella sala da ballo e la restituì ai suoi telegrafisti, e computisti, e studentini e fattorini. Egli, infilzato il pastrano, lasciò la festa e siccome aveva un’anima ragionevole, ragionò così: V. — Ho detto giusto a quella fanciulla che sarebbe benedetta da Dio, se partisse proprio adesso da questa valle di lagrime, come dice la _Salve Regina!_ Essa, perchè si sente un profumino alato, crede adesso di poter amare a cielo aperto come amano i fiori suoi fratelli e le farfalle sue sorelle; crede che i ballerini a cui si avvinghia abbiano una animula da garofano o da libellula come ha lei; non sa le laide osservazioni che fanno sul suo conto quegli scribi e strofinaccioli; non conosce la loro anima belluina, la loro sanità selvaggia e le loro malattie della civiltà infracidita; non sa perchè molte volte dell’anno portino nel taschino una cipolla in luogo dell’orologio e perchè studino certi annunzi sulla quarta pagina dei giornali. Se vola via adesso, lo spiritello tredicenne andrà in un mondo migliore, in cui forse le bambine ameranno a cielo scoperto come le dalie e i parpaglioni; e se esiste il vecchio paradiso insegnato dalle nonne, i bei angeli grassocci e torniti si arroteranno giojosamente per riceverla, e scotendo le aluzze da scarabeo faranno piovere su lei un ineffabile zucchero pesto; e la Madonna, la più alta bellezza, che sia mai comparsa per i cieli e per le terre, la raccoglierà in grembo, ed essa la birichina incelata, col capottino riverso sulle sideree ginocchia della Mamma tutta santa, sentirà sotto la nuca la sofficità alma e profonda dell’oceano. Se invece camperà.... già non avrà un soldo di dote, perchè suo padre liquiderebbe in vino ed altri liquori la proprietà di sette chiese, e sua madre convertirebbe un globo terracqueo di beni parafernali in gale e cravatte vistose e in ghiottonerie di ascosaglia. Dunque Elenuccia non avrà un soldo di dote. Ancora giovanissima, le faranno sposare un veterano delle patrie battaglie, che le metterà su un’osteria, oppure la faranno maestra o levatrice comunale; ben detto comunale. Quante persecuzioni a quella povera bella, dai professori della scuola all’assessore anziano, dall’enorme cappellano ai direttori del libello quotidiano o del gazzettino didattico! e niuno saprà, vorrà, o potrà innalzarla a quelle stelle, in cui la donna cessa di esser donna per diventare Maria, e tutti la terranno con loro sulle spiaggie, in cui la donna cessa di esser donna per diventare Pasifae. Quando poi sarà divenuta vecchia prima del tempo, scipata, diroccata, sorda, tanto che per farla sentire bisognerà parlarle dentro un corno acustico, — allora, se mai la vedranno comparire da un capo all’altro di una strada, sprezzeranno i suoi adoratori e consumatori della sua gioventù. Niuno proteggerà il suo diritto alla pensione, le sue cartelle e le sue scritture di credito, se ne avrà. E quando essa sarà morta, per dieci anni farà ancora sghignazzare le tavolate col ricordo del suo corno acustico. Elenuccia, senti: va via da questo brutto mondo; va via, nella tua primavera sacra, mentre hai tredici anni, mentre sei innocente, sei fiore, sei farfalla; va allo spolverio inzuccherato degli angeli che ti attendono; va sulle ginocchia sconfinate della Madonna _consolatrix afflictorum._ Sei degna di morire. — VI. Qualcheduno non intese a sordo le paure del R. Ispettore, le preghiere del santo arcivescovo e il lungo soliloquio del cavaliere artista: e fu un personaggio coreografico che non parla, il Sole. Questo pastore di mondi, cui regge, illumina e colorisce, sebbene di indole impassibile, qualche volta si degna fissare nel mare infinito degli esseri da lui dipendenti qualche pecorella prediletta, e specialmente qualche bella ragazza. Un mattino di aprile, Elena Floresin sciorinava sul ballatoio la biancheria di bucato; si levava sulla punta dei piedi, tendeva le braccia, si torceva, si spenzolava, come volesse sciorinare tutta la sua forma al sole: girava il capo come volesse leccarlo, incoronarlo di raggi; gli si spiattellava innanzi come un ninfale elitropio. E il sole le corrispondeva: faceva correre palpiti di calore crescente nel suo altoforno empireo: i suoi raggi cocenti fremitavano: e cremandola le artigliavano la testa come carezze di leone amoroso. La mamma da basso gridava: Elena, vien giù.... Non hai ancora finito?... — No, mamma. — Che cosa fai?... A momenti vengo su io.... Non sembra vero.... Stare lì delle ore ad alloccare quei seminaspezie che tornano dalla scuola e che non valgono ancora tutti insieme un bottone nell’aria.... a costo di prenderti una solata.... vieni giù, dico.... ti comando di venir giù. — In quel punto Elena si sentì crocchiare qualcosa nella testa, come uno schiaccia-nocciole le avesse fracassato la vôlta del cranio; e discese a basso con una encefalite. Quattro giorni dopo, essa era distesa sopra un fianco nel suo letticciuolo con le braccia riverse fuori delle lenzuola in segno di eternale stanchezza. Pareva che le sue labbra sfarfallassero: dormo: non toccatemi in eterno. E niuno era ardito di toccarla in quel momento, salvo una mosca. Pareva che la morte l’avesse ridotta in marmo cogliendola nell’ascesa di un palpito, e conservando nel cadavere verginale tutte le tumide promesse di una splendida Eva. Suo padre e sua madre ululavano; e furono trascinati in casa dei prossimi parenti. Si fece la sepoltura a mezzogiorno. Le campane spandevano rimbombi, che incalzavano al cimitero tutto il villaggio. Il sole glorioso rinfocava nel suo coperchio fiammante i suoi marosi di luce; e si univa alle campane per isferzare al cimitero le nuche dei sacerdoti, dei confratelli, delle consorelle e dei bimbi infiorati. Niuno poteva reggerne il riflesso. Erano obbligati a calare le palpebre, e così procedendo ad occhi chiusi vedevano le strane visioni dell’emorragia: laghi di pece, in cui guizzavano e si coagulavano raggi neri, iridi nere. Un’onda di suono, di sole, e di malinconia avvolgeva e conduceva al cimitero tutto il villaggio. Ed agli sguardi del campanaro che sbatacchiava dall’alto, il funerale pareva avanzarsi in un deserto immenso, svolgendosi come un bruco caldo, colle punte del dorso scintillanti. Quando sentirono il tonfo della piccola bara, i fiori circostanti mostrarono un tremolío di letizia come per un tocco farfallino, e ravvivarono i colori, per fare un complimento festoso alla nuova vicina. VII. Nel principio dell’inverno seguente il cavaliere Alfredo, già fatto deputato, si sentì stomacato della vita. Gli pareva che l’umanità in generale e l’Italia in particolare fossero carcasse fruste, e che i nostri scrittori e artisti più adulati d’adesso, succeduti immediatamente alle olimpiche, pelasgiche, e basilicali intelligenze di Canova, di Leopardi, di Gioberti e di Rossini fossero scarafaggi ischeletriti, mancanti dei due sacramenti fondamentali dell’arte, lo studio o l’intuizione dell’antico e l’osservazione o l’intuizione moderna, sbalzati dal polo della realtà, sbalzati dal polo della tradizione, — che uno di essi non avesse nerbo più appropriato di quello che ci vuole per dare la biacca a un centurino e un altro non avesse maggior cervello di quello che si richiede per combinare un giuoco di pazienza infantile; — che il resto del prossimo fosse bestiame di Sallustio; — e che intorno alla sua persona non si aggirasse più un solo cervello integro. E sentiva una smania prepotente di dare una presa di somaro a tutti, compreso il signor sè stesso. Per lenire quel fastidio disperato, egli pensò di ricoverarsi nella solitudine della sua villa e di passarvi tutto l’inverno. Quivi giunto, venne assediato dalla neve che salì così alta da toccare le ginocchia a Giorgio Antenna, il più grandonaccio svivagnato di Villarbona. Guardando dalla finestra, Alfredo vedeva soltanto guanciali, tumuli, baratri e basterne di bianco; nella corte, sul legname da ardere vedeva cinghiali squartati nel marmo. In mezzo a quel silenzio, a quel freddo e a quegli albori scintillanti, il nobile artista sentì emergere nella sua fantasia l’immagine di una vergine borghese, di Elena Floresin. E si disse: — degna di morire, essa doveva vivere per la mia vita; solo il picchio vivido del suo sangue potrebbe snidarmi questo gelo scettico dalle ossa: farmi riamare il mio paese, il mio mondo e forse anche gli scrittori e gli artisti contemporanei. Come sarebbe bella questa neve immensa per noi due; trovarci prigionieri insieme, volerci bene tutto il giorno, rincorrerci con la scopa per la fuga delle stanze, baciarci dietro un uscio e poi scendere in cucina a fare le cialde! — AL DOTT. PIER ANGELO FALDELLA IN CASA. _Caro Pietro_, Tu sai, che da qualche anno ho preso l’usanza (dubito non troppo lodevole) di incomodare le nozze degli amici con una novelletta più o meno adatta all’occasione. Figurati, se volevo lasciare esente da questo disturbo te, che mi sei legato non solo della più tenera amicizia giovanile, ma da stretti, quanto soavi vincoli di parentela. Mi rincresce soltanto che per una lunga dissuetudine letteraria, per le occupazioni forensi, per le recenti commozioni politiche elettorali, per la fretta e per tutte le ragioni delle cattive lavandaie, ti ho abboracciata una cosuccia assai scadente. Non è però per nulla scadente l’affetto, con cui te l’offro, e ti prego di farla aggradire, anticipando, se ti è d’uopo, un imperioso sguardo maritale, alla gentile e colta cugina Clara, che domani assume il tuo nome e l’impresa della tua felicità nella vita. Saluggia, 29 novembre 1876. _Tuo aff. cugino_ GIOVANNI FALDELLA. LA LAUREA DELL’AMORE TRITTICO NUZIALE. I. LUI. Egidio usciva nelle sere d’inverno dalla Biblioteca dell’Università di Torino, con un viso così turgido di felicità scientifica, che insultava le felicità di genere diverso, le quali uscivano dal teatro Regio. Egli non si fermava mai per istrada, ma studiava il passo verso la sua cameretta; e appena rientratovi, accendeva taciturno la sua lucernetta a petrolio; quindi apriva un librone, che rinserrava potentemente fra i due gomiti, mentre coi pugni ratteneva la testa preponderante sulla pagina letta. La fiamma del petrolio sembrava si allargasse pavoneggiandosi, o ristesse immobile per corrispondere alla grande attenzione del giovane studente. Scoccavano le ore piccine, quando egli entrava in letto, sentendosi dolere le gambe irrigidite dal freddo. Lo aveva assorbito l’anatomia. Allorchè egli studiava l’orecchio dell’uomo, gli pareva che tutta l’umanità e tutto il mondo consistessero in un orecchio, e che fossero per lo meno inutili le botteghe che si aprivano e i Consigli comunali che si radunavano, perchè non servivano a studiare l’orecchio dell’uomo. Lo stesso gli succedeva man mano che prendeva a notomizzare gli altri organi. Dopo tanta biblioteca, dopo tante veglie e tanta anatomia, egli vedeva come una terra promessa la laurea da dottore: La laurea, titolo di nobiltà borghese, per cui il pizzicagnolo, quando il conte si serve nella bottega di lui, spendendo meno dell’avvocato, dice: quello là si chiama nobile? Nobile è l’avvocato che ha guadagnato con lo studio sacrosanto il suo bravo titolo, che canta, mentre il conte, il conte che cosa conta?... (non è nemmeno capace di prendere un metro di salsiccia per volta); La laurea, valore commerciale nei matrimoni, per cui molte damigelle di fittajuoli e di negozianti disprezzano onesti ed utili partiti in abito di colore, per aspettare un laureato in abito nero; La laurea, per cui Egidio avrebbe avuta la visita del clero locale, nel giorno successivo ai suo ritorno nel paese natío; La laurea, per cui il cugino materno, il canonico Cornacchia avrebbe grattato un sonetto dalla sua cetra scordata, che nel giornale della provincia è sempre detta la _chiara, feconda, robusta ed erudita cetra del canonico Cornacchia_; La laurea, per cui il campanaro del paese avrebbe suonato a festa per un bicchiere di vino; La laurea, la laurea, la laurea.... * * * Venne il tempo della laurea. Il segretario, il bidello della Facoltà e i portieri dell’Università si degnavano sorridere ad Egidio e rivolgergli il discorso. — Ah!... Lei è casalasco.... Di Casale abbiamo laureato.... — No, sono di Alessandria. — Ah! È alessandrino.... di Alessandria abbiamo laureato Rattazzi. Egli provò l’emozione di ordinare al sarto il suo primo giubbino nero a coda di rondine e di comperare la prima cravatta bianca col primo _cilindro_ a schiaccia. Eccolo sul pulpito nell’aula magna del Regio Ateneo. Gli sta davanti il tribunale dei professori. Alle prime obbiezioni, che fece alla sua tesi un dottore collegiato cominciando col mellifluo: _Onorevole candidato_! di prammatica, egli sentì una strana possanza; gli parve d’essere armato di un cannone rigato contra nemici armati di quegli schioppetti fanciulleschi, che lanciano chicchi di meliga. Infatti lo scibile umano si è allargato tanto, che un giovane laureando, toccato il fondo a tutto l’universo della biblioteca sopra un punto di scienza e ciò nei giorni prossimi alla laurea, ha molti vantaggi contro ai vecchi professori, la cui memoria può essere lontana dagli studi speciali su quel punto scientifico, ed è gala, se voga sulla superficie generale della scienza. Dopo la prima risposta, egli credette di avere sfondato il tribunale dei suoi Minossi; e gli parve che gli altri _onorevoli contraddittori_ divagassero innalzandosi come allodole, per non essere a tiro del suo cannone rigato. Quando il Preside della Facoltà suonò il campanello e gli ruppe le parole in bocca con un basta! accompagnato da un sorridente cenno di approvazione, Egidio si trovò lì sulla bigoncia, mozzo, non sazio del suo combattimento, mentre tutta l’aula magna zittiva inorecchita, e dal secreto camerino dappresso si sentivano le pallottole dei voti discendere nel bossolo. Rientrò il bidello con una curva di testa e un allargamento di braccia, che dicevano nella più untuosa unzione da San Grisostomo: _Optime! Adprobatus!_ Il preside della Facoltà lesse una sentenza, con cui giudicava Egidio dottore in tre o quattro scienze. Egli, balbettate due o tre parole di ringraziamento, si trovò senza saperlo, nelle braccia e fra i baci dei suoi cari, dei suoi amici e persino di lontani conoscenti, genitori e genitrici di ragazze speronate da marito. In quelle strette uscì dall’aula così intontito, che si sarebbe dimenticato di dare la mancia al bidello e ai portieri, se questi coi loro strisciapiedi non gli avessero pestato un callo. Sotto i portici fu mortificato di trovarsi col domenicale addosso in un giorno di lavoro, con la cravatta bianca, coi guanti bianchissimi, che gli pareva toccassero terra, mentre passavano tante casacche e tanti _gianduja_ borghesi, che avviati alle loro faccende guardavano trasognati lui in quello stato. Gli pareva di essere un cane sapiente e gualdrappato seguitato dalla folla. Entrato in un caffè con la comitiva, corse pericolo che un avventore gli comandasse un giornale, scambiandolo per un fattorino, a cagione di quelle maledette falde a coda di rondine. Dopo il pranzo di gala, Egidio si svincolò dai suoi cari, dai suoi amici, dai lontani conoscenti, vecchi genitori e genitrici di speronate ragazze da marito, e spogliatosi della bardatura solenne volle girar solo per la città. La sognata, la promessa, la biblica laurea non lo aveva soddisfatto quanto si era aspettato. Egli anzi si sentiva da meno di prima, perchè privo di quella aspettazione, che dianzi lo riempiva; e se la pigliava rabbiosamente col Governo, che gli aveva fatto consumare sì grande quantità di fosforo per dargli quello straccio di diploma, e poi per compenso dei suoi studi non gli dava nemmanco per giunta un sigaro dicendogli: va e fuma alla mia salute sotto i portici di Po. Libero del _basto_ della laurea, egli si aggirava leggero per le vie e fra la calca, come un monello, come un ladroncello, e sentiva una voglia acre di assaltare qualcheduno, di conquistare qualche cosa, che non sapeva nemmanco egli che cosa fosse. II. LEI. Sofia era stata messa da piccina in uno dei più rinomati collegi della Germania. Ancora giovanissima, avea pianto la perdita di una pesca, di un orecchino e dei suoi cari sopra il petto spianato e crocifisso della madre superiora; aveva pianto lacrime di sangue, perchè negli ultimi giorni di carnevale le sue compagne ballavano fra loro nella foresteria, mentre suor Dorotea suonava la fisarmonica e suor Giolitta con il garbo di un sacco le guidava in danza; sì! le proterve osavano ballare, quando Gesù Cristo era morto in croce per la salvezza delle loro anime. Aveva sofferto una terribile paura di avere offeso per sempre san Vincenzo, perchè un giorno le era capitato di bagnare un biscotto di più nel caffè e latte. Poi a poco per volta le erano svanite le infantili morsicature e ubbie religiose. Si era acconciata a ballare con le compagne alla musica di suor Dorotea e colla guida di suor Giolitta. Aveva provato anch’essa le gioje profane dell’educandato, come a dire: la venuta mattutina del garzonetto della panetteria col corbello pieno di pane fresco, che mandava un alito caldo di appetito; le prime ciliege; il quaderno di calligrafia lussureggiante pel nastro di seta verdissimo, e splendido pei caratteri gotici e inglesi nell’azzurro più metallico; poi l’esame, lo straordinario esame, la cui aspettazione occupava l’intiero collegio da sette mesi, dovendo venire apposta per esso un monsignore da Roma; e poi la visita di un fratello di suor Giolitta, un ufficialetto di cavalleria, il luccichìo dei cui bottoni lampeggiò e lo strascichìo della cui sciabola echeggiò per due mesi nei cuoricini di tutte le educande. Ma in certe meditazioni, nella strombatura di una finestra acuta, davanti l’uggia del tempo autunnale, in certe corse pel giardino, di primavera, in certe soste presso una siepe che odorava in piena fioritura, a certi frizzi e schiaffi di vento favonio, essa si sentiva vuota di tutte le dolcezze collegiali. La opprimeva, la affogava una crudele malinconia: una ressa di pianti non lagrimati: un desiderio spietato di cose sconosciute. Allora avrebbe voluto su due piedi, buttar via la sua allegra vesticina da educanda: assumere sul petto la piatta stola di una monaca e sulla stola un crocione; tagliare le sue ciocche e accartocciare la testa tosata fra le cornette aleggianti della suora di Carità; domandava a sè stessa un androne di ospedale, una fuga lunghissima di letti con lamenti lunghissimi di infermi; ed essa su, in un attimo, atteggiata a santa, a martire da oleografia ideale, versare parole, preghiere, balsami fra quei tribolati...; insomma tutto un castello, un grandioso castello di tarocchi, che bastava un soffio a buttar giù. Infatti spuntavano a un tratto, spuntavano, pullulavano da ogni parte, a turbarle l’incanto delle sue visioni, e si mescolavano nella sua testolina piccole apparizioni di demoni da ospedale e da ambulanze, ufficialetti feriti e studenti vividissimi coi labrucci spruzzati di battetti neri. Allora Sofia scrollava la sua testolina e le sue fantasie, e correva a imbrancarsi scarica e folleggiante fra le compagne; a riappiccare il fulgore delle gioie collegiali, come a dire la merenda, i quaderni e tutta la geografia per l’esame; ed allora era persino capace di arrampicarsi come una pica sulle spalle della madre superiora. * * * Dopo quattro anni di prigione, Sofia uscì col piantoriso dell’educandato, e rientrò nel borgo natío, in casa della nonna. Col suo ingegno sottile e concettoso, essa comprese subito, che il collegio da lei lasciato era un mondo piccino, una vignetta da _Giardino di devozione_, mentre il vero mondo era di fuori, il mondo degli avvocati, che procuravano giustizia, dei medici che procuravano salute, dei terrieri che facevano fruttificare la terra, delle mammine, che educavano le figliuole e delle figliuole faccenti, che rassettavano la casa. Un giorno la nonna disse a quel sennino: — Sofia, sai, domani sera voglio condurti a ballare.... — Con chi devo ballare? — Oh bella! Si balla coi ballerini. — Come? Coi ballerini? Oh no! no! Ci ho da essere anch’io.... se hanno da farmi ballare coi ballerini.... E voglio vedere chi sarà quel giovinotto che avrà il coraggio di pigliarmi per le mani o per le spalle.... Piuttosto gli graffio la faccia. La nonna rise saporitamente tergendosi gli occhiali con un guanto di pelle usato, e conchiuse: — Brava, la mia creaturina feroce! te lo aveva detto solamente per ridere. Pure sopravvenne anche a Sofia il pentimento di quella volontaria ripulsa. Parve anche a lei che la vita delle fanciulle fosse una vita senza costrutto, se esse non andavano al ballo. L’uscita dalla messa grande, mentre i moscardini del paese le aspettavano in ordinanza, fuori della chiesa, con l’ala vistosa della pezzuola di seta rossa, che spuntava dal nido del taschino del loro farsetto, — la passeggiata sotto i viali nel pomeriggio della domenica, mentre gl’infaticabili moscardini andavano su e giù fumando il loro sigaro e mostrando due altri sigari nuovi che rizzavano il collo dallo stesso taschino della pezzuola rossa, tutto ciò era un bel nulla rimpetto ai diritti che secondo lei spettavano alle ragazze ammodo: ci voleva il ballo, il ballo, il ballo. Sofia ne tempestava la nonna, la quale le rispondeva: — Se non lo volevi tu.... — Io allora, nonna, non sapevo nemmanco che cosa dicessi, non ragionavo.... — Mia cara nipote, tu ragionavi meglio, quando non avevi l’uso della ragione. E chiudeva il discorso chiudendo la tabacchiera. La povera Sofia credeva ingiusti per lei il Signore, il cielo, la terra, la nonna, perchè non le era consentito di andare a ballare; e qualche volta, sola nella sua cameretta, si dilaniava secretamente dal dispetto, pestava i piedi, mordeva le cortine, e poi piangeva.... Piangeva e quindi si asciugava gli occhi con tratti di fazzoletto, che parevano colpi rabbiosi di spugna. * * * Finalmente si annunziò nel paese un ballo straordinario, un ballo di beneficenza. — Questa volta, nonna, non puoi dirmi di no. — Perchè? — Ma se è per beneficenza!... per metter su un asilo infantile, per custodire i bambini, acciocchè non siano pestati dai buoi, non caschino nei pozzi, nelle fontane, non piglino raffreddori coi piedini nudi nelle pozzanghere.... — Basta, basta, demonietto! hai ragione.... Quest’asilo è fatto apposta per te e per gli altri bambini.... E annuì alle istanze della nipotina, lisciando l’ultimo fascicolo degli annali _De propaganda Fide_, sua lettura prelibata. Chi può dire l’affanno di Sofia per l’acconciatura del primo ballo? Provossi e riprovossi cento volte al giorno davanti lo specchio; si mise una camelia bianca fra le trecce castagne, poi più su, e poi più giù.... fece sopra sè stessa cento tortuosità di serpentello; e poi scappava folleggiando ad abbracciare la nonna o un cuscinone. * * * Appena entrata nel ballo, Sofia si trovò rimpiccolita, disadorna, mortificata, scandalezzata dalle spalle e dalle turgidezze scoperte di certe signore; e col suo cervellino da aquilotto gentile capì subito che cosa era e che cosa sarà sempre un ballo di provincia; se ne inquadrò in testa la stereotipia. La quale stereotipia è composta dei seguenti caratteri: Una ragazza, la più vecchia, la più piccina, la più snella e la più povera del villaggio, in preda alla speranza di conquistare il lanternone più giovane, più alto, più sciamannato e più ricco; il quale, poveraccio! dopo una tiritera di quasi mezzo secolo finirà col dirle a cinquant’anni, che non la può sposare per opposizione dei propri genitori, il fanciullino! Una fanciullona dalle forme più ubertose e più irrompenti, che si possano trovare in un circondario, tutta susurri, con un gramo ragno sparutello, due esseri fra loro perdutamente.... impossibili, come la flogosi e l’etisia; Due o tre zitelle, che recitano a un professore di letteratura, per accenderlo di loro, l’ultima poesia dell’_Emporio pittoresco_, intitolata _Voci di Gattina_, emesse da Alfeo Alfei, scolaretto ginnasiale, poesia che esse credono una lirica europea; Una signora, con un cervello di gallina, che schiamazza dei _Come? Come?_ ai complimenti che le dirigono i cavalieri più consumati, e risacchiando sempre, vuole farseli ripetere forte forte, affinchè tutto il ballo li senta; Quattordici giovinotti che dicono contemporaneamente la stessa cosa a quattordici ballerine: — _Si diverte la signorina? — Grazie! E lei? — Come ho da fare a non divertirmi, con una ballerina così.... come...;_ Due o tre cavalli da corsa, che sbuffano, sbuffano in modo da far pietà a un medico-veterinario; Ecc., ecc. Finito il ballo, Sofia ritornando a casa tutta rinfagottata, incontrò per istrada alcune vecchie contadine che andavano alla Messa prima, alcuni contadini, che recavano le loro secchie di latte alla cascina; passò davanti alla bocca infernale di una fornace, che aveva cotto mattoni per tutta la notte; ed essa Sofia si sentì disgustata, pentita, quasi vergognosa, senza sapere nemmanco qual cosa la vergognasse. Come si trovò sola nella sua cameretta, aperta la finestra, davanti ai rimproveri del mattino che si affacciava fresco e pulito a compire il debito suo, essa stracca, impolverata, con le narici inaridite, stoppate, con la gola arsa, confessò a sè stessa che il ballo non le aveva dato un milionesimo delle gioie che si era ripromesse; e stette lì un pezzo, dinanzi ai rimproveri del mattino, aspettando, sognando una più vera soddisfazione, un nuovo Messia, una cosa che non sapeva essa medesima che cosa dovesse essere. III. TUTTI E DUE INSIEME. La cosa, il Messia, la vera felicità, che sta sopra la laurea, sopra il primo ballo, sopra tutti i pinacoli di aspirazioni, che si innalzino nei cervelli e nei cuori dei giovani d’ambo i sessi, è lo sposalizio, che con frase napoleonica si può chiamare il coronamento dell’edifizio, il matrimonio, cui il mondo pagano e il senatore Mantegazza elevarono alla dignità di Dio: Hymen, o hymenæe — hymen ades o hymenæe! Sofia ed Egidio si videro e si piacquero. Già varcarono lo scabro periodo dei dubbi, delle aspettazioni, delle notti insonni, angosciose, febbrili, degli affari legali, delle visite agli orefici e ai mercanti per le spese sacramentali. Egidio non aveva più quell’aspetto di _cavaliere della triste figura_, che assumono d’ordinario i fidanzati; Sofia non aveva più quel fare impacciato, ingommato, proprio delle promesse spose. Era spuntato il gran giorno. Le campane squillavano più argentine; cori di passeri e di allodole cantavano il duetto nuziale di Catullo; le allodole: _Ut flos in septis secretus nascitur hortis..._; — i passeri: _Ut vidua in nudo vitis quæ nascitur arvo..._; — e tutti insieme passeri e allodole: _Hymen o hymenæe, hymen ades o hymenæe!_ Lo sposo era vestito di nero come un magistrato; la sposa era tutta bianca come l’immagine della Prima Comunione. Entrarono nel palazzo municipale. — Oh quanto scrive il segretario dello Stato Civile! — Quale necessità di scriver tanto? — Presto! Presto! Gli sposi entrarono in chiesa. — Come è lunga la messa! — Grazie, arciprete, ella parla come il Cantico dei Cantici! — Grazie! Noi l’abbiamo capito! Grazie! grazie! Seguita un corteo, un circolo, una colazione. Tutto è pieno di complimenti, di strette di mano, che gli sposi non capiscono nemmanco donde vengano. Poi alla fin fine si è sul marciapiede della stazione. Giunge il convoglio.... Le signore piangono.... Gli sposi montano sulla predella di un carrozzone di prima classe... Dal marciapiede si protendono mani, sventolano fazzoletti.... Gli sposi si rinchiudono nel carrozzone.... Il treno fischia, parte. Le signore del marciapiede singhiozzano; gli amici, i signori, ritornano indietro sorridendo, malignando, quasi ingrulliti. A trovarsi sola per la prima volta in un convoglio con l’unica scorta di un giovinotto, Sofia ha l’aria di una tortorella fra gli artigli del nibbio. Negli occhi del nibbio si legge la contentezza della preda. Il fragore delle traverse e delle rotaje fa ribaltare nei due cuori giovanili i soliti versi di Catullo.... _Hymen ades o hymenæe...._ Poi una città sconosciuta, un albergo sconosciuto. L’albergatore e i camerieri ricevono i due fuggiaschi con un inchino e un sorriso intelligente, che frena un leggiero desiderio di canzonatura, ma lascia tralucere chiaramente l’aumento speciale che essi faranno sulla nota, mezzo semplicissimo con cui anch’essi i buoni albergatori si degnano festeggiare i viaggetti della luna di miele. Poi lo smorzare tragico di una candela. _Quid faciant hostes capta crudelius urbe?_ _Hymen o hymenæe, hymen ades o hymenæe._ Poi l’indomani la visita ai monumenti. — Mia unica! Questa Certosa non vale un fico secco, rimpetto alla nostra contentezza.... È una imbecillità. — Mio bello, questo Michelangelo non mi piace mica.... Andiamo via, piantiamolo senza dirgli nulla.... Disprezziamolo. Poi l’entrata nel villaggio sconosciuto alla sposa, nella casa nuova, tutta piena di mobili nuovi. — Qui tu sarai la regina. — E tu sarai il re. — Sì, mia sovrana, e niun governo costituzionale potrà fare la barba agli statuti della nostra famiglia bene ordinata. * * * Il giovane dottore, confortato dall’affetto della sua sposa, si inabissa con entusiasmo negli studi e nelle opere per la salvezza del suo prossimo ammalato; fa delle miglia e delle miglia a piedi per recarsi nei cascinali lontani; lotta lunghe ore, intiere notti con gli unguenti, col sangue, con le bende, fra lacere e fetide lenzuola, in una impassibilità statuaria per non delirare di un filo, per ridonare alla formula della vita qualche muscolo, qualche fibrilla, qualche essere sviato. Una volta ritornando a casa stanco, con un incomodissimo sentore di scompostezza negli abiti e nelle ossa, è assaltato per istrada dalla pioggia. Le risaje, le pozzanghere, il tempaccio lo circondano di un fastidio insopportabile. Egli allora solingo, tutto ammollato e grondante, ripensa la sua battaglia quotidiana ed ignorata contro la tortura del dubbio e della schifezza per resistenza altrui; domanda a sè stesso dove c’è maggiore e più sconfortata abnegazione della sua; fa il calcolo delle rimunerazioni che ne ritrae, fra cui il sogghigno delle megere medicastre e la gratitudine dei contadini, che per avere il pretesto di non pagarlo gli levano persino il saluto. Se la piglia con la società, che non si accorge nemmeno delle fatiche utili e oscure dei lavoratori semplici e onesti; gli sembra che il mondo conceda onoranze e innalzi statue soltanto ai macellai dell’umanità, ai pazzi e alle altre sue escrescenze destinate alla storia, mentre dimentica coloro, che senza solletico di trombe, di storie e di giornali, senza sorrisi di dame compiono il dovere loro quotidiano più necessario al mondo che il pane quotidiano. Conchiude che la sua vita è una solenne corbelleria, che deve anche lui lasciare il villaggio e i suoi _paesani quadri_, andare in città, spargere la sua chiacchera nelle gazzette e nei comizî, ammazzare il prossimo per occupazione spettacolosa del pubblico, squittire le sue freddure nei salotti, tuonare o sbadigliare nei caffè, perchè la patria innalzi anche lui ai primissimi posti. D’altra parte la signora Sofia, lontana per sì lunghe ore dal suo sposo, avverte come i suoi giorni trascorrono monotoni; e rimettendo sul tavolo il pesante giornale d’Egidio che ha tentato invano di leggere, legge poi inavvertitamente con la coda dell’occhio, gli annunzi teatrali nella quarta pagina: _Teatro Regio, Aida..._ Ciò basta per recarle innanzi un’atmosfera che le avvampa la testa e il petto. È il tepore che molce le scollacciature nei palchetti all’opera.... Le smaglia addosso un fascino di perle, un biancheggiare di mussola da ballo prefettizio. Ma ecco sente di fuori scrosciare la pioggia. — Poverino! Chi sa, dove ora si trova? E quando per la scala monta una pesta cara e conosciuta, essa con un sopprassalto apre l’uscio. — Dio mio! Egidio! In quale stato! Povero martire! E dandogli un bacio ed una tazza di caffè, gusta una gioia, una baldanza, con cui non possono neppure venire a paragone le opere di Verdi e i balli del Prefetto. Egli mordendo il collo alla sua Sofia, perde ogni sdegno contra la società, e giura seco stesso di essere sempre un lavoratore oscuro ed onesto. I due sposi sono davanti al fuoco. Egidio appinza e trasloca con le molle i carboni accesi. — Egidio, che cosa hai che non parli? — Ritorno studente di liceo e ripasso un capitolo di storia. — Quale? Dimmelo.... — Non voglio annoiarti.... — Su.... via.... — .... Penso che è un vero miracolo che i grandi uomini non abbiano ancora distrutta l’umanità. — Perchè non l’hanno distrutta? — Perchè ci furono sempre gli oscuri galantuomini a conservarla.... Certe volte, come nell’eccidio di Gerusalemme, nel sacco di Roma, o nell’incendio di Parigi, l’umanità ulula, sembra ferita a morte; perchè niuno potrebbe allora dichiarare al pretore che la ferita sia guaribile nè in venti nè in mille giorni. Eppure l’umanità si conserva sempre e progredisce.... — Perchè? — Perchè vi sono delle brave sposine come te.... — E dei cattivi mariti come te.... Il fuoco del camino manda una laurea, una aureola d’amore su quelle due teste umili e contente. * * * Poi viene il massimo dì, in cui la più mignola mammina diventa veneranda come sant’Anna e in cui il giovane più prosaico si trasumana di contentezza, — il giorno in cui un esile vagito, che saluta la luce, riempie una casa del più musico scampanío di festa. Poi vengono le cure delle piccole cuffiette, dei piccoli vestitini, delle piccole scarpettine che sembrano destinate a raccogliere la rugiada. Poi non bisogna dimenticare di mettere la basta agli abiti nuovi, perchè questi benedetti ragazzi crescono su a occhiate; poi bisogna adattare i calzoni del maggiorino al minorello. Poi il Collegio, la distribuzione dei premi; poi l’alterezza di avere un figliuolo, che si addottora in legge o in matematica, ma non in medicina sotto pena della diseredazione; poi amori e imenei anche per i nuovi giovani; insomma tutto quanto l’ordine divino e perpetuo della famiglia, mediante la quale l’umanità si conserva e progredisce, non ostante l’eccidio di Gerusalemme, il sacco di Roma e l’incendio di Parigi. * * * Pensando a tutto questo avvenire di belle cose, un _congiunto dello sposo_, giovane studente di lettere, che aveva fatto il suo bravo _sonetto per le auspicate nozze_ del dottor Egidio e della gentile signorina Sofia, perdette la bussola, come la perdette notoriamente il sindaco Benevasio Zuccotti nel 1859, quando si recò alla stazione per salutare in nome del municipio il re Vittorio Emanuele e l’imperatore Napoleone III, che si recavano alla guerra: — Maestà! — disse loro il dabben sindaco: — Maestà! — e poi restato in tronco, perchè il discorso imparato a memoria gli scappava via come il vento: — Maestà! riprese — per incarico del Consiglio comunale io vi impartisco la santa benedizione. Così il giovane studente, piantato davanti allo sportello della vettura di prima classe, mezzo scusato dal _sacerdozio delle muse_, piccato di fare il suo novantanovesimo complimento alla felice coppia, si concentrò per un mezzo minuto nel vuoto come il tamarindi di Brera e poi proruppe: — in nome di tutti i parenti e di tutti gli amici, in nome di questo inclito borgo, che voi lasciate, o felici sposi, ancora una volta.... — qui voleva dire _vi saluto_, ma impaperandosi pronunciò un grosso _vi benedisco_, — facendo risuonare l’elegantissimo _isco_ in mezzo alla ilare attenzione generale. La vaporiera sibilò la sua impazienza contra l’oratore. — Grazie, sindaco! — Grazie, prevosto! Risposero allo studente, mentre i vagoni si urtavano per pigliare le mosse, due gaie voci vibrate da gentilezza scherzosa. FINE. INDICE Pag. Rovine, racconto biografico 5 Degna di morire, figurina nera 167 La laurea dell’amore, trittico nuziale 193 Dello stesso Autore: =A Vienna=, _Gita con il lapis_. Torino, libreria Beuf, 1874 L. 2 — =Figurine=: _Carluccio — Lord Spleen — Dies — Galline bianche e galline nere — Sull’organo — High life contadina — I fumajuoli — Gioberti e Radeschi — La figliuola di latte — Un amore in composta — Gentilina — La vita nell’aja._ Milano, Tip. Edit. Lombarda, 1875 » 2 — =Narrazioni=: _Le conquiste — Il male dell’arte — Variazioni sul tema_. Milano, libreria editrice G. Brigola, 1876 » 2 50 Di prossima pubblicazione: =Geromino a Roma=, _Note di viaggio_. Torino, Francesco Casanova, libraio-editore. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK 74686 ***